I vaganti della pianura

di Sandro Marchioro

*Articolo uscito in precedenza sulla rivista Rem

Che non ci sia “niente da vedere” nel Polesine che Sandro Abruzzese percorre in lungo e in largo è ovviamente una provocazione che ogni pagina di questo libro accende. Titolo e sottotitolo (Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati – Con un racconto fotografico di Marco Belli, Rubbettino Editore, 2022) contengono in effetti molte indicazioni su quali siano le qualità di questo testo: il termine “vedere” è fondamentale, ad esempio, perché lo sguardo di Abruzzese mi pare sia una costante dei suoi libri, direi un desiderio di profondità che contrasta fortemente con il racconto superficiale a cui siamo abituati quotidianamente dal mondo dell’informazione, ad esempio, ma forse anche dal nostro stesso modo di guardare alle cose del mondo; Abruzzese invece “vede”, ma vede in fondo, non solo nel paesaggio che descrive e nelle suggestioni esistenziali che spesso questo paesaggio racconta (il vuoto, lo spazio aperto, il confine, il limite) ma anche e soprattutto nei meccanismi sociali di questo territorio, nella sua storia, nella sua vita piena delle contraddizioni del presente. E poi c’è quell’altra parola: “cronache”, che dà non solo un indizio di stile (perché in effetti la prima parte di questo libro è una cronaca di viaggio, o, meglio, di vagabondaggio) ma indica una precisa volontà di descrivere e di raccontare, come facevano i buoni cronisti di una volta, ma dico proprio di una volta, quelli del Trecento, i Dino Compagni, i Giovanni Villani, che osservavano, descrivevano, scavavano, raccontavano, e lo facevano con un occhio al mondo e con un altro alla scrittura, allo stile. Poi c’è la parola “Polesine”, che qui indica un territorio più ampio rispetto al Polesine di Rovigo a cui siamo solitamente abituati: e pure questa è una indicazione precisa, mi pare, perché questa visione estensiva del Polesine è corretta non solo dal punto di vista geografico, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, dato che chi conosce questa terra sa benissimo quanto il paesaggio sia unico e simile, e come siano uniche e simili le culture, le abitudini, le storie che in questo paesaggio si sono determinate. Ed è unica la trasformazione violenta che in queste terre hanno impresso i meccanismi economici che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento e i primi decenni del nuovo millennio: trasformazione che Abruzzese disegna benissimo con il suo linguaggio apparentemente cronachistico, in realtà profondamente letterario. E su questo mi fermo un attimo: Abruzzese aveva già dimostrato nei libri precedenti (Mezzogiorno Padano, Manifesto libri, 2015 e Casa per casa, Rubbettino, 2018) di possedere uno stile ben identificabile che ha la sua cifra più caratteristica nella fluidità con cui scrive, nell’abbondanza e nella precisione lessicale, nel saper incastonare perfettamente la riflessione dentro il narrato; mi sembra che in questo libro lo stile sia ancora più maturato, che sia estremamente nitido e che risulti chiaro anche al lettore più sprovveduto come lo stile (che poi è l’essenza della letteratura) sia lo strumento principale attraverso cui spiegare ciò che si vede, descrivere ciò che si osserva, comprendere la struttura profonda di quello che si muove davanti ai nostri occhi. Nella Prefazione, Angelo Ferracuti richiama, fin dalle prime righe, il nome di Gianni Celati, che il destino ha voluto morisse proprio quando il libro era in tipografia: certo, Celati è dentro questo libro, Celati ha fondato uno stile ed è stato maestro di molti, questo è innegabile, Celati è citato anche in esergo; ma a me pare che lo sforzo di Sandro Abruzzese di “dimenticare” Celati, mentre scrive, sia andato a buon fine, nel senso che il taglio, la costruzione del testo, la conduzione della scrittura sono pienamente di Sandro Abruzzese e, pur imparando dai maestri, non mimano nessuno e arrivano a dimostrare una personalità piena e pienamente autonoma. 

Restando ancora ad analizzare il titolo, c’è una specifica sotto di esso: “con un racconto fotografico di Marco Belli”. Vorrei dedicare qualche riga a questo: Marco Belli non è solo l’autore delle fotografie inserite nel testo e che accompagnano il racconto di Abruzzese. E’ molto di più. Marco e Sandro si conoscono e si frequentano da tempo, fanno tutti e due gli insegnanti, vivono entrambi in area ferrarese, hanno pubblicato entrambi dei libri che hanno avuto un buon riscontro. Marco entra spesso nel testo, ma non come l’autore delle fotografie soltanto: Abruzzese lo fa diventare un personaggio del suo racconto, forse il personaggio intimamente più importante perché è un supporto fondamentale allo sguardo sulla pianura, perché Marco in queste terre ci è nato e Sandro invece ci è arrivato da lontano, perché è il suggeritore di tante situazioni e perché, con l’umanità di Marco, Sandro si confronta continuamente. E se il Marco-personaggio ha una funzione in parte maieutica in determinate situazioni, il Marco-fotografo aggiunge una visione precisa e carica di suggestioni alle parole dell’autore. 

Ma entriamo adesso nel testo. Lo abbiamo detto: è una cronaca di vagabondaggio nelle terre del Polesine di Rovigo e di Ferrara. Ma non è solo questo. O meglio: è questo per tre quarti: perché ad un certo punto il viaggio si interrombe. O meglio: si interrompe il vagabondaggio ed inizia invece un viaggio. Ma ne parleremo più avanti. 

Il vagabondaggio, appunto, era iniziato dalla provincia di Rovigo, in particolare da quei piccoli borghi nei dintorni di Adria che oggi vivono uno spopolamento radicale, nei quali tuttavia si respira un’atmosfera assolutamente unica: ma è proprio in questo spopolamento, che spesso assomiglia alla desolazione, che Abruzzese infila descrizioni e analisi che raccontano questi ambienti con deliziosa capacità analitica. “La scala per il cielo di Villanova Marchesana”, “Le assenze di Adria”: sono i titoli dei primi capitoli che ci aiutano ad entrare nel testo con delicatezza ma senza incertezza alcuna. Perché nel raccontare questi territori l’autore va diretto al punto ed anche quando descrive nel modo più semplice una barista cinese che lavora in uno di questi piccoli borghi, è sempre chiaro e limpido il tema della trasformazione e del cambiamento traumatico di queste realtà da paesi agricoli con una propria identità ad agglomerati comunitari compositi, contraddittori e soprattutto desolati. Tuttavia, in queste descrizioni, Abruzzese non sembra attratto dalla sociologia, piuttosto la sua è una descrizione che porta con se una analisi schiettamente politica. E’ una delle chiavi del libro, questa: la presenza di un’analisi politica di quello che Sandro vede intorno a se: attenzione, non ideologica, ma veramente e profondamente politica, di quella politica di cui avremmo un gran bisogno oggi e che è la descrizione in chiave critica di quello che avviene in una comunità. Il vagabondare dei nostri due protagonisti (anche lo stesso Abruzzese, oltre a Belli, diventa pagina dopo pagina “personaggio” del libro) continua in altre località: Papozze, Ariano, Polesella, Bottrighe, Boccasette, e poi verso il ferrarese, Tresigallo, Massa Fiscaglia, Bondeno, Stellata, senza dimenticare di fermarsi a descrivere anche le strade (un capitolo è intitolato: “Sulla provinciale”) ed il rapporto complesso della pianura con le città e con le periferie e, soprattutto, di quella cultura dell’ ”essere qualcosa” che caratterizza, oggi, il rapporto città-borghi. Le persone che incontra diventano parte integrante del discorso politico di Abruzzese, sono pienamente funzionali alla descrizione di quel mondo, di quella comunità e delle sue contraddizioni: penso alla barista cinese di cui abbiamo detto prima, al suo allievo Baldoni, a Sofia, a Cristiano che, incontrato a Magnolina, dice cose bellissime su questa terra: “Il Polesine è palude, e della palude ha conservato l’attitudine a nascondere, la terra dei fuggitivi, di chi si sottrae. Il segreto dei fuggiaschi è il silenzio e, nel fango, nelle sabbie mobili, paludose, ci si sporca, se non si è attenti, si rimane dentro. Se vuoi sapere cos’è il Polesine pensa al fango: nel fango non puoi saltare a lungo né agevolmente, bisogna essere leggeri nel fango, avere poche pretese, nel fango. Questa è rimasta palude, qui le persone non amano svelarsi, sono abituate ai propri recessi, e non si può capire tutto questo essendo di passaggio. Devi tornare e ritornare, ma attento, nelle sue sabbie mobili rischi la vita. Devi muoverti lentamente, perché per uscire dalle sabbie, lo sai no, occorrono gesti lenti” (pag.27). Bellissima, direi. E magistrale la capacità di dare forma di scrittura a questo discorso, ovviamente orale in origine, di Cristiano.

Spesso si ha la sensazione, seguendo il filo delle riflessioni di Abruzzese, che questo suo testo abbia uno spessore di pensiero che sgorga anche dalla biografia dell’autore, “immigrato” in questa terra e quindi sensibile non solo al tema dell’accoglienza, dello spaesamento, ma anche portato ad indagare i luoghi, la loro essenza, la ricerca di senso che ci caratterizza quando li abitiamo e li viviamo. Citiamo: “[…] un luogo, qualsiasi luogo, è sempre un posto come un altro. E’ sempre importante o insignificante, privo di radici e fondante. Un luogo è il suo senso, annotavo, ma anche il senso che noi siamo in grado di attribuirgli attraverso la sua storia e il nostro attraversamento. Dunque, tutti i luoghi palesano, in maniera peculiare, un’esperienza. Solo che in alcuni è manifesta ed esteriore, in altri è complessa e stratificata” (pag 75).

Ma non vorrei aver dato l’impressione che questo testo sia tutto razionalità e niente cuore: di cuore, e di poesia, nel senso più pieno del termine, ce n’è molta, ed è perfettamente funzionale a descrivere l’umore di certi paesaggi, la loro bellezza, la loro forte carica di suggestione. Permettete un’altra citazione, tratta dal capitolo “Porto Garibaldi e il paese anfibio”, pag. 79, dove si parla di Comacchio: “Eppure i suoi dintorni sono ancora in prevalenza un unico mondo, completo e totale, in cui a guardarci è il nostro primordiale enigma. Le lagune e il Mezzano sono terre velate dall’assenza umana, di segretezze e mistero. E così spingono ad andare indietro, talmente indietro da arrivare alla nostra stessa assenza, per scoprire che il mondo c’era anche senza di noi, e che quindi l’essere umano non ha alcuna vera patria, per questo si aggrappa disperatamente a ciò che è familiare”. Anche quando Abruzzese pesta sul pedale della lirica, come si vede, è sempre pianamente lucido e profondo, e questa è una caratteristica costante del testo, che fa presa sul lettore e lo tiene sempre molto vicino alla voce dell’autore.

La pandemia interrompe le esplorazioni dei due amici e inizia l’isolamento. Ed inizia anche un altro libro, come dicevamo più sopra. A questo punto il testo ha uno scarto, vira, diventa stilisticamente qualcosa di diverso eppure, pur avvertendo lo stacco, si rimane attaccati al testo e si continua a leggere un libro di viaggio: non più in una pianura vasta costellata di paesi semi abbandonati, ma dentro se stessi, dentro l’incomprensibilità dell’isolamento, dentro le contraddizioni di una comunità o forse, in senso più ampio, di una civiltà. Questa seconda parte, delizioso scavo sulla società “pandemica”, è divisa in due sezioni che hanno, anche in questo caso, titoli scelti con molta attenzione: “Pastorali della quarantena” e “Fuori-luogo”. Vale la pena di ricordare che i “pastorali” sono un genere letterario specifico che ha avuto molto successo tra quattrocento e settecento, diventando anche un genere musicale di grande impatto in quelle società. Lo dico perché anche in questo caso, mi pare, la musica della prosa e la specificità letteraria del lavoro di Abruzzese sono il frutto di un lavoro molto attento e scrupoloso sulla parola, sulla sintassi, sulla strutturazione del testo. Il “mondo chiuso” (pag. 111) che ora l’autore si trova a descrivere, si contrappone al mondo aperto, agli spazi larghi della prima parte del libro: ma è un mondo chiuso che non si svuota di senso, o il cui senso non viene mai coperto dall’angoscia della situazione, perché la luce che viene dall’intuito indagatore dell’autore illumina ogni angolo buio, ogni spazio soffocato dalla chiusura: una chiusura che diventa un pretesto per indagare i muri che ci circondano, di qualsiasi materia siano costruiti, e che permette di pensare a tutto ciò che si muove oltre quei muri, cercando ragioni, senso, relazioni, mutazioni, traumi e speranze. Ecco una citazione significativa: “La vita ridotta a un fatto privato, privo di incontri, rimanda al coprifuoco delle dittature studiate sui libri. Per esempio, finalmente capisco l’eros morboso e decadente dei romanzi di Borgese e Alvaro. Essere isolati vuol dire imbrigliare i desideri, da cui la morbosità dei sentimenti, e vuol dire provare la spinta sovversiva a tramare per capovolgere tutto, fare della vita un fatto intimamente privato e politico. Una volta reclusi, il mondo si fa così piccolo da esserci spazio solo per gli amanti, per i rivoluzionari, per i risorgimenti e le resistenze, dunque per i loro avversari e aguzzini che richiamano all’acquiescenza” (pag. 114). Le ultime due righe di questa citazione sono bellissime: non solo per una questione di forma, ovviamente, ma perché leggono il nostro presente con un acume fuori del comune: di libri sulla pandemia ne sono usciti a decine: ma di quelli che ho letto questo mi pare capace davvero di dire qualcosa di nuovo su quello che è successo nei mesi scorsi e che ancora oggi sta succedendo. Costruire un libro così, facendo succedere ad un viaggio in movimento un viaggio da fermo, significa avere non solo una lucidità costruttiva fuori dal comune, ma anche possedere una forza di pensiero ed una capacità di lettura dei territori (di tutti i territori: fisici, interiori, delle comunità, della società e della cultura) non ordinaria e non certo diffusa: “Mi rifugio nel pensiero di luoghi inesistenti – scrive l’autore a pag. 115 – viaggi mai svolti, eppure appaiono più veri di qualsiasi realtà: ci sono strade, piazze, monumenti, edifici, con l’idea dell’ordine fondamentale, in cui giornali, tv, talk-show, fake news, shit storming, profili dormienti, sono agili strumenti di democrazie come dispositivo per ammansire la massa”. Una tendenza che, nel suo percorso di scrittore, Sandro Abruzzese ha sempre contrastato pienamente, trovando, in questo denso “Niente da vedere”, un approdo che, probabilmente, è solo attesa di altro da vedere.

Raccontare il Sud

*Articolo pubblicato sulle pagine culturali de La Repubblica-Bari

La rappresentazione e il meridione

Nel parlare di letteratura meridionale, avendo presente gli interventi dei miei predecessori su queste pagine, partirò col chiedermi che cos’è e dove comincia il Meridione e qual è la sua cornice. 

La mia risposta è che meridionali si diventa in rapporto alla nascita della civiltà tecnologico industriale. E che il Meridione può essere pensato solo in una relazione di interdipendenza con questo fenomeno epocale, quindi con la storia d’Italia e d’Europa. Nei meridioni europei, dunque, il quadro presenta cornici similari: disuguaglianze socio-economiche esacerbate, disoccupazione endemica,  conseguente emigrazione, spopolamento-inurbamento, una psiche collettiva ferita (complessi d’inferiorità-superiorità, filoni identitari, pseudo-revisionismi storici),  difficile conservazione del patrimonio pubblico e privato, aspetti cronici di corruzione e criminalità, scambio politico-clientelare, mancata creazione di classi dirigenti, debolezza delle istituzioni, ecc.

Se è in questo solco che si colloca la lezione maggiore della letteratura meridionale (la poesia merita un discorso a parte), quella realista che da Verga arriva a Leogrande, e se esistono solo due grandi temi epocali (la fine della civiltà contadina in relazione allo sviluppo di una civiltà tecnologica), allora il canone della rappresentazione meridionale necessita di due altri distinguo: il primo è che  diventa meridionale anche Rigoni Stern, con la sua epopea tolstojana di gente che cammina e migra come in un romanzo calabrese di Perri o Alvaro. Anche quella di Stern è la storia di chi ha subito la storia come pure accade col sardo Dessì che racconta della Sardegna di Paese d’ombre, con Deledda, o come Nuto Revelli fa nel Piemonte contadino. La nostra geografia muta i suoi confini per seguire, intersecando i nodi più significativi della storia, la strada già intrapresa da Silone e Carlo Levi.

L’altro punto è che il Meridione viene così a perdere l’aura mitica fatta di tradizione e unicità, in cui troppo spesso si crogiola, per dirsi simile a molti altri territori periferici d’Europa che hanno sviluppato un rapporto incompleto con la modernità. 

Forse per via delle difficoltà di messa a fuoco, lo rammenta Giovanni Russo nella Lettera a Carlo Levi, o lo ricorda Gramsci quando dice che a Torino, nell’incontro con la classe operaia, non a Ghilarza, capì la lezione di Marx; ebbene la letteratura meridionale ha avuto la necessità dello sguardo esterno: mi riferisco al già citato Levi, col Cristo, e a Ottieri, col Donnarumma all’assalto. Seguendo questa linea incontreremmo Morante, o gli scritti diaristici di Natalia Ginzburg sull’Abruzzo. Meridione se non Africa, è pure la definizione che Bassani dà delle Valli del Delta del Po, narrate anche dalla Viganò.

Inoltre, un territorio di secolare emigrazione come il Sud ha diverse anime, occorre tenerne presente la lacerazione e gemmazione, il suo altrove, e questo accade in Pavese e Pierro ma anche a nord del Tronto con Di Ruscio, ne Gli zii di Sicilia di Sciascia, nella trilogia vigevanese di Mastronardi, e poi con Bianciardi, approdato a Milano negli anni del boom economico dopo la terribile strage di minatori maremmani. È il grande tema della subalternità, dell’incompletezza rispetto al moderno, ad accomunare i minatori della maremma, i migranti degli scontri nella Torino di piazza Statuto del ’62. Il Vittorini del Politecnico tenta di avvicinare questo meridione al mondo della civiltà tecnologica. 

Lo stragismo, la risposta brigatista e il rapimento Moro segnano il passaggio dagli anni ’70 agli ’80. Prima Sciascia, poi Vasta ne Il tempo materiale ne producono una riuscita allegoria. Il berlusconismo rivive nella iper-moderna Eternapoli del napoletano Montesano.

Con la frammentazione derivante dalla globalizzazione degli anni ’90 avviene il crollo di contenitori, modelli, simboli edificati nel ‘900. Da allora un Sud in crollo demografico, abbandonato dai giovani, stretto tra stereotipi e pregiudizi, è stato costretto all’adesione a un modello di sviluppo acritico e anti-ecologico, tuttavia efficiente (il neoliberismo); condito con la riproduzione della propria classe dirigente, fatta di quel sud che sfrutta il sud di cui poco, e solo in maniera spettacolare e irreale, purtroppo ci si occupa. 

È una stagione di grave regresso culturale in cui modelli mass-mediatici urbano-centrici, aperti al limite verso la speculazione sulle periferie metropolitane, hanno prodotto la scomparsa della realtà e delle necessità storiche degli italiani per licenziare un canone di target e brand, di argomenti costruiti in vitro, in cui chi scrive deve scavarsi una nicchia ripetitiva, per narrare il proprio personaggio e segmento di mondo a una dimensione. Tutto accade non nel reale, ma nell’altrove dell’immaginario mediatico, dove il conflitto non è possibile e la cornice trasforma tutto in merce innocua. 

Se questo significa la scomparsa di un discorso realmente nazionale-popolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del paese e del contesto internazionale (si veda la rappresentazione di Ucraina o Israele), registra pure la complicità dell’intellettuale col giornalismo da talk-show, che finge la democrazia ma, nei fatti, svilisce l’informazione e il dibattito, divenendo pilastro del regime demagogico populista.

L’industria culturale ha brandizzato poi i territori marginali e generato sempre più specialismi: della montagna, degli Appennini, della criminalità: è l’altra faccia della crisi culturale, mentre irrompe la questione globale.

Quanto ai generi, con Lukacs, la letteratura è sempre realistica, l’unico criterio valido è il rapporto di onestà e veridicità instaurato con la realtà. Essere veritieri non vuol dire utilizzare il solo realismo, ma anzi (penso a Bulgakov, o a Orwell, Fellini), pur attraverso il filtro della fantasia, della distopia, o del sogno, presuppone un rapporto rivelatore, a volte anticipatore della realtà. Disonesto è, o, come direbbe Pasolini, pornografico, tutto ciò che è irreale, perché l’irrealtà rende incomprensibile il mondo, confermandone le strutture egemoniche e l’immaginario oppressivo.

sandro abruzzese

Sulla scuola, la società, le istituzioni

*Articolo comparso su La nuova Ferrara del 13 dicembre 2023

La scuola italiana nel dibattito pubblico viene costantemente, e in modo schizofrenico, investita del ruolo di formatrice delle nuove generazioni. Prova ne è l’inserimento ridondante dell’Educazione civica in una programmazione già oberata da decine di progetti, l’alternanza scuola-lavoro, e ora la recente richiesta di introdurre l’Educazione affettiva per combattere la piaga del femminicidio. Si procede dunque per addizioni, in assenza di visioni organiche, come se l’individuo fosse il frutto di un’operazione aritmetica. E invece la letteratura scientifica insegna che l’individuo è il frutto di un’epoca, alla sua formazione concorrono la famiglia, le istituzioni, e la società in cui si vive. 

Se una società si basa sulla competizione, se questa società ha come regola non scritta lo sfruttamento della sua parte fragile; se quello stesso Stato si fonda su un’economia predatoria nei confronti dei popoli in via di sviluppo e delle risorse del pianeta, sul militarismo e la guerra in politica estera; allora, e nonostante la scuola italiana, questa configurazione del globo e della società incideranno profondamente sulle nuove generazioni. La realtà concreta è configurante e più forte di qualsiasi buon comandamento.

La domande dunque è se è possibile formare generazioni migliori della propria epoca in vitro, nonostante le contraddizioni sopra riportate. Ne La grande trasformazione Karl Polanyi rispose che questa configurazione è la causa principale delle sofferenze della società, incluse famiglie e individui. E nella tradizione culturale italiana Francesco d’Assisi e Giacomo Leopardi, partendo da assunti opposti, ovvero presupponendo il primo la bontà del creato e il secondo la natura matrigna, approdano all’unica soluzione della solidarietà umana quale antidoto al male nel mondo. Si cresce desiderando un mondo buono e giusto per tutti, ma da adulti la realtà riproduce inesorabilmente il suo adattamento realista. 

La scuola poi, soprattutto alle superiori, resta tristemente complice della riproduzione sociale. I figli dei laureati, della borghesia colta, vedono un successo scolastico e universitario preponderante, mentre ancora una volta si indirizza la parte linguisticamente e culturalmente più fragile verso scuole tecniche o professionali. 

E che dire delle contraddizioni in merito all’applicazione della Costituzione? L’imposizione fiscale, le varie flat tax, derogano al principio della progressività. Il diritto al lavoro vede i giovani calabresi e siciliani subire una disoccupazione giovanile con punte del 65 per cento. La Costituzione antepone poi la dignità umana e la vita ad ogni altra legge, ma da decenni migliaia di esseri umani continuano a morire nel mar Mediterraneo. 

E ora il femminicidio: non solo viene uccisa una donna ogni tre giorni, ma i morti sul lavoro, spesso operai migranti, muoiono di lavoro quotidianamente. Il diritto alla salute soccombe davanti al collasso della sanità pubblica. E l’attuale sistema demagogico populista, che produce fantocci della cultura utili a condire talk show indegni e manipolare la realtà, nutrono questa società dello spettacolo, trasformando in merce e commercio qualsiasi accadimento, comprese i drammi e le tragedie. Davvero nessuno si accorge quale sia la parte di società che paga tutto questo? 

Rocco Scotellaro e la questione meridionale

di Sandro Abruzzese

*Articolo comparso in precedenza su Le parole e le cose

Rocco Scotellaro è nato a Tricarico, in Basilicata, il 19 aprile del 1923 ed è morto, a soli trent’anni, a Portici, il 15 dicembre del 1953. Scrivere oggi del poeta lucano vuol dire innanzitutto sforzarsi di ricostruire un contesto quasi del tutto rimosso, quello delle lotte contadine del meridione nel secondo dopoguerra. Trent’anni, come quelli di Rocco, se sono pochi per la poesia, non lo sono in generale per la vita dei tempi, poiché l’indice di mortalità era elevatissimo e la morte una vera e propria presenza costante nelle famiglie. Figlio di un artigiano ciabattino e di una sarta scrivana, Scotellaro a 23 anni era già sindaco socialista del suo paese, Tricarico, un comune in precedenza lontano dalla tradizione socialista, e ne aveva subìto ingiustamente le conseguenze, le accuse di concussione, peculato, il carcere, come racconterà ne L’uva puttanella.

Prima ancora aveva assistito ai tumulti del ’42 e partecipato al Comitato di liberazione nazionale, alla battaglia per l’occupazione delle terre che andrà avanti con risultati alterni fino al tentativo di riforma agraria Gullo, di cui scrisse incisivamente Giovanni Russo in Baroni e contadini (1955).

Amico di Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Rocco Mazzarone, nella cultura italiana la figura di Scotellaro risulta ambivalente principalmente per due motivi: il primo è perché, in qualità di realistico cantore dei bisogni e della condizione della civiltà contadina, raccoglieva l’indifferenza di chi nell’ambito culturale ignorava quel mondo e inoltre raccoglieva l’ostilità di chi vi vedeva solo una forza passiva o addirittura regressiva e antimoderna. Gli intellettuali borghesi e urbani, tranne poche eccezioni, erano e sono estranei alle condizioni della provincia italiana perfino attualmente, figuriamoci nei primi decenni del ‘900. All’estraneità rispose nei Quaderni Antonio Gramsci, un altro provinciale, ricordando a Croce che gli intellettuali di provincia non devono essere assorbiti dalle città ma restare legati ai problemi e alle necessità storiche della propria classe sociale.

L’altro motivo che divide l’opinione pubblica su Scotellaro è tutto interno alla sinistra italiana e riguarda la rivalità tra socialisti, comunisti, azionisti, e il fatto che il poeta di Tricarico, nonostante avesse una sua sostanziale autonomia all’interno di questo panorama, venisse schiacciato dal levismo e dal marxismo, dunque i giudizi, le polemiche come quella di Alicata, l’astio, l’eccessiva severità, si confonderanno sempre all’agiografia e al mito del sindaco poeta dei contadini, provocando ulteriore confusione.

A fare chiarezza sul lucano contribuisce di recente lo studioso dell’Università della Calabria Marco Gatto con il volume licenziato per Carocci (2023) Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Gatto con una meticolosa ricostruzione restituisce a Scotellaro in prima luogo la sua cultura e preparazione classica, messa in dubbio frettolosamente da scrittori come Bassani. I vari collegi e licei, da Sicignano a Potenza, Trento, hanno impresso una solida cultura umanistica nello studente di Tricarico, questo fa di lui non un poeta-contadino, come più volte si è scritto, bensì un intellettuale organico gramsciano, un mediatore che per interpretare i conflitti e le contraddizioni quanto mai mobili del meridione subalterno, con la giusta dose di realismo e universalismo, regredisce, si approssima e infine si identifica – sostiene Gatto – con le esigenze delle masse popolari.

Questa lettura apre a un’idea di letteratura e di sapere che non ha come obiettivo l’assoluto del moderno, ma la lotta, in un ottica nazionale, per l’emancipazione del “consorzio sociale” di cui si fa parte. Basterebbe questo a giustificarne la fortuna nel panorama italiano. Scotellaro porta in superficie, espone la verità non narrata, attingendo all’autobiografia produce versi e immagini plastiche, a volte inedite. Che venga tacciato di populismo o crepuscolarismo, oppure che la sua poesia resti in parte acerba e nel complesso non si tratti di un compiuto capolavoro, poco importa.

Qui, di nuovo risalendo al contesto, occorrerebbe per provocazione che ci chiedessimo cosa pensare di un intellettuale popolare, chiuso in una torre d’avorio, mentre all’esterno la disoccupazione, l’analfabetismo, la mortalità infantile, i problemi sanitari, l’emigrazione, schiacciano le masse contadine portandole costantemente alla mercé della classe dominante. È bene ricordare poi che Scotellaro ottenne una vera e propria investitura, con 1.778 preferenze fu il più votato alle elezioni comunali (nella consultazione successiva del 1948 avrebbe ottenuto 2.090 preferenze). Il ’49 è l’anno dell’occupazione delle terre incolte, delle vittime della Polizia a Montescaglioso. Il bracciante Giuseppe Novello muore dopo tre giorni di agonia in ospedale e Scotellaro gli dedica una delle sue poesie più belle:

Montescaglioso

Alla vedova di Giuseppe Novello
Mai perso bene questo sole e lacqua,
ma quando la tempesta vendemmia le vigne
i cani si fanno irosi, addentano,
impazziscono le donne distese nei letti
allora lultimo cerchio che fa lacqua è nostro,
c’è sempre chi getta la pietra nel pozzo.
Tutte queste foglie ch’ erano verdi:
si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuovo nella terra macinata.
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
E’ caduto Novello sulla strada all’ alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quellora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
allalba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.

Sarà in seguito all’ingiusta detenzione, saranno i due mesi di carcere, le continue divisioni in seno alla maggioranza consiliare di Tricarico, fattori che segneranno il bisogno di distacco dall’ambiente lucano per la ricerca sociologica, come attestato dalle lettere, a suggerire la scelta di un’altra modalità di lotta, in cui egli dimostrerà ancora una volta una profonda capacità di analisi e mimesi. Che L’uva puttanella sia un memoriale o un romanzo frammentario, che la lingua sia un misto di parlato e letterario, ancora una volta, poco importa, chiunque può riconoscervi la condizione di ingiustizia sociale e la gente di Steinbeck e Simon Weil.

Se i giudizi critici su Scotellaro risentono di eccessivo schematismo, il poeta, ricorda Gatto, attraverso l’inchiesta sociale non solo forza i limiti della letteratura guardando più a Verga che a Levi, ma apre un solco, quello del reportage e dell’inchiesta sociale, che sarà prolifico fino ai nostri giorni. Gatto, grazie alla lettere inedite messe a disposizione nel tempo da Franco Vitelli, dimostra quanto il rapporto filiale con Levi e Rossi-Doria non implichi alcuna sudditanza, anzi ascriva la figura di Scotellaro più al solco politico di Gramsci e a quello culturale di De Martino che agli azionisti.

A suo modo dunque il poeta di Tricarico rende nazionali i termini di una questione relativa a un mondo lontano ma non più silenzioso e immobile, lo fa non esente da difetti, da scivolate, errori, ma sempre la sua spinta intellettuale, il suo cantiere aperto, apre a problemi irrisolti, vivissimi, a contrasti e possibili soluzioni, che finiscono per ricordare quel De Martino, a cui pure in passato Vitelli lo aveva associato, alla costante ricerca di “un umanesimo inclusivo capace di porre il problema del protagonismo storico delle masse oppresse e dei popoli colonizzati”, storicizzando il loro modo di opporsi al mondo per non lasciare l’arcaico alla strumentalizzazione reazionaria, ma indirizzarlo, insieme alla parte nobile della tradizione, in senso progressivo.

E allora a distanza di settant’anni dalla morte del poeta di Tricarico, una morte inattesa quanto simbolica per via del suo intrecciarsi alla coeva scomparsa del mondo contadino per via dell’emigrazione verso il boom economico, checché ne dicano i critici, le sue opere sono stampate e vendute, e noi siamo qui a scrivere e leggere di lui, come di uno di quegli intellettuali italiani realmente nazionali-popolari, battutosi per un’idea di nazione giusta, armonica, e democratica. Bene ha fatto Rossi-Doria ad associare la figura di Scotellaro a quelle di Pisacane o Gramsci e Gobetti, i Rosselli, a cui aggiungerei figure come Enrico Berlinguer o Alex Langer. Scotellaro, oltre ad aver trasformato l’io in noi, ha donato respiro e voce al popolo delle formiche affinché in futuro si fosse “padroni del tempo che viene”. Forse è questo il filo manifesto del successo del poeta lucano nel tempo: l’esser stato fino in fondo per gli altri e “degli altri”. Ne pagò le conseguenze. Questo onere, come un peso, lo ha sicuramente gravato nelle preoccupazioni immani e schiacciato anzitempo, ma ne ha lasciato intatta la fame di coscienza attiva e conoscenza volta al cambiamento.

Leggere Scotellaro oggi, dunque, sostituendo al solo meridione d’Italia i sud del mondo e i migranti globali a quelli nazionali, restituisce un orgoglio, forse l’unico orgoglio accettabile, quello di essere sconfitti, ma dalla parte giusta.

La lezione di Scotellaro, al nichilismo della società spettacolare odierna, oppone il desiderio di una vita piena di senso, in cui ognuno possa sentirsi parte di un tutto volto all’elevazione non solo materiale, ma spirituale e morale.

In fondo, la questione sociale sarà la radice di ogni futuro problema nazionale, molti degli assilli italiani di oggi risalgono alle vicende di quello sviluppo parziale e violento del paese narrato poi da Visconti in Rocco e i suoi fratelli. Ritengo che si possa fare una storia dell’Italia repubblicana solo a partire dall’emigrazione di massa della civiltà contadina, senza cui nulla degli eventi successivi resta comprensibile in Italia. Da lì si dipana, come da una matrice o radice, una mappa tentacolare, rizomatica: da lì arrivano l’eccessiva disuguaglianza nel paese, l’endemica debolezza politica ostaggio di clientele, la susseguente forza delle organizzazioni criminali, l’abbandono di intere aree del paese (aree montane, collinari, isole), le divisioni regionali odierne e, non ultimo, il pregiudizio antimeridionale.

Se centosessanta anni di emigrazione continua fanno del meridione d’Italia l’area più depressa dell’Europa occidentale, e fanno dei meridionali italiani l’ennesimo popolo errante della storia, ebbene l’atto di autoredenzione dei migranti italiani, i loro sacrifici, non hanno evitato le ricadute sul territorio che nel lungo periodo sono sotto gli occhi di tutti. Ma a tal proposito sovviene ancora Antonio Gramsci, quando in un raro discorso parlamentare prima della prigionia che lo portò alla precoce morte, ricordava che si possono chiedere sacrifici a una parte del paese per un periodo limitato, dopodiché, per dirla con Scotellaro, la patria si fa sottile come un filo d’erba, o una trincea, e allora prima o poi ancora una volta bisognerà scegliere da che parte stare.

Bibliografia essenziale

Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977.

Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale, Carocci, Roma, 2023.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945.

Giovanni Russo, Baroni e contadini, Laterza, Bari, 1955.

Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, postfazione di Franco Vitelli, Mondadori, Milano 2004.

Rocco Scotellaro, È fatto giorno, ed. riveduta e integrata da Franco Vitelli, Mondadori, Milano, 1982.

Rocco Scotellaro, L’uva puttanellaContadini del Sud, Laterza, Bari, 2012

Le macerie borghesi di Antonio Tricomi

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, inserto culturale domenicale del Quotidiano del sud

Macerie borghesi, Genealogie letterarie del presente (Rogas 2023) di Antonio Tricomi è un libro che attraverso una serrata disamina sulla letteratura contemporanea descrive la coscienza lacerata di un paese, l’Italia, con le sue vicissitudini politiche e sociali, e inoltre fissa e aggiorna il canone letterario italiano. Dunque vi troviamo Pasolini, con i suoi pregi e limiti, alla cui opera Tricomi ha dedicato molteplici volumi e studi, e poi Calvino, certo, ma anche scrittori cosiddetti minori come Morselli, filosofi come Anders e Debord, da cui emerge una critica sociale e culturale che investe la civiltà moderna occidentale, il rapporto tra modernità e post-modernità, per concludersi con la presa d’atto che la crisi della tradizione umanistica, insieme ai risvolti della Caduta del muro di Berlino, portano a un nuovo feudalesimo sull’onda di un protagonista indiscusso della scena mondiale: il capitalismo globalizzato. 

Che siano le macerie descritte da Leogrande sul Sud e sull’Italia, o la Roma di Pecoraro, attraverso la letteratura Tricomi rilegge la stagione del berlusconismo con l’avvio della democrazia demagogico populista raccontata dai libri di Giorgio Falco, e anche la neomedievale Italia ex sovranista dei nostri giorni. L’Italia, fin dalla soluzione fascista quale “autobiografia della nazione”, ricorda Tricomi con Bollati, vive di cattiva salute e emergenze, gli scrittori italiani, pur passando attraverso il fascismo di sinistra, hanno nel tempo arguito che il ritardo culturale del paese, la sua “malattia etica”, deriva dall’attrazione nefasta per il potere come tale. L’Italia è un paese di rivoluzioni passive e trasformismo che rendono le classi egemoni attori principali di una “fittizia modernizzazione”.

Ciò che rende importanti i libri di Tricomi, come nel caso dei precedenti, è il grado di solida teorica delle argomentazioni via via svolte. Se i rilievi critici sono ben ponderati e mai pretenziosi, altrettanto necessarie e convincenti all’interno di Macerie borghesi risultano le stroncature. 

Napoli siamo noi

Perché lo scudetto del Napoli è importante

*Articolo comparso in precedenza su Le parole e le cose qui

Sono passati più di vent’anni anni da quando, studente universitario all’Università Federico II di Napoli, ricevetti come regalo di compleanno un abbonamento alla Curva A per il campionato di Serie A 2000-2001. Era il disastroso Napoli di Zdenek Zeman, che poi divenne il mediocre Napoli di Emiliano Mondonico. Quell’anno, col beneplacito del curioso tandem presidenziale Corbelli-Ferlaino, la squadra retrocesse in Serie B e la Roma di Totti e Del Vecchio vinse lo scudetto. Il fallimento era alle porte e ci sarebbero voluti molti anni per tornare a essere competitivi. Avrei imparato in seguito a diffidare del mondo del calcio, delle sue regole non scritte, dei suoi presidenti e calciatori, degli arbitri e del doping, delle tifoserie, ma questa è un’altra storia.

Oggi che il Napoli ha conquistato il suo terzo scudetto viene da chiedersi quali e quanti siano i significati di questo successo, se è giusto parlare di riscatto morale cittadino, e se è giusto che la riduzione mediatica dell’evento conduca al folclore e a conseguenti sedicenti quanto improvvisate analisi sociologiche sulla città e i suoi abitanti.

Insomma, è davvero soltanto un successo sportivo e nient’altro?

Lo sarebbe, forse, se non fossimo in Italia. E se non ci fosse la Questione italiana, fatta di intollerabili divari territoriali tra sud e nord del paese, basti dire che secondo il Sole24ore* il reddito pro capite di un napoletano è pari a circa 20 mila euro rispetto ai 33 mila di un milanese, e stiamo parlando di aree sviluppate, la forbice si allarga inesorabilmente nel confronto con le altre aree meridionali.

Napoli è dunque la capitale di un Meridione che in 170 anni non ha mai smesso di migrare, sviluppando, al pari di tutte le aree globali affette da spopolamento, un rapporto ambivalente con la modernità e la nazione. Se dunque nel discorso comprendiamo questa storia l’Italia, e se ci mettiamo la geografia, che dice che negli ultimi 22 anni, dallo scudetto della Roma, il tricolore non è mai sceso dalla linea pedemontana, la linea Torino-Milano, per intenderci, allora i significati dello scudetto del Napoli aumentano eccome.

Il Napoli Calcio è sì una società privata, di Aurelio De Laurentiis, il successo aziendale è suo, tuttavia il contesto, il brand, l’immaginario non è secondario nel costruire qualsiasi azienda, a maggior ragione nel calcio, dove il tifo produce un reale vantaggio psicologico nelle partite casalinghe, oltre a contribuire economicamente.

La vittoria del campionato porta con sé il dato che anche in quello che l’Istat definisce “(…) il territorio arretrato più esteso dell’area euro” è possibile organizzare, progettare, conseguire obiettivi razionali di medio e lungo periodo, di carattere nazionale e internazionale. Anche al sud, a dispetto delle difficoltà di lungo periodo, o nel breve della recrudescenza in seguito alla crisi pandemica, ebbene, si può costruire una realtà pienamente competitiva col resto d’Europa.

In questa prospettiva lo scudetto del Napoli dimostra che con le giuste capacità, risorse e preparazione, i risultati sarebbero possibili anche al di fuori dello sport, per esempio nelle istituzioni.

In un meridione endemicamente rachitico per quanto riguarda le istituzioni**; in un Sud in cui, grazie all’emigrazione giovanile, gli abitanti decrescono del 2% mentre al Nord gli abitanti crescono del 9,3%***, il successo del Napoli è sintomo di una relazione positiva tra tessuto economico e tessuto sociale, che mostra un altro volto della città all’esterno come all’interno.

A questo stato di cose, il Governo Meloni, come i predecessori, risponde riproponendo il progetto di Autonomia differenziata firmato dal ministro leghista per gli affari regionali Roberto Calderoli, ovvero l’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e in tre casi di materie di competenza esclusiva dello Stato. Progetto con cui si continua a cercare surrettiziamente di trattenere il gettito fiscale delle regioni ricche al Nord, per incrinare i meccanismi perequativi nazionali e con essi il concetto stesso di contribuzione e cittadinanza secondo la Costituzione italiana. Nel frattempo il ministro pugliese per gli affari europei, la coesione sociale e il Pnrr Raffaele Fitto dichiara che non sarà possibile utilizzare nei tempi previsti una parte consistente dei fondi PNRR, che sarebbero destinati per circa il 40% alla riduzioni dei divari di cittadinanza, quindi volto al finanziamento di riforme e interventi, anche esclusivi per le regioni del Sud.

Cornici e narrazioni

Eppure, nell’assistere ai servizi televisivi sui festeggiamenti della città, si avverte una rappresentazione orientalista di Napoli. Nei discorsi giornalistici si teme per i festeggiamenti proprio come se si trattasse di un luogo e di una popolazione sconosciuta e capace di chissà cosa. Posto che i tifosi organizzati del calcio in generale ci hanno abituato a fatti di cronaca molto gravi e inattesi a qualsiasi latitudine, il giorno dopo la vittoria matematica dello scudetto Rainews e Sky Tg24 puntualmente finiscono per associare un omicidio ai festeggiamenti cittadini. Il Prefetto si affretta a smentire, ma il gioco è fatto.

Non basta, nella narrazione dei significati simbolici per la città, ospiti in trasmissioni varie, partenopei e non, si lanciano in analisi sociologiche autopunitive che si faticherebbe a sentire in altri contesti, e che puntualmente, quasi inconsciamente, affiorano quando si parla di Meridione.

Non è solo sport? E non è soltanto uno scudetto? Oppure nei media e nell’opinione pubblica compare un riflesso condizionato nell’affrontare il successo della capitale del Mezzogiorno?

A trent’anni dall’uscita de La razza maledetta di Vito Teti (Manifestolibri), Carmine Conelli nel suo Il Rovescio della nazione (Tamu ed) risponde al pregiudizio antimeridionale evidenziando il problema della subalternità del Mezzogiorno, anche in termini di rappresentazione e narrazione, avendo cura di ricordare che “il rapporto di dipendenza che oggi lega il sud al nord del paese è il frutto (…) di strutture di classe preesistenti all’unificazione e delle successive scelte dei dirigenti politici, molti dei quali meridionali”. Se Il rovescio della nazione sposa la tesi della subalternità come prodotto del capitalismo, non dimentica che il problema è innanzitutto la disuguaglianza, lo sfruttamento di classe globale e locale, e che c’è pure, oltre al rapporto distorto col nord, soprattutto un sud che sfrutta il sud.

Identità

C’è poi, su Facebook, la foto che ritrae la Curva del Napoli mentre espone lo striscione con un enorme scudetto issato a testa in giù seguito dagli slogan “Bottino di guerra” e “Campioni in Italia”. Mi pare ci sia una diretta correlazione tra la rappresentazione mediatica orientalista di tv e giornali e i rigurgiti antinazionali della Curva. Lo scudetto revancista diventa un bottino. Laddove vi è un rapporto distorto, fatto di ambivalenze, forti contraddizioni, di conflitti e rimozioni, fanno capolino l’identitarismo, la reazione quasi etnica di rivalsa, da parte di chi è oggetto di una narrazione che spesso riduce e anzi conduce all’alterità. Succede che a un certo punto non solo l’alterità arriva, ma si riproduce nelle sue fattezze più reazionarie ed esclusive, all’orientalismo puntualmente risponde la balcanizzazione, a cui in tempi non sospetti, e con un’ironia e uno stile disarmanti, rispondeva Massimo Troisi in Ricomincio da tre attraverso il refrain che lo voleva, ogni volta che si diceva napoletano, additato dagli interlocutori quale migrante anziché turista. Anche nel film, dopo numerosi tentativi, alla fine l’autore rinuncia ad auto-rappresentarsi e accetta la distorsione e la soggezione allo sguardo altro.

Ma forse, sull’autorappresentazione, vale la pena di ricordare Eduardo De Filippo in Napoli milionaria, quando, alla leggenda che a Napoli scompaiono le navi dal porto, risponde che una nave è troppo grande per scomparire e, nel monologo che segue, individua proprio nella leggenda, nelle favole narrate sui napoletani, l’approccio che contribuisce all’immobilismo generale. Vi è qui un richiamo alla ragione che rimanda al rapporto violentemente troncato tra la città e l’illuminismo nel 1799, testimoniato dagli scritti di Vincenzo Cuoco e dall’affresco romanzesco di Enzo Striano ne Il resto di niente.

Napoletanità

Poco ci si è interrogati, inoltre, e non è questo lo spazio per farlo, sui danni derivanti al resto del sud dalla presenza di una città ingombrante e complessa come Napoli. Poco ci si interroga pure sul fatto che le regioni policentriche in Italia si sviluppino in maniera più equilibrata delle grandi città metropolitane. Gianfranco Viesti in Centri e periferie (Laterza) licenzia un corposo studio comparato che offre numerosi spunti per un cambio, o almeno una variazione di paradigma rispetto alle tante analisi prodotte sull’Italia e il Meridione. Insomma sarebbe auspicabile che i futuri studi sul Meridione intrecciassero il solco dell’economista Viesti.

Detto ciò, se Napoli è una città che, in ritardo rispetto ad altre realtà italiane, grazie all’esplosione dell’aeroporto e dei treni veloci, ha subito un repentino processo di gentrificazione dovuto all’arrivo del turismo di massa, occorre chiedersi ancora cosa spaventi l’opinione pubblica rispetto a questa città.

È la massiccia presenza di una criminalità organizzata? È, per dirla con Francesco Barbagallo, il potere della camorra?

Oppure è la conformazione sociale pressoché unica del suo centro storico in cui il sottoproletariato metropolitano, non essendo stato espulso dal centro storico come accaduto nelle altre capitali europee, coabita da sempre, anche se spesso in regime di separazione, con i ceti medi?

Mi pare che quest’ultimo sospetto sia corroborato dalle campagne  televisive e giornalistiche d’odio contro la povertà in genere, dalla campagna denigratoria sul reddito di cittadinanza, a quelle xenofobe. Parafrasando gli Afterhours potremmo dire che non si esce vivi non dagli anni ’80, ma dagli anni del neoliberismo che ha inoculato a dovere i suoi germi lessicali e ideologici.

Nell’uno e nell’altro caso, il sintomo di questo rapporto distorto con l’Italia produce in una parte di Napoli la reazione ostentata e orgogliosa, da cui un complesso psichico che porta all’alibi della napoletanità. A Giorgio Bocca che scrisse Napoli siamo noi si ribatteva che un piemontese non può capire Napoli.

Mario Pezzella, col consueto acume, si è interrogato (Altrenapoli, Rosenberg Sellier) sul rapporto tra plebe e borghesia cittadina e ha notato che se per Anna Maria Ortese la città si è fatta assorbire dal suo ventre, per Ermanno Rea è la Storia e non la Natura ad aver determinato i risultati odierni. L’esito della Seconda guerra mondiale, il laccio americano sul porto e la città, vanno a sommarsi al trauma del 1799, o più indietro alla rivolta seicentesca di Masaniello. Se l’alibi della Natura finisce per giustificare le classi dirigenti, la versione borghese addossa al sottoproletariato gli aspetti negativi della napoletanità: il caos e il mito della città speciale, il primitivo, l’arcaico della città-mondo, ricorda Pezzella.

Raccontare Napoli, come scrisse Franco Costabile riguardo al Meridione, può voler dire espungere la napoletanità, o la sicilitudine per la Sicilia, per oggettivare, ed essere il più possibile scabri e lucidi:

Ecco,

io e te, Meridione,

dobbiamo parlarci una volta,

ragionare davvero con calma,

da soli,

senza raccontarci fantasie

sulle nostre contrade.

Noi dobbiamo deciderci

con questo cuore troppo cantastorie.

Politica

Sotto il profilo politico, negli anni ’90, Antonio Bassolino aveva fatto sperare nel Rinascimento napoletano, come pure la rivoluzione arancione di De Magistris pur proponendo un populismo di sinistra, mentre Vincenzo De Luca oggi tenta addirittura una dinastia. Già Percy Allum parlava del populismo di destra laurino come derivazione di un isolamento culturale, che genera provincialismo, di cui l’orgoglio identitario è un sintomo.

La politica, i partiti deboli e sradicati, appaiono un passo indietro rispetto alla pur lacerata società. Eppure il voto progressista, da Bassolino a Jervolino, da De Magistris ai Cinque stelle, dimostra che la popolazione più volte ha saputo chiedere un cambio di rotta.

Napoli, come il resto del Paese, è una città a cui occorre rifondare linguaggi, forme, valori etici e codici simbolici, che includano nuovamente il sottoproletariato, la cui ostilità è frutto anch’essa dell’isolamento, fino alla trasformazione dei quartieri popolari nella base per l’estrema modernità tribale di Gomorra, arcaica e globale, da cui rinasce il mito della città primordiale.

Per questo coacervo di conflitti e contraddizioni, a discapito dei pregiudizi, Napoli è anche una città frenetica, laboriosa e veloce, la sua stessa conflittualità a livello individuale e sociale produce stimoli continui, è quindi il luogo che potrebbe elaborare, da ibrido tra pre-moderno e post-moderno, una risposta altra, ma solo se riuscisse a creare un rapporto più equilibrato con l’area metropolitana e le province interne, nonché a costruire un rinnovato rapporto con la nazione e il suo sottoproletariato, per battersi contro le forme più aggressive e monopolistiche di capitalismo, opponendovi non il clientelismo, bensì le ragioni della democrazia, della giustizia sociale, della cittadinanza globale. Per questo occorre fare i conti con se stessi, perché la visione discriminatoria di Napoli parte in primis dalla sua borghesia cittadina, va dunque condotta una lotta endemica, di classe, e il contesto non risulta certo favorevole visti i partiti e sindacati in crisi, in un’Italia egoista e miope.

Dunque, in un mondo interdipendente, siamo alla ricerca di soggetti e sponde, di autori del cambiamento, di un consenso di massa che, come accaduto col calcio, si crei per spostarsi però verso più alti orizzonti, mentre la napoletanità è a volte rimozione di traumi, risentimento e storia che ritorna nel mito, e senza progresso la città mitizzata non può che ripercorrere le sconfitte della sua storia. Della tradizione, ricordava Ernesto De Martino, occorre conservare la parte progressista, la tradizione non è di per sé valida, ma va passata al setaccio dei nostri valori attuali più alti.

Linguaggi

Basterebbe interrogarsi su quando Napoli raggiunge autenticamente la nazione e il mondo per trovare più di un successo nella sua autorappresentazione. Non è un caso che in anni recenti il sottoproletariato e le sue ragioni arrivino altrove grazie alla musica di Pino Daniele, che nonostante il dialetto, anzi grazie alla forza espressiva della lingua napoletana, fonde tradizione e avanguardia varcando i confini nazionali fino a diventare un unicum nel panorama europeo.

La scena napoletana, dal basso, dalla stagione dei Centri sociali occupati, con un occhio all’Inghilterra, a Berlino o magari alla Giamaica, ha prodotto l’avanguardia musicale degli anni ’90 con i 99 posse, gli Almamegretta, da cui la musica elettronica degli ultimi anni ha avuto abbrivo. Napoli è stata poi alla testa dei movimenti No global in Italia. Insomma, quando la città si apre al genere umano, e vi porta le sue istanze, la città più giovane, viva e energica d’Italia non solo si racconta a dovere, ma rimuove i fantasmi del passato, da frattura diviene ponte e avanguardia, fino a farsi protagonista.

Raramente invece questo accade a livello istituzionale-politico dove invece l’Eternapoli che Giuseppe Montesano ha narrato nei suoi romanzi, un parco giochi e divertimenti in cui tutto si fonde nell’espropriazione e spoliazione della città, nel particolarismo a danno dell’interesse generale, è l’inveramento del berlusconismo nazionale e della demagogia populistica italiana, non l’alterità. Perché nei luoghi più fragili ogni fenomeno negativo si abbatte con una virulenza maggiore, e questo fa del sud del paese il termometro d’Italia e di Napoli una città non altra, bensì arci-italiana.

In ultimo, se l’elaborazione di questo rapporto orizzontalmente trova riscontri progressivi nella società, valga per tutti l’esempio della meritoria lotta contro la gentrificazione del gruppo Set, i diritti al tempo del turismo, la parte verticale resta il problema, anche perché nel breve periodo l’isolamento e l’assenza di trasparenza possono risultare convenienti a chi governa per costruire consenso.

Napoli si muove e le sue realtà locali possono, come il Calcio Napoli, vincere e compiere altre imprese, ma i blocchi storici politico-criminali trasversalmente persistono, barattando il futuro del Meridione per il vecchio e consueto tornaconto privato, fino a quando la costruzione di un consenso di massa nazionale, una volontà politica intorno alla sfida partenopea e meridionale, produrranno la spinta per costruire una realtà nuova.

S.A.

Siti

I dati e le statistiche forniti a carattere esemplificativo vengono utilizzati qui per dare al lettore dei parametri meramente approssimativi, consapevole che i dati emergono da criteri valutativi parziali, non sono sempre condivisibili, e che, anche quando ben approssimati, vanno utilizzati con cautela, in prospettiva e analisi multivariata.

* I dati citati sono relativi al 2021, fonte https://www.infodata.ilsole24ore.com/2023/04/21/redditi-2021-la-ricchezza-e-sempre-piu-concentrata-nelle-mani-di-pochi-ecco-dove/#:~:text=I%20dati%20diffusi%20dal%20Ministero,detrazioni)%20è%20di%2020.745%20€.?refresh_ce=1

** Secondo il Sole24ore al 2018 “si contano poco più di 91 mila istituzioni fra sud e isole per un totale di 164 mila dipendenti, contro i 175 mila enti al nord, che danno lavoro a 465 mila dipendenti”, inoltre “I valori più bassi si riscontrano in Campania e in Calabria” dove i dati sulle istituzioni che si occupano di cultura, sport e ricreazione scendono ulteriormente fino al lumicino rilevato nelle isole. Fonte Sole24ore https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/10/18/la-nuova-questione-meridionale-dellitalia-del-no-profit/

*** Fonte https://www.confcommercio.it/-/mezzogiorno)

Bibliografia essenziale

Francesco Barbagallo, Il potere della camorra, 1793-1998, Einaudi, Torino, 1999

Giorgio Bocca, Napoli siamo noi, Feltrinelli, Milano, 2006

Carmine Conelli, Il Rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, Tamu ed., Napoli, 2022

Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Napoli, 1807, ripubblicato in Bur, Milano, 1999

Eduardo De Filippo, Napoli milionaria!, Einaudi, Torino, 1972 (opera edita nel 1945)

Giuseppe Montesano, Di questa vita menzognera, Feltrinelli, Milano, 2003

Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano, 1953

Mario Pezzella, Altrenapoli, Rosenberg Sellier, Torino, 2019

Ermanno Rea, Mistero napoletano, Feltrinelli, Milano, 1995

Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006

Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Prima edizione dei F.lli Treves, Milano, 1884, riedito da Universale Rizzoli, Milano, 2012

Enzo Striano, Il resto di niente, Feltrinelli, Milano, 1986

Vito Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 1993

Gianfranco Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Laterza, Bari, 2021

Verso l’Alto Polesine

Foto di Sandro Abruzzese, Ostiglia.

Oggi ho deciso di vagare per la pianura verso nord in cerca di idee per via dell’invito ricevuto a una tavola rotonda rodigina che si interrogherà sul futuro del Polesine. Dunque, per questa ragione ora me ne sto sull’ampia e dritta strada per Ostiglia, la via Eridania, e sono fermo nel piazzale d’asfalto davanti a un Motel tre stelle all’altezza di Bergantino, il paese delle giostre. Siamo nel cosiddetto Alto Polesine. Il Motel che ho davanti è composto da una torre e un caseggiato, all’ingresso c’è una loggia fatta di archi, sulla sinistra una palma e una statua di gesso con una specie di Gesù a braccia aperte. Sul ciglio l’orecchio di una lepre schiacciata dal passaggio di auto. 

Il cielo oggi è vasto e terso per via di un vento orientale tagliente che spazza via ogni cosa. La pianura, quasi sempre umida, dall’aria velata come da un filtro, nei giorni tersi diventa pulita, luminosa, visibile, e tutto appare più possibile. 

Vado dritto fino a Ostiglia e ci arrivo mentre i ragazzi escono dalle scuole. Nella piazza principale deserta, sulla statua intitolata a Cornelio Nepote, c’è una grossa donna bionda ossigenata che, riversa sul monumento, con una mano sugli occhi e la fronte, urla frasi in slavo, in vivavoce, dall’altra parte del telefono la voce di un uomo annuisce e poi tace. Sotto i portici verso il Palazzo comunale, due anziani si raccontano perché non entrano più nei bar del paese, che tutto costa troppo e loro non ne hanno mica da buttare di denari, lamentano.

Ostiglia dall’argine sembra un nido, o un piccolo alveare. Le sue strade intrecciate non si direbbero le stesse dei solchi pionieristici, ordinati e geometrici di Castelmassa o Ficarolo. Comunque sia, il vero monumento qui è la centrale elettrica, costruita negli anni ’60 a ridosso degli abitati, dove, a parte la suggestiva scenografia da film di Antonioni, la coabitazione fa pensare a una convivenza non proprio felice per la salute dei cittadini. 

Ostiglia è provincia di Mantova, dunque è il confine lombardo di questa giornata, i suoi portici la ascrivono di diritto alla civiltà emiliana del Grande fiume, e si capisce subito che qui la geografia, il controllo del fiume, e del passaggio nord-sud e est-ovest, che nei secoli l’hanno resa una terra contesa, è una delle ragioni storiche del luogo. 

Prima dell’argine, una cappella, all’interno un ingiallito Giovanni Nepomuceno, protettore dagli annegamenti, nel cuore di una pianura alluvionale, ci ricorda che siamo dove ogni cosa principia e fallisce in rapporto all’acqua. 

Sull’argine qualche anziano, due podisti e due magrebini che bevono birra in lattina. 

Non ho molto tempo, sono costretto a scegliere in fretta. Vado a Castelmassa. Anche qui svetta una centrale a ridosso del paese, ma dall’argine la visuale è armonica e si conclude con la bella facciata ad archi della Chiesa di Santo Stefano. Sembra che questo paesaggio sul Po abbia colpito Guareschi al punto da farne la copertina di un suo libro, almeno così dice la didascalia posta sull’argine. 

A Ficarolo verso il fiume c’è il vecchio teatro. Il campanile altissimo  pende verso ovest, mi pare. Dai portici della piazza si vedono i vecchi giocare a carte nei bar. Dopo poco un tizio prende a seguirmi ovunque vada e fissarmi ostinatamente. Chissà per chi mi avrà preso. Cerco di fuorviarlo, ma appare sospettoso e forse pervaso da qualche mania. Entro in un negozio finché non se ne va. La follia e la pianura paranoica. 

Mi perdo a Zampine, in viuzze sterrate di questa frazione senza un centro.

Verso casa, ancora in strada, dall’argine dappertutto c’è la campagna, i campi di colza, le tante case contadine abbandonate, gli alberi piantati sulla soglia, i gelsi, i pochi filari di vigna, la loro grazia e misura che, come tutte le cose distrutte dal tempo, infondono una nostalgia pericolosa. 

Anche questo del Polesine è il paesaggio di quell’importante affresco italiano che è ‘900 di Bertolucci. Ed è pure il confine di nomi, nella toponomastica delle vie, che testimonia delle lotte agrarie, dei comuni pian piano conquistati al socialismo italiano. Siamo poco distanti dalla frattura tra l’Emilia e il Polesine una volta rossi, col Veneto e la Lombardia bianchi, ed è anche in queste case, nelle assenze e nelle tracce lasciate che è possibile riviverlo.

Il paesaggio, al contrario degli esseri umani, non sa mentire, non mente Occhiobello con i suoi traffici loschi e quelli puliti, non mentono le autostrade, gli autovelox, le badanti. Ogni elemento configura il mondo così com’è diventato, ne tradisce le ragioni più profonde.

Oggi è lui a dirci del Polesine, di un mondo a tempo, certo, a termine, come tutte le cose umane, in parte spazzato via dalla rotta del ’51 e dall’emigrazione verso le industrie del boom economico e ricostituitosi con le nuove migrazioni e le industrie. Tuttavia per questa sua storia il Polesine, come Portella della Ginestra o il Vajont, come il Sulcis o il Belice, è uno dei luoghi cardine per comprendere il Paese, in grado com’è di narrare l’Italia otto e novecentesca, e quindi di offrire possibili risposte per il futuro. Solo dai luoghi come questo, dal sud, dalle isole, dalle montagne, dove il rapporto con la modernità è lacerato e distorto, e solo dalle ferite dei luoghi è possibile capire l’ingiustizia eteronoma dei centri verso le periferie, e ripensarsi per costruire una reale alterità, che non sia la proiezione di riflessi provenienti dall’altrove mediatico e urbano, fondato sulla consueta irrealtà, bensì una lenta presa di coscienza che ponga le basi per un autentico progresso generale, se possibile privo di noiosi identitarismi e rivalse, se possibile privo di grandezza, di potenza e orgoglio, ma che sappia guardare bene, in profondità, e magari prendere proprio dal debole e dal lento, dall’imitabile, per riproporre la lezione della democrazia.

Il leggero confine di Beppe Salvia

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, inserto culturale del Quotidiano del Sud

Il leggero confine di Beppe Salvia

Che cosa cerca, quando scrive, un poeta come Beppe Salvia? Rileggendo Cuore, suo testamento poetico, edito da Interno poesia, con la curatela di Sabrina Stroppa, vien da pensare che ricerchi un rigoroso e armonico ordine che faccia da contraltare al suo disordine e, insieme, al caos magmatico del mondo. “Non sono ordinato”, scrive, “Le mie righe lo sono”. E infatti dalla parola emerge la necessità di una ricerca e certezza del vero che è origine e smarrimento a un tempo.

La forza iconica dei suoi versi si riverbera nelle strade deserte di neve, nei boschi, forse dovuti alle immagini della natia Lucania potentina. Salvia durante l’adolescenza si trasferisce a Roma, mi chiedo se, posto che un poeta è sempre in qualche modo esule, egli abbia vissuto questo evento con dolore o invece come una liberazione. 

“A scrivere ho imparato dagli amici”, dice Salvia, e tanti saranno a ricordarlo dopo la prematura scomparsa, da Gabriella Sica a Claudio Damiani. A volte la sua parola sembra immediata e fanciullesca, “Sono felice e triste. Sono distratto e vagando m’accorgo di chi è perduto”, ma sempre rimanda a una vicinanza al fragile dell’esistenza, al bisogno di compagnia e solitudine, che è proprio della vita senza alcuna pace. 

Salvia è, per usare ancora i suoi versi e dialogare con loro, su “un leggero confine”, è classico per eleganza formale, per il bisogno di memoria e passato fatto di “cose impossibili”, di umanesimo, è moderno perché votato all’ossimoro e all’ambivalenza e per il suo senso del limite, per questo essere su un limite, perché avverte il bisogno di essere “padre e madre della sua stessa solitudine” e della sua lingua, e avverte la forza e il ripudio della tradizione. Da qui gli altalenanti rimandi a potenziali e distanti padri come Montale e Corazzini, e la ricerca di strade inedite. D’altronde per essere figlio e contemporaneamente padre di parole nuove forse occorre più tempo di quello che si è dato il poeta potentino.

Dunque, cosa cerca Salvia nella parola? Tanti hanno risposto a questa domanda, da Agamben a Fortini. Dopo averlo riletto in questa nuova edizione, d’istinto mi sovviene solo la parola salvezza, oppure, come quando il poeta scrive di aver trovato casa, viene in mente il riparo, come di una casa fatta di granitiche parole, dove trovare finalmente riparo e riuscire, una volta per tutte, a dimorare.

sandro abruzzese

Verso Portomaggiore

*Articolo comparso nella rubrica Racconti viandanti per La Nuova Ferrara del 29/11/2022

È ormai una regola, quando giro in pianura, quella di evitare le strade a scorrimento veloce, oppure le strade nuove e dritte, le autostrade, per cercare le vecchie statali che collegano i paesi. Ho imparato nel tempo che occorre diffidare delle rette, che sono il portato di uno sguardo altro. Le rette, come scrive Franco Farinelli, trattano i luoghi come spazi, la terra come semplice superficie, e – un po’ come fa la ragione – tendono a ridurre il mondo a oggetto, a pianificare e progettare, travolgendo, con la loro visione uniforme, tutto ciò che è ricco e molteplice. E poi questo paesaggio sommesso, se attraverso le rette risulta intraducibile, lungo i corsi d’acqua cambia sorprendentemente. Cambiano i casolari squarciati e abbandonati con i cartelli vendesi, cambiano gli abitati invecchiati, le villette bifamiliari assiepate, gli autovelox, le trattorie, i bar, e il rapporto con l’acqua e la terra. È in queste vie che la pianura rompe la monotonia bidimensionale per riappropriarsi di volume e senso.

Oggi da Ferrara la strada mi conduce verso sud, a Portomaggiore, meno di trenta chilometri di vie sinuose e alberate che collegano le frazioni con i paesi circostanti e compongono una fitta rete. Sono diramazioni che configurano la provincia orientale e se non fossi passato per Quartiere e Gambulaga, o per Runco, non avrei capito il ruolo che Portomaggiore riveste nella zona. Insieme a Ostellato e Argenta, Porto delimita la grande bonifica della Valle del Mezzano. Qui, nei luoghi delle terre emerse e di delicato equilibrio idrogeologico, Portomaggiore, come Ripapersico, Porto Verrara, Consandolo, possiede un nome evocativo che rimanda al passato palustre, a quell’antico ramo di valli collegato all’Adriatico, agli etruschi di Spina, tra fiumi scomparsi di cui non resta traccia se non nelle vecchie mappe e, appunto, nei nomi: Sandalo, Persico.
Quella di Porto poi, sarebbe anche una storia di fossi, argini e contese, di margini e confini mutevoli che ne fanno un ennesimo paese di una frontiera ormai invisibile, tra estensi e papalini, ma non solo. La geografia ha dettato ancora una volta i tempi, e il paese, per via della linea ferroviaria collegata a Bologna, Ferrara, e Ravenna, è stato scelto negli ultimi trent’anni da nutrite comunità pachistane, marocchine, slave. È perciò paese-margine, ma a sua volta centro cittadino del contado. E se oggi conta circa 12000 abitanti, nemmeno con i copiosi afflussi dal sud e dall’estero è riuscita a tornare alla città di quasi 18000 abitanti che era tra le due guerre, prima del boom economico. Dal 1960 anche qui la decrescita, dovuta allo stile di vita, al massiccio urbanesimo verso il triangolo industriale, come nel resto d’Italia, ha fatto il suo corso. La mobilità, la disponibilità di immobili, la vocazione agricola e industriale, agiscono però come forza centripeta e attraggono nuovi abitanti. 

Comunque sia, stamane a Portomaggiore il cielo è coperto e un vento meridionale spira dagli Appennini. Mi aggiro raggrinzito, di sabato, nella piazza di fronte al Comune in cerca di qualcuno con cui parlare. Un po’ imbranato, comincio a fermare i passanti a caso, parto dagli anziani, uno di loro tratteggia una realtà fosca, di confusione e rovina, per concludere col problema delle foglie, dice cioè che i netturbini non raccolgono il fogliame, per cui è costretto a tenersi le sporte nel giardino. Dopo un po’ cerco un secondo gruppo di anziani, il signore in questione si giustifica dicendo di venire da San Nicolò per poi cominciare a raccontare una storia su una sua casa in costruzione e dei muratori di Berra, e via dicendo. Allora passo ai giovani baristi lungo il corso, uno di loro viene da Gallo e sostiene che all’inizio addirittura si perdeva in auto in un paese così grande, che ci si sta bene, tutto sommato, dipende dalla prospettiva. 
A questo punto, con in mente Terzani o Chatwin, avvicino una signora africana, la quale vive qui da quarant’anni e rimpiange un tempo pieno di giovani che passeggiavano lungo il viale della stazione. 
Nonostante i risultati, insisto, fermo un giovane pachistano fumante, lavora in azienda di fragole a Lagosanto, parla poco e mi pare capisca ancora meno. Poi, è la volta di un adolescente venuto dal’Abruzzo, infine, due giardinieri marocchini di Pincara che curano il verde pubblico. 
Oltre ai passanti presi a caso, in maniera un po’ improvvisata, per giunta avendo dimenticato a casa il taccuino, finisco per annotare la seguente serie di punti sulla mano che vado a trascrivere e ampliare per concludere:
A Quartiere, direzione Voghiera, nelle campagne della pianura si vedono in lontananza piccole chiese di una bellezza particolare, è forse la bellezza di luoghi una volta dal potere immenso, dunque la bellezza del passato sconfitto, a cui si guarda con indulgenza solo perché divenuto innocuo.
A Porto ci si perde, è vero, ha ragione il barista di Gallo, il paese non ha una vera e proprio forma, è custodito in un anello circolare ordinato, ma poi c’è qualcosa al suo interno che confonde. 
Il Municipio con i portici e il tetto alla francese, circondato dai tanti palazzi degli anni ’50-’70, in mezzo a vecchie case basse da contadini, mostra il disordine architettonico proprio dei paesi feriti e ricostruiti. Sono il portato di terribili e credo inutili bombardamenti dell’aprile del ’45. Muoiono un migliaio di cittadini. E muore, per sempre, il corpo antico del paese. La speculazione in Italia vive di catastrofi.
Gran lavoro della Biblioteca dedicata a Peppino Impastato e gestita prima da Patrizia e ora da Alice, gran lavoro del Comune per arginare frizioni inevitabili, malumori, incomprensioni, tra le varie e diversissime anime della città vecchia e nuova.
Invisibile, almeno stamane, la rivalità con Argenta. 
Invisibili sono i grandi scioperi della fine dell’800 e inizio ‘900, le proteste contro gli agrari, i crumiri. 
Invisibili e ultimi, ancora una volta, dannati come i braccianti di Porto, Molinella, Medicina, attirati qui da ogni dove per via delle bonifiche e della terra. 
Forse Portomaggiore stesso è un paese invisibile, fatto di storie che non si vendono, non alla moda, di acque e persone svanite, fiumi estinti, un paese accumulo di varie sottrazioni, dove come al solito si vede solo quel che resta. 
Vado verso l’auto, i due marocchini di Pincara salutano, sono lì che puliscono con attenzione, senza sapere bene cosa sia, il Monumento ai Caduti. Il vento si è calmato, il cielo è aperto come Portomaggiore di sabato mattina.

L’Italia: il Paese delle emergenze

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, inserto culturale domenicale del Quotidiano del Sud

L’Italia, come ebbe a scrivere in un articolo del 1984 Alberto Asor Rosa, è un paese in emergenza, che ha fatto della mediazione e del trasformismo politico una vera e propria arte di sopravvivenza Un paese nato rocambolescamente durante il Risorgimento e ricostruito, dopo la Guerra civile della Resistenza, in situazione se possibile ancora più incerta, vista la Guerra fredda.

La letteratura spesso ha registrato questo aspetto: I Vicerè di De Roberto, a cui molto deve il più famoso Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, narra appunto la saga degli Uzeda e il loro passaggio strategico dai Borbone al parlamento dei Savoia, così come Il Bell’Antonio di Brancati narra del rapporto tra borghesia e fascismo. E sebbene la Sicilia sia un luogo nevralgico da cui si capiscono tante cose della storia d’Italia, anche in Veneto, come raccontano Ippolito Nievo o Alvise Zorzi, il voltafaccia dell’aristocrazia di terra giocò un ruolo non secondario nella fine della Repubblica di Venezia, schiacciata tra francesi e austriaci a fine ‘700. 

A far luce su Risorgimento e trasformismo delle classi dirigenti contribuisce  di recente lo storico Carmine Pinto nel suo La guerra per il Mezzogiorno, da cui emerge una storia d’Italia non riducibile alla semplice dicotomia Sud-Nord, bensì molto più sfaccettata, in cui le divisioni interne ai paesi e alle città della penisola, a volte in preda a vere e proprie annose faide, hanno svolto un ruolo di primo piano nel successo dei vari partiti in lotta. 

Che si tratti dell’Italia liberale di Giolitti o del dilagare del Fascismo, assistiamo all’assalto al carro dei vincitori da parte di classi dirigenti prima liberali o monarchiche, e qui valga per tutti l’indimenticabile Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni.

Andando ai tempi recenti, dunque tralasciando la grande letteratura dei gloriosi trenta: il trasformismo del Carlo Levi dell’Orologio, l’Ottieri di Donnarumma o la Morante, potremmo approdare fino all’apertura dei club di Forza Italia negli anni ’90, o a quelli della Lega al sud, o dei Cinque stelle. Lo schema non cambia e credo derivi in misura significativa dall’estrema disomogeneità territoriale. 

Sull’Italia del berlusconismo si interrogano due scrittori come Giorgio Vasta in Spaesamento e Giorgio Falco in Ipotesi di una sconfitta. All’antimeridionalismo della Lega rispondono due notevoli saggi: La razza maledetta di Vito Teti e Leghisti e sudisti di Isaia Sales. 

Spiegare l’Italia nei suoi fenomeni diventa il cruccio intellettuale di un ventennio e oltre. L’emergenza continua però non è dovuta a elementi contingenti: che sia la trattativa Stato-Mafia o lo sforamento dei parametri europei, che si tratti di terremoti o dello spread, il filo conduttore resta l’intrinseca debolezza politica italiana che, se nel passato repubblicano era legata al blocco dell’alternanza, dunque a fattori esterni, in seguito è diventata soprattutto debolezza culturale interna, fatta di assenza di strategie e visioni realmente nazionali di lungo periodo, oltreché di assenza di radicamento territoriale. L’Italia odierna della demagogia populista e delle piccole patrie regionali, per contrappasso ha visto l’emergere di una letteratura alla ricerca della realtà, del paesaggio e dei territori: il Veneto di Trevisan, la Calabria di Serazzi, la Roma di Pecoraro, la Napoli di Carmen Gallo e la Taranto di Modeo. 

Da qui i tentativi di raccontare l’Italia frammentata e le sue storture: il precariato e l’eversione stragista, la Gomorra di Roberto Saviano e lo spopolamento dell’Appennino: tutte facce della continua emergenza italiana.

Resta il fatto che una politica debole non solo non può cambiare la propria classe dirigente, e con essa la propria mentalità, come ricordava l’Asor Rosa dell’84, ma non può nemmeno riformare realmente il paese perché farlo vorrebbe dire riformare se stessa.