Etichettato: politica

Sulla scuola, la società, le istituzioni

*Articolo comparso su La nuova Ferrara del 13 dicembre 2023

La scuola italiana nel dibattito pubblico viene costantemente, e in modo schizofrenico, investita del ruolo di formatrice delle nuove generazioni. Prova ne è l’inserimento ridondante dell’Educazione civica in una programmazione già oberata da decine di progetti, l’alternanza scuola-lavoro, e ora la recente richiesta di introdurre l’Educazione affettiva per combattere la piaga del femminicidio. Si procede dunque per addizioni, in assenza di visioni organiche, come se l’individuo fosse il frutto di un’operazione aritmetica. E invece la letteratura scientifica insegna che l’individuo è il frutto di un’epoca, alla sua formazione concorrono la famiglia, le istituzioni, e la società in cui si vive. 

Se una società si basa sulla competizione, se questa società ha come regola non scritta lo sfruttamento della sua parte fragile; se quello stesso Stato si fonda su un’economia predatoria nei confronti dei popoli in via di sviluppo e delle risorse del pianeta, sul militarismo e la guerra in politica estera; allora, e nonostante la scuola italiana, questa configurazione del globo e della società incideranno profondamente sulle nuove generazioni. La realtà concreta è configurante e più forte di qualsiasi buon comandamento.

La domande dunque è se è possibile formare generazioni migliori della propria epoca in vitro, nonostante le contraddizioni sopra riportate. Ne La grande trasformazione Karl Polanyi rispose che questa configurazione è la causa principale delle sofferenze della società, incluse famiglie e individui. E nella tradizione culturale italiana Francesco d’Assisi e Giacomo Leopardi, partendo da assunti opposti, ovvero presupponendo il primo la bontà del creato e il secondo la natura matrigna, approdano all’unica soluzione della solidarietà umana quale antidoto al male nel mondo. Si cresce desiderando un mondo buono e giusto per tutti, ma da adulti la realtà riproduce inesorabilmente il suo adattamento realista. 

La scuola poi, soprattutto alle superiori, resta tristemente complice della riproduzione sociale. I figli dei laureati, della borghesia colta, vedono un successo scolastico e universitario preponderante, mentre ancora una volta si indirizza la parte linguisticamente e culturalmente più fragile verso scuole tecniche o professionali. 

E che dire delle contraddizioni in merito all’applicazione della Costituzione? L’imposizione fiscale, le varie flat tax, derogano al principio della progressività. Il diritto al lavoro vede i giovani calabresi e siciliani subire una disoccupazione giovanile con punte del 65 per cento. La Costituzione antepone poi la dignità umana e la vita ad ogni altra legge, ma da decenni migliaia di esseri umani continuano a morire nel mar Mediterraneo. 

E ora il femminicidio: non solo viene uccisa una donna ogni tre giorni, ma i morti sul lavoro, spesso operai migranti, muoiono di lavoro quotidianamente. Il diritto alla salute soccombe davanti al collasso della sanità pubblica. E l’attuale sistema demagogico populista, che produce fantocci della cultura utili a condire talk show indegni e manipolare la realtà, nutrono questa società dello spettacolo, trasformando in merce e commercio qualsiasi accadimento, comprese i drammi e le tragedie. Davvero nessuno si accorge quale sia la parte di società che paga tutto questo? 

Rocco Scotellaro e la questione meridionale

di Sandro Abruzzese

*Articolo comparso in precedenza su Le parole e le cose

Rocco Scotellaro è nato a Tricarico, in Basilicata, il 19 aprile del 1923 ed è morto, a soli trent’anni, a Portici, il 15 dicembre del 1953. Scrivere oggi del poeta lucano vuol dire innanzitutto sforzarsi di ricostruire un contesto quasi del tutto rimosso, quello delle lotte contadine del meridione nel secondo dopoguerra. Trent’anni, come quelli di Rocco, se sono pochi per la poesia, non lo sono in generale per la vita dei tempi, poiché l’indice di mortalità era elevatissimo e la morte una vera e propria presenza costante nelle famiglie. Figlio di un artigiano ciabattino e di una sarta scrivana, Scotellaro a 23 anni era già sindaco socialista del suo paese, Tricarico, un comune in precedenza lontano dalla tradizione socialista, e ne aveva subìto ingiustamente le conseguenze, le accuse di concussione, peculato, il carcere, come racconterà ne L’uva puttanella.

Prima ancora aveva assistito ai tumulti del ’42 e partecipato al Comitato di liberazione nazionale, alla battaglia per l’occupazione delle terre che andrà avanti con risultati alterni fino al tentativo di riforma agraria Gullo, di cui scrisse incisivamente Giovanni Russo in Baroni e contadini (1955).

Amico di Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Rocco Mazzarone, nella cultura italiana la figura di Scotellaro risulta ambivalente principalmente per due motivi: il primo è perché, in qualità di realistico cantore dei bisogni e della condizione della civiltà contadina, raccoglieva l’indifferenza di chi nell’ambito culturale ignorava quel mondo e inoltre raccoglieva l’ostilità di chi vi vedeva solo una forza passiva o addirittura regressiva e antimoderna. Gli intellettuali borghesi e urbani, tranne poche eccezioni, erano e sono estranei alle condizioni della provincia italiana perfino attualmente, figuriamoci nei primi decenni del ‘900. All’estraneità rispose nei Quaderni Antonio Gramsci, un altro provinciale, ricordando a Croce che gli intellettuali di provincia non devono essere assorbiti dalle città ma restare legati ai problemi e alle necessità storiche della propria classe sociale.

L’altro motivo che divide l’opinione pubblica su Scotellaro è tutto interno alla sinistra italiana e riguarda la rivalità tra socialisti, comunisti, azionisti, e il fatto che il poeta di Tricarico, nonostante avesse una sua sostanziale autonomia all’interno di questo panorama, venisse schiacciato dal levismo e dal marxismo, dunque i giudizi, le polemiche come quella di Alicata, l’astio, l’eccessiva severità, si confonderanno sempre all’agiografia e al mito del sindaco poeta dei contadini, provocando ulteriore confusione.

A fare chiarezza sul lucano contribuisce di recente lo studioso dell’Università della Calabria Marco Gatto con il volume licenziato per Carocci (2023) Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Gatto con una meticolosa ricostruzione restituisce a Scotellaro in prima luogo la sua cultura e preparazione classica, messa in dubbio frettolosamente da scrittori come Bassani. I vari collegi e licei, da Sicignano a Potenza, Trento, hanno impresso una solida cultura umanistica nello studente di Tricarico, questo fa di lui non un poeta-contadino, come più volte si è scritto, bensì un intellettuale organico gramsciano, un mediatore che per interpretare i conflitti e le contraddizioni quanto mai mobili del meridione subalterno, con la giusta dose di realismo e universalismo, regredisce, si approssima e infine si identifica – sostiene Gatto – con le esigenze delle masse popolari.

Questa lettura apre a un’idea di letteratura e di sapere che non ha come obiettivo l’assoluto del moderno, ma la lotta, in un ottica nazionale, per l’emancipazione del “consorzio sociale” di cui si fa parte. Basterebbe questo a giustificarne la fortuna nel panorama italiano. Scotellaro porta in superficie, espone la verità non narrata, attingendo all’autobiografia produce versi e immagini plastiche, a volte inedite. Che venga tacciato di populismo o crepuscolarismo, oppure che la sua poesia resti in parte acerba e nel complesso non si tratti di un compiuto capolavoro, poco importa.

Qui, di nuovo risalendo al contesto, occorrerebbe per provocazione che ci chiedessimo cosa pensare di un intellettuale popolare, chiuso in una torre d’avorio, mentre all’esterno la disoccupazione, l’analfabetismo, la mortalità infantile, i problemi sanitari, l’emigrazione, schiacciano le masse contadine portandole costantemente alla mercé della classe dominante. È bene ricordare poi che Scotellaro ottenne una vera e propria investitura, con 1.778 preferenze fu il più votato alle elezioni comunali (nella consultazione successiva del 1948 avrebbe ottenuto 2.090 preferenze). Il ’49 è l’anno dell’occupazione delle terre incolte, delle vittime della Polizia a Montescaglioso. Il bracciante Giuseppe Novello muore dopo tre giorni di agonia in ospedale e Scotellaro gli dedica una delle sue poesie più belle:

Montescaglioso

Alla vedova di Giuseppe Novello
Mai perso bene questo sole e lacqua,
ma quando la tempesta vendemmia le vigne
i cani si fanno irosi, addentano,
impazziscono le donne distese nei letti
allora lultimo cerchio che fa lacqua è nostro,
c’è sempre chi getta la pietra nel pozzo.
Tutte queste foglie ch’ erano verdi:
si fa sentire il vento delle foglie che si perdono
fondando i solchi a nuovo nella terra macinata.
Ogni solco ha un nome, vi è una foglia perenne
che rimonta sui rami di notte a primavera
a fare il giorno nuovo.
E’ caduto Novello sulla strada all’ alba,
a quel punto si domina la campagna,
a quellora si è padroni del tempo che viene,
il mondo è vicino da Chicago a qui
sulla montagna scagliosa che pare una prua,
una vecchia prua emersa
che ha lungamente sfaldato le onde.
Cammina il paese tra le nubi, cammina
sulla strada dove un uomo si è piantato al timone,
allalba quando rimonta sui rami
la foglia perenne in primavera.

Sarà in seguito all’ingiusta detenzione, saranno i due mesi di carcere, le continue divisioni in seno alla maggioranza consiliare di Tricarico, fattori che segneranno il bisogno di distacco dall’ambiente lucano per la ricerca sociologica, come attestato dalle lettere, a suggerire la scelta di un’altra modalità di lotta, in cui egli dimostrerà ancora una volta una profonda capacità di analisi e mimesi. Che L’uva puttanella sia un memoriale o un romanzo frammentario, che la lingua sia un misto di parlato e letterario, ancora una volta, poco importa, chiunque può riconoscervi la condizione di ingiustizia sociale e la gente di Steinbeck e Simon Weil.

Se i giudizi critici su Scotellaro risentono di eccessivo schematismo, il poeta, ricorda Gatto, attraverso l’inchiesta sociale non solo forza i limiti della letteratura guardando più a Verga che a Levi, ma apre un solco, quello del reportage e dell’inchiesta sociale, che sarà prolifico fino ai nostri giorni. Gatto, grazie alla lettere inedite messe a disposizione nel tempo da Franco Vitelli, dimostra quanto il rapporto filiale con Levi e Rossi-Doria non implichi alcuna sudditanza, anzi ascriva la figura di Scotellaro più al solco politico di Gramsci e a quello culturale di De Martino che agli azionisti.

A suo modo dunque il poeta di Tricarico rende nazionali i termini di una questione relativa a un mondo lontano ma non più silenzioso e immobile, lo fa non esente da difetti, da scivolate, errori, ma sempre la sua spinta intellettuale, il suo cantiere aperto, apre a problemi irrisolti, vivissimi, a contrasti e possibili soluzioni, che finiscono per ricordare quel De Martino, a cui pure in passato Vitelli lo aveva associato, alla costante ricerca di “un umanesimo inclusivo capace di porre il problema del protagonismo storico delle masse oppresse e dei popoli colonizzati”, storicizzando il loro modo di opporsi al mondo per non lasciare l’arcaico alla strumentalizzazione reazionaria, ma indirizzarlo, insieme alla parte nobile della tradizione, in senso progressivo.

E allora a distanza di settant’anni dalla morte del poeta di Tricarico, una morte inattesa quanto simbolica per via del suo intrecciarsi alla coeva scomparsa del mondo contadino per via dell’emigrazione verso il boom economico, checché ne dicano i critici, le sue opere sono stampate e vendute, e noi siamo qui a scrivere e leggere di lui, come di uno di quegli intellettuali italiani realmente nazionali-popolari, battutosi per un’idea di nazione giusta, armonica, e democratica. Bene ha fatto Rossi-Doria ad associare la figura di Scotellaro a quelle di Pisacane o Gramsci e Gobetti, i Rosselli, a cui aggiungerei figure come Enrico Berlinguer o Alex Langer. Scotellaro, oltre ad aver trasformato l’io in noi, ha donato respiro e voce al popolo delle formiche affinché in futuro si fosse “padroni del tempo che viene”. Forse è questo il filo manifesto del successo del poeta lucano nel tempo: l’esser stato fino in fondo per gli altri e “degli altri”. Ne pagò le conseguenze. Questo onere, come un peso, lo ha sicuramente gravato nelle preoccupazioni immani e schiacciato anzitempo, ma ne ha lasciato intatta la fame di coscienza attiva e conoscenza volta al cambiamento.

Leggere Scotellaro oggi, dunque, sostituendo al solo meridione d’Italia i sud del mondo e i migranti globali a quelli nazionali, restituisce un orgoglio, forse l’unico orgoglio accettabile, quello di essere sconfitti, ma dalla parte giusta.

La lezione di Scotellaro, al nichilismo della società spettacolare odierna, oppone il desiderio di una vita piena di senso, in cui ognuno possa sentirsi parte di un tutto volto all’elevazione non solo materiale, ma spirituale e morale.

In fondo, la questione sociale sarà la radice di ogni futuro problema nazionale, molti degli assilli italiani di oggi risalgono alle vicende di quello sviluppo parziale e violento del paese narrato poi da Visconti in Rocco e i suoi fratelli. Ritengo che si possa fare una storia dell’Italia repubblicana solo a partire dall’emigrazione di massa della civiltà contadina, senza cui nulla degli eventi successivi resta comprensibile in Italia. Da lì si dipana, come da una matrice o radice, una mappa tentacolare, rizomatica: da lì arrivano l’eccessiva disuguaglianza nel paese, l’endemica debolezza politica ostaggio di clientele, la susseguente forza delle organizzazioni criminali, l’abbandono di intere aree del paese (aree montane, collinari, isole), le divisioni regionali odierne e, non ultimo, il pregiudizio antimeridionale.

Se centosessanta anni di emigrazione continua fanno del meridione d’Italia l’area più depressa dell’Europa occidentale, e fanno dei meridionali italiani l’ennesimo popolo errante della storia, ebbene l’atto di autoredenzione dei migranti italiani, i loro sacrifici, non hanno evitato le ricadute sul territorio che nel lungo periodo sono sotto gli occhi di tutti. Ma a tal proposito sovviene ancora Antonio Gramsci, quando in un raro discorso parlamentare prima della prigionia che lo portò alla precoce morte, ricordava che si possono chiedere sacrifici a una parte del paese per un periodo limitato, dopodiché, per dirla con Scotellaro, la patria si fa sottile come un filo d’erba, o una trincea, e allora prima o poi ancora una volta bisognerà scegliere da che parte stare.

Bibliografia essenziale

Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977.

Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale, Carocci, Roma, 2023.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945.

Giovanni Russo, Baroni e contadini, Laterza, Bari, 1955.

Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, postfazione di Franco Vitelli, Mondadori, Milano 2004.

Rocco Scotellaro, È fatto giorno, ed. riveduta e integrata da Franco Vitelli, Mondadori, Milano, 1982.

Rocco Scotellaro, L’uva puttanellaContadini del Sud, Laterza, Bari, 2012

L’Italia: il Paese delle emergenze

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, inserto culturale domenicale del Quotidiano del Sud

L’Italia, come ebbe a scrivere in un articolo del 1984 Alberto Asor Rosa, è un paese in emergenza, che ha fatto della mediazione e del trasformismo politico una vera e propria arte di sopravvivenza Un paese nato rocambolescamente durante il Risorgimento e ricostruito, dopo la Guerra civile della Resistenza, in situazione se possibile ancora più incerta, vista la Guerra fredda.

La letteratura spesso ha registrato questo aspetto: I Vicerè di De Roberto, a cui molto deve il più famoso Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, narra appunto la saga degli Uzeda e il loro passaggio strategico dai Borbone al parlamento dei Savoia, così come Il Bell’Antonio di Brancati narra del rapporto tra borghesia e fascismo. E sebbene la Sicilia sia un luogo nevralgico da cui si capiscono tante cose della storia d’Italia, anche in Veneto, come raccontano Ippolito Nievo o Alvise Zorzi, il voltafaccia dell’aristocrazia di terra giocò un ruolo non secondario nella fine della Repubblica di Venezia, schiacciata tra francesi e austriaci a fine ‘700. 

A far luce su Risorgimento e trasformismo delle classi dirigenti contribuisce  di recente lo storico Carmine Pinto nel suo La guerra per il Mezzogiorno, da cui emerge una storia d’Italia non riducibile alla semplice dicotomia Sud-Nord, bensì molto più sfaccettata, in cui le divisioni interne ai paesi e alle città della penisola, a volte in preda a vere e proprie annose faide, hanno svolto un ruolo di primo piano nel successo dei vari partiti in lotta. 

Che si tratti dell’Italia liberale di Giolitti o del dilagare del Fascismo, assistiamo all’assalto al carro dei vincitori da parte di classi dirigenti prima liberali o monarchiche, e qui valga per tutti l’indimenticabile Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni.

Andando ai tempi recenti, dunque tralasciando la grande letteratura dei gloriosi trenta: il trasformismo del Carlo Levi dell’Orologio, l’Ottieri di Donnarumma o la Morante, potremmo approdare fino all’apertura dei club di Forza Italia negli anni ’90, o a quelli della Lega al sud, o dei Cinque stelle. Lo schema non cambia e credo derivi in misura significativa dall’estrema disomogeneità territoriale. 

Sull’Italia del berlusconismo si interrogano due scrittori come Giorgio Vasta in Spaesamento e Giorgio Falco in Ipotesi di una sconfitta. All’antimeridionalismo della Lega rispondono due notevoli saggi: La razza maledetta di Vito Teti e Leghisti e sudisti di Isaia Sales. 

Spiegare l’Italia nei suoi fenomeni diventa il cruccio intellettuale di un ventennio e oltre. L’emergenza continua però non è dovuta a elementi contingenti: che sia la trattativa Stato-Mafia o lo sforamento dei parametri europei, che si tratti di terremoti o dello spread, il filo conduttore resta l’intrinseca debolezza politica italiana che, se nel passato repubblicano era legata al blocco dell’alternanza, dunque a fattori esterni, in seguito è diventata soprattutto debolezza culturale interna, fatta di assenza di strategie e visioni realmente nazionali di lungo periodo, oltreché di assenza di radicamento territoriale. L’Italia odierna della demagogia populista e delle piccole patrie regionali, per contrappasso ha visto l’emergere di una letteratura alla ricerca della realtà, del paesaggio e dei territori: il Veneto di Trevisan, la Calabria di Serazzi, la Roma di Pecoraro, la Napoli di Carmen Gallo e la Taranto di Modeo. 

Da qui i tentativi di raccontare l’Italia frammentata e le sue storture: il precariato e l’eversione stragista, la Gomorra di Roberto Saviano e lo spopolamento dell’Appennino: tutte facce della continua emergenza italiana.

Resta il fatto che una politica debole non solo non può cambiare la propria classe dirigente, e con essa la propria mentalità, come ricordava l’Asor Rosa dell’84, ma non può nemmeno riformare realmente il paese perché farlo vorrebbe dire riformare se stessa.

Nel fumo della Calabria

Marina di Badolato, agosto 2021, foto Sandro Abruzzese

*Articolo pubblicato in precedenza qui su Terzogiornale

Lettera da una regione devastata dagli incendi, in cui solo la ripresa di un discorso sul Mezzogiorno come grande questione nazionale, oggi europea, potrebbe lasciare intravedere una possibilità di riscatto

Badolato marina, il luogo in cui risiediamo per le cosiddette vacanze, è un paese-pulviscolo, eccentrico, cresciuto come altri sulla strada statale, in cui il volto più umano degli abitati è quello delle case popolari, e quello più asfissiante e anacronistico è fatto invece di palazzi di cemento altissimi, del tutto simili a qualsiasi periferia cittadina da “mani sulla città”.

Anche stanotte, a Badolato, è arrivato il fumo dei roghi appiccati sulle colline della Calabria ionica. Il fumo, ormai lo sappiamo, non viene da solo, ma porta con sé la cenere che pian piano ricopre tutte le superfici e si incunea dappertutto. La cenere la ritroviamo in auto, sulla tavola, nel mare, e persino sul gelato artigianale prodotto nei bar della statale.

Dopo quindici giorni di incendi, la reazione dei nostri corpi alla presenza del fumo non è più la stessa: nessun allarme o insonnia, certo l’olfatto porta le sue informazioni al cervello, ma non accade più nulla, siamo assuefatti all’odore come al rischio costante sottotraccia. E il fumo e l’assuefazione appaiono come le metafore di una condizione collettiva meridionale.

Stamane alle 5 hanno evacuato il borgo di Isca, lambito dalle fiamme. E la stessa sorte ha avuto nei giorni precedenti Badolato superiore, scomparsa in fittissime nuvole di fumo e poi evacuata. Dal mare, assistiamo inermi a questo doloroso gioco delle parti fatto sulla pelle dei calabresi: Canadair ed elicotteri, e i volontari, spengono gli incendi che qualcun altro, la sera stessa, puntualmente appicca. Nella piazza Tropeano, di fronte alla chiesa, un murales ricorda Franco Nisticò – attivista ed ex sindaco deceduto nel 2009 in seguito a un arresto cardiaco durante una manifestazione, in prima linea nella lotta per l’adeguamento della statale 106 –, ma, inoltrandosi sulle colline sbancate del retro del paese, il paesaggio brullo e disordinato sembra dire che da soli non sarà facile venire a capo della situazione.

Va detto che la voce dei badolatesi si è fatta subito sentire con un sit-in e un corteo alla cui testa campeggiava lo striscione con la frase “Bruciateci tutti”; ovviamente la sera stessa i fuochi illuminavano i boschi della montagna, ma almeno la manifestazione ha ribadito che le prime vittime di questa emergenza restano i cittadini, letteralmente ostaggio della strategia incendiaria.

Parlo di strategia anche se, sulle ragioni dei roghi, non mancano gli interventi di protagonisti e osservatori capaci come Tonino Perna, Francesco Bevilacqua, Battista Sangineto, Vito Teti: e tuttavia anche questi commenti, trattando di problemi ormai annosi, fanno parte di un dibattito stanco, ripetitivo, pieno di frustrazione, perché privo di reali interlocutori. Se per esempio prendessimo articoli di dieci o vent’anni fa sull’argomento, li ritroveremmo attualissimi. Il fatto è che i problemi della Calabria si conoscono, le possibili soluzioni pure, ma non accade quasi mai nulla. Se dietro il fenomeno roghi c’è il mercato privato degli spegnimenti affidati ai Canadair, oppure la pressione per assumere i forestali, se si tratta di dolo volontario o involontario, di vendette o tattiche, la sostanza del discorso non cambia.

In genere il controllo del territorio si indebolisce nelle aree ad alta densità criminale, afflitte da disoccupazione endemica; alla base vi è una fortissima disomogeneità territoriale col resto del paese, in grado di pregiudicare il funzionamento delle istituzioni locali e nazionali, dunque di inibire i servizi essenziali. È questo il fumo vero che avvolge la Calabria e Badolato, come tutti i luoghi anche solo parzialmente esclusi dallo sviluppo peninsulare. È questa ripetitività ciclica inesorabile, insieme con l’assenza istituzionale, ad alimentare una sorta di nichilismo meridionale.

Dunque, il tema vero – penso mentre osservo le puntuali colonne di fumo nero innalzarsi verso il cielo – è fatto di parole altrettanto desuete come lavorocontinuità generazionalearresto dell’emigrazione giovanile, piani contro lo spopolamento e il dissesto idrogeologicolotta alla criminalitàgaranzia di servizi di livello nazionale.

È chiaro che l’elenco appena prodotto non può che riguardare una politica e una cultura a carattere nazionale, che abbia una visione del paese nella sua interezza, anche perché se lasciamo il campo al razzismo antropologico non facciamo che il gioco leghista di fazioni impegnate a dividersi il bottino italiano.

Intendiamoci, con questo non voglio negare la parte di responsabilità locale, di cui il cittadino calabrese è investito, bensì sottolineare che l’autorealizzazione personale, o il capitale sociale, per potersi dispiegare liberamente, necessita di luoghi inclusivi, di istituzioni sane e imparziali, e ciò spesso avviene laddove i territori subiscono dei processi di “distruzione creatrice”, cosa che in Calabria, per una serie di ragioni, non è accaduto.

Insomma, in una realtà fatta di reti e conoscenza, di mobilità e competizione, l’omogeneità, la coesione territoriale, la produzione di ricchezza autonoma, devono essere tra gli obiettivi nazionali principali per attenuare distanze e differenze: solo così ci si affranca da alibi identitari ed esotismi meridionalistici, da pregiudizi settentrionali e leghismi. Solo in questa battaglia istituzionale, portando i venti milioni di italiani del sud a livello delle altre Italie, è possibile una politica nazionale di grande respiro nel consesso europeo e mondiale. L’abbandono di questo obiettivo storico sancisce non tanto la crisi della Calabria, ma della politica italiana dopo la caduta del Muro.

È dunque la politica nazionale a dovere, in ogni modo, far sì che le istituzioni diventino realmente garanti costituzionali, altrimenti delle istituzioni viene meno la grande forza configurante e denotante, base primaria per un autentico progresso fatto di diritti.

In questi termini, la Calabria è un punto nevralgico in cui si addensano tutti i problemi italiani, perché è nella parte più debole di un paese che i fenomeni negativi si fanno più evidenti. L’errore più grave sarebbe quello di far finta di credere che si tratti di una questione locale, quando non c’è nulla che sia solo locale in un mondo interdipendente come il nostro.

sandro abruzzese

Coltivare la cultura

*Articolo uscito in precedenza qui sul Quotidiano del Sud

Si fa sempre un gran parlare di cultura nel nostro paese, si tira in ballo la scuola e quello che i ragazzi dovrebbero sapere e non sapere. L’ultima trovata ministeriale è stata l’introduzione dell’Educazione civica nelle scuole superiori, come se studiando la Storia o il Diritto non si affrontassero i medesimi argomenti, o come se fosse possibile studiare la Storia senza affrontare l’educazione civica. A scuola non si fa politica, spesso si ripete. Ma è proprio così?

Ebbene l’impressione è che alberghi molta confusione non tanto sul termine specifico, quanto sullo scopo finale della cultura. Se cultura vuol dire coltivare, passare dalla superficie alla profondità e comprendere, essa è sempre arbitraria, è sempre una scelta di campo, ecco* perché non può delinearsi solo come sapere astratto o disciplinare. Anzi il senso ultimo per noi italiani non può essere che la cultura democratica tout court, ovvero l’unione di uguaglianza e diritti nella vita individuale, sociale, politica, come recita la Costituzione. Il fine di questa cultura poi, non potrà che essere l’antifascismo, ovvero l’amore per la libertà dei popoli e per i diritti umani, alla base di qualsiasi legittimazione istituzionale democratica.

D’altronde di cosa parla quel capolavoro letterario di La Cava, I fatti di Casignana, se non dell’utopia dell’emancipazione? Di cosa parla Sciascia quando nelle sue opere mette a fuoco con estrema lucidità l’essenza della Sicilia e il suo rapporto con la mafia? E di cosa parlano La storia di Elsa Morante, o Il partigiano Johnny di Fenoglio? Sullo sfondo vi è sempre la costruzione o l’utopia di un paese democratico, dunque più umano. L’abissale differenza tra partigiani e fascisti in Fenoglio è nella diversa dignità che si attribuisce al genere umano, è questo in fondo a farne una questione di vita o di morte con i repubblichini, non è altro che la diversa considerazione che si ha per i popoli e le genti.

Se questa è la premessa naturale a un discorso culturale repubblicano, va rilevato che la cultura democratica ha un forte senso politico, o meglio che nella nostra storia non esiste cultura senza politica, anche perché essendo l’Italia la patria della dittatura fascista, i nostri padri costituenti hanno scritto la Costituzione in completa opposizione ai princìpi del Ventennio.

Eppure, da più parti, in varie stagioni e giorni alterni, si invoca sempre più una cultura indistinta, magari piegata alle leggi di mercato, cioè svuotata della sua carica politica. Si vorrebbe quasi che la cultura democratica perdesse di vista il suo telos, e magari smarrisse il suo scopo finale per diventare qualcosa di innocuo e irrilevante per chi esercita il potere.

sandro abruzzese

Riabitare: intervista sull’Irpinia

*Intervista a cura di Maria Fioretti pubblicata qui su Orticalab

«In Irpinia lo spazio è stato violentato e la mentalità clientelare ha fatto il resto, negando ai giovani la libertà»: lo sguardo di Sandro Abruzzese sui nostri luoghi interni

foto di Marco Belli

È nato e cresciuto nella Valle dell’Ufita, Sandro Abruzzese. Narratore di talento, oggi vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un Istituto d’Istruzione Superiore. Su queste colonne digitali abbiamo imparato a conoscere il suo pensiero, espresso in parole: l’ultimo regalo che ci ha fatto – lo trovate QUI – è una lettura, emblematica fin dal titolo Avere un posto nel mondo .

Un contributo tratto dal volume di prossima pubblicazione  Aree interne, sperimentare per ri/abitare , con sperimentazioni progettuali nei comuni molisani di Riccia, Jelsi e Gambatesa, a cura di Nicola Flora e Francesca Iarruso. La pubblicazione è divisa in tre parti: Saggi, Sperimentare col progetto, Sperimentazioni e prospettive nell’Alto Fortore: Riccia, Jelsi, Gambatesa.

«Si tratta di un elaborato curato dalla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli, su impulso del Professor Nicola Flora, coadiuvato da Francesca Iarruso. Grazie a loro ha trovato spazio – in un volume tecnico – anche una riflessione di carattere più letterario-filosofico, proprio perché è stato scelto un approccio multidisciplinare. Nel mio contributo ho provato a mostrare lo spazio e i legami dell’abitare, stando su un fronte diverso rispetto ad un architetto che intende costruire, provando a mostrare l’atto del costruire come una possibile violenza».

E l’Irpinia del post terremoto questa brutalità di una nuova fondazione l’ha subita: «Uno scritto in controtendenza, opposto al modo di pensare a questi luoghi, di raccontarli. Sono passati quarant’anni ormai, è tempo di occuparsi dei giovani, di chi abiterà la nostra terra tra vent’anni. Questa è una provincia in cui lo spazio è stato particolarmente abusato e continua ad esserlo, e paradossalmente mancano infrastrutture essenziali. Così a poco a poco si è finito per alimentare l’inabitabile, si crea una frattura insanabilecon l’unica ricchezza che abbiamo negli Appennini: il paesaggio, inteso come rapporto di cura dei luoghi e dimora. Inoltre costruendo male, oltre allo scollamento con la campagna, si sono create le condizioni per cui i grandi paesi irpini come Ariano, Grottaminarda, Solofra, hanno tutti i problemi di una città, senza averne i pregi, mentre i paesi più piccoli muoiono del tutto».

Le chiamiamo aree interne, ma secondo Sandro Abruzzese questa è una definizione che toglie molto al nostro essere: «La trovo imprecisa, personalmente non la apprezzo perché attiene a un lessico tecnico, freddo, distante. La distinzione di questi tempi non è fondamentale, certo, ma anche nel lessico si avverte la tendenza verso parcellizzazioni, una visione settoriale. Intendiamoci, chi si occupa di aree interne è nel giusto, ma non deve dimenticare che sta colmando il vuoto di “cultura nazionale” del Paese. Un’Italiache ha nella conoscenza profonda della sua storica frammentarietà, della sua molteplicità, è la vera soluzione per aver cura e attuare la Costituzione. Ho paura che, col termine aree interne, si finisca per parlare il linguaggio tecnico, e lo specialismo tende a restringere il campo, a vedere una parte del tutto. Accade lo stesso quando si parla di Sud in maniera troppo unitaria e indistinta».

Il vero nodo però non sta nel linguaggio. Noi ci specchiamo nelle istituzioni che ci governano: «Quella con cui in Irpinia abbiamo modo di confrontarci è un’istituzione, lo sappiamo, spesso clientelare. Ora questo tipo di politica non è solo antipatica o ingiusta eticamente, ma è soprattutto improduttiva economicamente e socialmente lesiva. Non spinge a intraprendere, non garantisce chi vuole rischiare qualcosa e, alla lunga, finisce col danneggiare irrimediabilmente il territorio. Ancora però mi pare non ci sia questa autocoscienza, questa ammissione, per cui forse siamo ancora incapaci di riconoscere che nel lungo periodo una mentalità politico-clientelare ottiene risultati molto limitati, pregiudicando l’interesse generale e con esso il futuro che fatichiamo a costruire. Le nostre case vuote e non finite, i figli lontani, ci dicono questo».

Ma come si sostituisce qualcosa di così radicato? «Innanzitutto prendendone atto. Non cercando di trasformare in statisti i vecchi notabili della Dc (in altri luoghi saranno di altro colore politico magari), perché non è così. E poi cercando di sostituirla questa cultura clientelare. Tirando su delle classi dirigenti che magari siano disposte a perdere pur di fare la scelta giusta per la collettività. Il punto è rendersi conto di che cosa abbiamo avuto e di cosa realmente vorremmo avere avuto, e quali sono i metodi per raggiungerlo. Se vogliamo prosperare deve essere chiaro che l’interesse della politica clientelare è contrario al libero sviluppo del territorio, alla partecipazione civica, all’associazionismo, e che un’istituzione piegata a queste logiche è un esempio negativo che denota e configura la società che lo subisce. Tutte le fabbriche che riempiono le aree industriali, sono state utilissime, essenziali per generare economia e lavoro nel breve periodo, certo, solo che per qualcuno i compromessi, l’assenza di trasparenza e di possibilità, ha generato una spinta inversa. Se penso alle possibilità di riabitare per i giovani, eliminerei la dicotomia tra restare e tornare, mi soffermerei sulla loro necessità di essere liberi. Nessuno dovrebbe subire un uso improprio, parziale e dannoso delle comuni istituzioni, sacrificandovi la propria libertà».

Potremmo considerare che la SNAI – alle nostre latitudini – sia fallita in Alta Irpinia anche per questo, perché è successo di trovare un Sindaco molto più forte della stessa Strategia Nazionale per le Aree Interne, capace di tenere sotto scacco l’intero progetto e tutta l’area pilota: «Chi ha costruito il suo potere su una mentalità padronale difficilmente si dimostrerà aperto al rinnovamento, perché non lo puoi controllare il cambiamento, e quindi non sarà disposto a rinunciare al suo mondo per il nostro. Pensiamo ad esempio agli ospedali che chiudono o che non funzionano, che non riescono mai ad essere un’eccellenza, si preferisce questo, finendo per creare quel fenomeno del turismo sanitario che è umiliante per il cittadino meridionale. L’Istituzione è connotante, è un esempio, educa, ed è figlia di una mentalità. E quando è davvero capace di ricoprire il suo ruolo, riesce a togliere alle comunità, cosiddette marginali, anche qualche complesso di inferiorità, dimostra che ce la possiamo fare. Il nodo istituzionale si rivela fondamentale per l’Irpinia, per il Meridione che deve recuperare quella cittadinanza attiva soffocata dal potere politico. Ecco, si potrebbe partire da questo, dall’ammettere che fino ad ora si è generato sudditanza, che non è volano di prosperità e intraprendenza o cambiamento, ma di privilegio».

Sandro Abruzzese è uno di quei figli che se ne è andato: «Senza più tornare, o meglio per tornare ho dovuto inventarmi un mestiere. Questo mio scrivere non è altro che la voglia di restare e esserci, mi consente di stabilire delle relazioni pur mancando la presenza fisica, il pensiero ai miei luoghi è costante. Non posso rinnegare la partenza, troppe volte i giovani sono stati traditi da chi è venuto prima di loro. Nella mia esperienza l’emigrazione è stata una forma di redenzione, ha significato lasciarsi alle spalle tutto, rimettersi in discussione e non basta dirsi che lo hai fatto per un lavoro migliore e per dei servizi garantiti, perché resta un percorso doloroso, di perdita. Nessuno mi pare ricordi mai la divisione tra chi è complice e resta nel privilegio a casa, chi ha ricevuto vantaggi dall’iniquo stato di cose, e chi è dovuto o è voluto andar via, anche questa è un’ennesima frattura e rimozione collettiva. Invitare i giovani ad un ritorno, tenendo fuori questi nodi, sarebbe ingiusto e retorico».

Dopotutto è questa la nostra più grande contraddizione, un’infinita bellezza e nessuna capacità di costruire un progetto: «Viviamo dei luoghi fatti di semplicità, con vallate e colline aperte, maestose. Eppure ogni paese è ricostruito voltando le spalle a questa bellezza. Ma una volta che ci è stato tolto questo rapporto, cosa resta? Senza campagne, senza fiumi, senza boschi, e centri urbani vivi, e ragazzi, e figli. Senza lavoro, senza continuità generazionale, e per giunta con l’inquinamento, col cemento e l’incuria…Questa è la nostra compresenza dei tempi, di assenti e presenti, di nostalgia e scettico cinismo. Se non riconosciamo queste e altre contraddizioni profonde sarà difficile ri-abitare per davvero».

 

 

 

Langer e Leogrande: dialogo tra le frontiere

*Articolo uscito in precedenza qui su Le parole e le cose

La recente pubblicazione del volume Dialogo sull’Albania (Alphabeta Verlag 2019), curato dall’insegnante e scrittore Giovanni Accardo, incrocia i percorsi intellettuali di Alexander Langer e Alessandro Leogrande a cominciare dall’attenzione che entrambi hanno dedicato al paese balcanico nel corso della loro vita. Un lavoro che, riportandoci alla caduta della Cortina di ferro orientale, ci offre l’occasione per ripercorrere alcune tappe del passaggio di consegne tra i due osservatori sull’Albania, nonché di tentare di comprenderne, almeno in parte, le motivazioni. Si tratta di un intreccio di prospettive che, affrontando temi delicati quali il ruolo delle frontiere, la capacità di dialogo interetnico, l’identità, la memoria, e la tragedia del Mediterraneo, apre a una ripresa di argomenti costantemente al centro del discorso politico odierno.

Frontiere

“Le frontiere cambiano, non rimangono mai fisse. Si allarga l’Europa e mutano i punti di ingresso. Scoppiano guerre, cadono dittature, (…) e si aprono nuovi varchi. I varchi a loro volta creano un mondo”, ha scritto Alessandro Leogrande nella Frontiera, tassello imprescindibile di quello scavo alla ricerca di categorie interpretative della storia recente che è la sua produzione intellettuale.

In questo libro Leogrande, ricostruendo il mondo degli altri, e lottando contro il silenzio che avvolge le vittime del Mediterraneo, raccoglie pazientemente storie che finiscono per tratteggiare le linee di un unico sistema concentrazionario dai confini variabili. L’Eritrea di Afewerki, uno dei fili che consentono all’autore di collegare le ex colonie italiane allo sviluppo di feroci dittature, non è altro che un campo di concentramento in grado di riportare la mente ai peggiori misfatti del ‘900.

E a una sorta di sistema concentrazionario rimandano le insidie e i pericoli dei migranti. Nel viaggio di esuli, profughi e fuggiaschi, è lo stesso Leogrande a parlare di sommersi e salvati in preda a poliziotti sudanesi, trafficanti libici, campi di detenzione, tortura, e infine naufragi. La legge a cui le condizioni dei viaggi conducono i naufraghi, poi, è quella della sopravvivenza, del pensare per sé. Anche in queste storie vi è, come per i profughi seppelliti al cimitero di Agrigento, la scomparsa dei nomi, e il ritorno di semplici numeri identificativi, spesso finiti su delle croci. Per i salvati, quando va bene, non vi è che il caos dell’accoglienza italiana, con tutti i suoi limiti e umori politici.

Leogrande segue i confini europei, da Lesbo a Lampedusa, finché la vicenda del curdo Shorsh non lo conduce a Bolzano, un’altra provincia in cui il fascismo nel corso del ’900 ha generato tensioni tali che oltre settant’anni di Repubblica non sono riusciti a risolvere, e in cui la composizione plurietnica della regione continua a vivere di rispettive separazioni e diffidenze.

È in questo piccolo ginepraio italiano che emerge la figura carismatica di Alexander Langer. Ed è proprio al politico di Sterzing che Leogrande guarda quando si fa, come in questo libro, esploratore di confini, per superare ostacoli e protendersi verso gli altri. È egli stesso, quasi in chiusura del libro, a ribadirlo: “è un elogio dell’autocritica e del tradimento, quello di Langer. Un invito a tradire non questa o quella persona, ma semplicemente l’idea stessa che i gruppi etnici e linguistici debbano rimanere compatti”.

Dialogo

A questo punto non è un caso che il capitolo della Frontiera intitolato Trafficanti narri del viaggio di Francesco d’Assisi in Palestina durante la crociata del 1219. Siamo davanti a un eclatante tentativo di superare barriere, di parlare a un’altra lingua, e – ricorda lo scrittore – a un fallimento, perché Francesco rientrerà sì illeso dalle file nemiche, ma senza alcun risultato tangibile, anzi del tutto scoraggiato per il sentimento di impotenza maturato nell’attraversamento della frontiera. Il frate comprende e dimostra, a un tempo, quanto sia ardua la strada verso la conciliazione di prospettive e ragioni molto distanti.

E proprio a Francesco pensava lo stesso Langer quando, nel Convegno giovanile di Assisi del Natale del 1994, con un lessico estremamente vicino agli scritti del frate umbro, parlò agli astanti di riconciliazione con la natura e stile di vita democratico, moltiplicabile per tutta la popolazione mondiale. Un mondo fatto di reale esperienza di condivisione interetnica, in un rapporto paritario, fondato sulla dignità e la giustizia tra Nord e Sud del mondo.

L’assunto di Langer partiva dalla lezione esperita in Sudtirolo, e cioè che la diversità consente solo due strade: i muri di odio, forieri di epurazione, esclusione, fanatismo; oppure attrezzarsi alla convivenza, nel dialogo, nella cultura, nella legislazione, nella società.

Il mondo plurietnico, andrebbe ricordato più spesso, non è un’opinione, ma un fatto. Ed è diretta conseguenza, Fanon e Said insegnano, dell’interconnessione globale avvenuta in un rapporto di dominio e sfruttamento di popoli, i quali si spostano, fuggono, come documenta Leogrande in Albania e Eritrea, per via della sistematica distruzione del sostrato sociale, economico e politico dei paesi dominati da parte dei colonizzatori. O più semplicemente perché non si può negare ai giovani di qualsiasi luogo di desiderare ciò che è facilmente alla portata dei loro coetanei occidentali.

Per questo Leogrande e Langer pensano al vagabondo e pontiere Francesco, e per questo il sudtirolese, nella sua lettera a San Cristoforo, ricorda la forza e l’umiltà del santo traghettatore di viandanti: “prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, un compito per cui non occorreva certo essere un gigante come te (…)”. E invece di fronte alla scoperta di interi mondi in fuga, i due intellettuali divisi da una generazione capiscono che essere nel giusto non basta, anzi si scoprono entrambi inermi, sovrastati, proprio come era accaduto a Francesco dopo la Palestina.

Se per Langer, quindi, all’origine dell’interesse per i conflitti interetnici vi è l’esperienza dolorosa della propria terra, nonché una militanza trentennale tra le maglie etniche europee, Leogrande viene da quel meridione d’Italia, terra di caporalato e migrazioni, di mafie e politicanti, che si può ben ritenere una delle più grandi occasioni perse del paese.

La Taranto da cui Leogrande parte e ritorna ogni volta è simbolo di un’idea di Meridione calata dall’alto, della grande industrializzazione nazionale, dove le acciaierie hanno decretato, al pari di un sisma, la distruzione dell’assetto sociale, urbanistico e territoriale della provincia.

Dunque, se guardiamo agli scritti del tarantino, il focus dei suoi interessi sembra estendersi e svilupparsi in cerchi concentrici dalla Puglia all’Italia e al Mediterraneo: dalla raccolta postuma su Taranto e l’epopea di Cito, alla vicenda del naufragio della Katër i Radës, dalla ricostruzione del caporalato pugliese alle sorti dell’Albania orfana di Enver Hoxha, e poi dei naufraghi del Mediterraneo. Con Leogrande, come per Langer, siamo dunque di fronte a un intellettuale a tutto campo, stavolta proveniente dalla nobile tradizione meridionalista di Salvemini e Fiore.

Verso la libertà

Tornando al paese delle Aquile, la prima parte del Dialogo sull’Albania, siamo nel dicembre del ’90, principia dalla crisi della guida politica albanese comunista vista e raccontata, nelle vesti di parlamentare europeo in missione estera, da Alex Langer.

Gli studenti affollano le piazze, invocano l’Europa, in molti conoscono l’italiano e considerano l’Italia un approdo e un partner naturale. L’Albania è un paese con fortissime differenze tra città e campagna e, sebbene non si capisca come avverrà, Langer registra un inevitabile processo di cambiamento che giudica fin da subito irreversibile. Quanto ai giovani, scrive: “basta ascoltarli e ammirare la loro incredibile conoscenza delle lingue occidentali per capire che l’Europa è il loro riferimento”. In questa fase – accadrà in futuro per l’ex Jugoslavia – egli intravvede chiaramente la possibilità per l’Europa di esercitare, nell’area balcanica, dopo il lunghissimo regime di Hoxha, definito un “carcere di massa”, una leadership stabilizzatrice.

Tuttavia nel giugno del ’91 la rabbia è per l’insipienza del governo italiano, reo di pretendere, con argomenti pretestuosi quali la raggiunta libertà politica del paese, il blocco delle migrazioni verso l’Italia. Sparare su chi fugge, speronare e ricacciare indietro profughi in evidente e gravissimo stato di bisogno, farà esclamare a un esasperato Langer: “Che vergogna, tutti quei carabinieri, poliziotti e guardie di finanza mobilitati a imbarcare con l’inganno e con la forza, gli albanesi delle zattere, per rispedirli in patria!”. Un intervento inclusivo e generoso, secondo il bolzanino, avrebbe invece fermato l’escalation balcanica, mentre il progetto di una sola Europa ricca non avrebbe evitato un futuro di esodi.

Poco tempo dopo “Un popolo intero, per secoli fiero della sua austera povertà e del suo senso di indipendenza, per un certo tempo si è trasformato in una folla di mendicanti, che chiedevano aiuti all’estero e i cui giovani tentavano in massa di fuggire dal paese per cercare altrove un possibile avvenire di prosperità”, annoterà il bolzanino.

Un paese in cui risorgono problemi etnici con la minoranza greca, in cui la magistratura, come l’informazione, dipende ancora dal potere politico, ma che pian piano, dal ’92 al ‘94, mostra, anche grazie alle rimesse dei numerosi emigrati, piccoli segnali di miglioramento e apertura.

Il paese di fronte

È da qui che un giovanissimo Leogrande, allo svoltare del millennio, riprende il filo, registrando da subito la biforcazione albanese: un doppio volto che passa dalla massiccia e disordinata urbanizzazione di Tirana e Durazzo alle attività criminali del porto franco di Valona.

Ormai gli albanesi si muovono in Europa col passaporto biometrico, e all’esodo del “paese di fronte” corrisponde in Leogrande l’immagine degli immigrati meridionali di un tempo: vi è la stessa mobilità del mondo rurale, dei piccoli paesi verso le aree più sviluppate della penisola.

Nondimeno l’Italia nel marzo del ’97 è colpevole dello speronamento della motovedetta Katër i Radës, in cui muoiono 58 persone. Traspare nei resoconti e nelle analisi di Leogrande, che vanno dall’accoglienza del mercantile Vlora del ’91 alla tragedia della Katës e ai tempi recenti, il desiderio di un Sud e di un’Italia migliori. È come se la vicenda albanese riflettesse ciò che l’Italia e gli italiani sono diventati. L’Albania è in parte ciò che siamo stati, sembra dire il tarantino, e non può, proprio quell’Italia una volta contadina, terra di migranti, non capire di trovarsi al cospetto forse dell’ultima civiltà contadina europea.

Leogrande dell’Albania ama la compresenza di tempi: le tracce sedimentate del fascismo e del comunismo, le ravvicinate contraddizioni, tra nuove ostentazioni di potere, lusso, e antica miseria. Del paese più giovane d’Europa scrive: “passeggiare per Tirana vuol dire attraversare (…) vari piani sociotemporali”.

Purtroppo il mancato dialogo dell’Italia con questa regione, è giudicato un fallimento che verrà replicato dall’Europa con i popoli del Mediterraneo, e allora il punto del suo lavoro sarà cercare di capire come l’impoverimento culturale europeo riesca a ridurre l’opinione pubblica a una sostanziale “indifferenza per la morte” e per il destino altrui, nella convinzione che questa incredibile indifferenza parli ancora una volta non solo delle loro terribili vicissitudini, ma di noi.

Nel frattempo l’Albania si volge ad altri paesi. Rapidamente i suoi giovani imparano altre lingue, guardano altrove. La sua classa dirigente rimuove il passato doloroso con un linguaggio sempre più falso e vuoto.

Rimozione e memoria

Eppure, venendo ai nostri giorni, verrebbe fatto di chiedersi cosa avrebbero pensato Langer e Leogrande se avessero potuto ascoltare, solo pochi giorni fa, in piena emergenza pandemia dovuta al Covid19, le parole del presidente albanese Edi Rama mentre si accinge a spedire una squadra di trenta sanitari in aiuto dell’Italia. Data l’eloquenza, l’umiltà e la ritrovata fierezza delle parole che seguono, vale la pena riportarne qualche stralcio:

“Lo so che a qualcuno qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partano oggi per la linea del fuoco in Italia. (…)”, dice il presidente Rama, “Ma so anche che laggiù è oramai casa nostra da quando l’Italia e le nostre sorelle e fratelli italiani ci hanno salvati, ospitati e adottati in casa loro quando l’Albania versava in dolori immensi. (…) È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere, anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse perché non siamo ricchi ma neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà”.

Sono parole importanti. Oggi che Tirana non è più quell’incrocio di fatiscenza, abusivismo e disperazione, e il primo ad ammettere lo scetticismo del decennio scorso sulle possibilità di un futuro diverso per l’Albania è proprio il suo attuale presidente, le parole sopracitate mostrano a un tempo di voler rimuovere la rimozione del ’97, e di non avere complessi di inferiorità, ma gratitudine. E ancora, il fatto che circa cinquecentomila albanesi vivano stabilmente in Italia, insieme allo stretto rapporto intercorso negli anni ’90, dimostrano la produzione di relazioni e risultati positivi. È lo stesso Langer nel Dialogo sull’Albania a chiarirlo quando spiega, numeri alla mano, come l’Italia, la Grecia, la Germania, tra il ’91 e il ’93, siano stati i maggiori contributori dell’Albania. Quasi la metà delle cospicue somme elargite furono veri e propri doni, e circa il 76% del totale degli aiuti proveniva dalla Comunità europea. La proporzione degli aiuti, scrive il politico sudtirolese, chiarisce “dove cercare i migliori amici dell’Albania”. Rama con le sue parole sembra proprio riconoscerlo.

E infine, chissà se Leogrande avrebbe mai immaginato che una via del centro di Tirana, all’ingresso del Parco Grande, potesse un giorno portare il nome dell’italiano che raccontò la storia degli albanesi: Rruga Alessandro Leogrande. Una via che conduce idealmente alla piazza principale di Tuzla, in Bosnia, dove una targa color argento e un giovane tiglio, dal ’95 sono dedicati all’amico di Tuzla, Alex Langer.

Capita a volte, e forse questo è il caso, che la storia ritrovi le sue trame più esili, e con i suoi tempi lunghi cristallizzi, piuttosto che i grandi avvenimenti, una parte minuta di quei piccoli intervalli, riportando alla luce qualcosa di coraggioso e fragile di quel tutto inestricabile che è il suo fluire. Potremmo a questo punto fare nostro il motto che Edi Rama racconta in Kurban: “Mio padre era solito dire: «Niente vale di più che lasciare dietro di sé un buon ricordo».”

Metamorfosi delle frontiere

Dialogo sull’Albania inevitabilmente conduce ad alcune riflessioni di ordine generale sulle frontiere nell’ultimo trentennio. Se la frontiera è il nostro bisogno di circoscrivere per costruire, è limite e riparo, se è sempre ambivalente e permeabile, non è mai eterna né del tutto naturale. Basta osservare la storia d’Italia con le sue barriere geografiche: l’Italia dei bruzii, quella dei romani, spostano continuamente i confini, proprio come fa l’Europa odierna nel suo allargamento a Est. Vuol dire che la frontiera riguarda la nostra capacità di progettare, è convenzionale e arbitraria, e risponde alla necessità di delimitare il mondo per produrlo e ripensarlo nel tempo.

Tuttavia, proprio come lo Schmitt del Nomos della terra metteva in luce la ridiscussione dello spazio globale ad opera delle nuove potenze mondiali rispetto all’Europa dell’800, oggi l’economia e la finanza, i mezzi di comunicazione e tecnologici, obbligano a ridisegnare il globo secondo proiezioni inedite. Se i dati, il capitale, le guerre, i virus, non hanno frontiere, le ragioni stesse della lotta di classe, della difesa ecologica del pianeta, da tempo hanno superato qualsiasi frontiera nazionale e reso impotente ogni discorso che non implichi la coesistenza in un rapporto di reciprocità.

Langer prima, e Leogrande in seguito, grazie a una visione nitida, di lungo periodo, delle dinamiche internazionali, indicano la strada per gettare le basi di un futuro amico, laddove, sotto gli occhi di tutti, accade l’esatto contrario. Ovvero le frontiere diventano trincee e al futuro si sostituisce la creazione ad arte di continui nemici. Gli sbarchi, grazie a un’informazione compiacente, occupano ossessivamente il centro del dibattito pubblico e il freddo numero di profughi, di vite umane, finisce per spostare il gradimento dei sondaggi e guidare la cinica tattica di partiti vuoti e desueti, da cui emergono leader di carta, mossi da sfacciato opportunismo.

Insomma, le ragioni di xenofobia e nazionalismo, alimentate dalla crisi morale, socio-politica, di rappresentanza, della democrazia attuale, mettono le frontiere al centro della politica nazionale. I limiti, i confini, ricorda Etienne Balibar, non sono più all’esterno, sul ciglio, bensì nel cuore del discorso politico. Sicché il bisogno di sicurezza sociale porta dritti all’identità nazionale, ovvero a una difesa schizofrenica delle radici europee, benché condita di sentimenti antieuropeisti. Si difende cioè il particolare dell’Europa, rifiutandone l’universale, senza comprendere che l’uno dimora inscindibilmente nell’altro. Si difende il simbolo di Cristo, il crocifisso, si richiamano le radici cristiane dell’Europa, dimenticando il Vangelo. Si esaltano sovranità e libertà, calpestando qualsiasi costituzione o diritto.

Ciò che succede in Polonia, Ungheria, Turchia, o quello che Leogrande ha documentato nella Grecia di Alba dorata, è un virus ben peggiore e duraturo del Covid19: la comparsa di un odio etnico cieco, antico e inedito, da cui nessun paese europeo è immune.

Se neofascismo e xenofobia attecchiscono laddove regna l’esclusione a vari livelli, e i discorsi sull’identità emergono quando le difficoltà del caso sono già in stato avanzato, ecco che allora identità e frontiere finiscono per rappresentare il termometro della crisi.

Ciò che Langer e Leogrande portano alla mente è che, come la nazione è stato un progetto dirompente, plurietnico, che ha disintegrato vincoli di sangue e privilegi per solcare nuovi confini, così l’Europa – davanti a decenni in cui interi popoli si muovono nel tentativo disperato di raggiungerla – è chiamata a ripensare il suo ruolo.

È in questo contesto che Alexander Langer e Alessandro Leogrande si collocano in qualità di mediatori e pontieri, per un’idea umanissima di mondo. È duro e forse anche retorico, ancorché verissimo, constatare che, in un mondo così grande e terribile, avremmo avuto ancora estremo bisogno di tutta la loro intelligenza.

 

sandro abruzzese

 

Bibliografia essenziale

Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Palermo, Sellerio, 1996

Alessandro Leogrande, Dalle macerie, Milano, Feltrinelli, 2018

Alessandro Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015

Alessandro Leogrande, Uomini e caporali, Milano,Mondadori, 2008

Dialogo sull’Albania, a cura di Giovanni Accardo, Merano, Alphabeta Verlag, 2019

Etienne Balibar, La paura delle masse, Mimesis Eterotopia, Milano, 2001

Sandro Mezzadra, Terra e confini, Manifestolibri, Roma, 2016

Edi Rama, Kurban, Il sacrificio, Rubbettino, Soveria mannelli, 2018

*Quasi tutti gli scritti di Alexander Langer sono disponibili sul sito della Fondazione Langer:

https://www.alexanderlanger.org/it

Andrà tutto bene

*ARTICOLO USCITO IN PRECEDENZA QUI SU POETARUM SILVA
A sinistra del coronavirus

Tutto si può dire dell’emergenza che stiamo vivendo per via del coronavirus tranne che non sia un’esperienza inedita, in grado di stravolgere il nostro punto di vista sulla realtà, fornendo altre prospettive. Intanto, ridisegnando lo stile di vita delle nostre città e dei paesi, pone la questione dell’essenziale rispetto al superfluo. Mostra cioè il volto della decrescita, un mondo più sobrio e povero, in cui la società diviene nuovamente da ripensare negli spazi e nel tempo secondo un nuovo senso comune dell’umano, tutto da ricostruire, magari all’insegna del lento, profondo, soave langeriano.
Poi l’ampia diffusione del contagio ha spogliato il discorso politico della iniziale sinofobia, lo ha de-etnicizzato, rendendolo pian piano universale. E questa universalità ha a sua volta zittito i vari leader xenofobi italiani, improvvisamente orfani di monotoni argomenti a loro cari per fomentare la paura e la fobia etnica, lasciandoci solo la doppiezza tronfia dell’abborracciato Renzi alla CNN.
Ma stando alla Lega, sul piano nazionale sono disponibili le giravolte di Salvini, passato dal “non si può fermare tutto” al “si fermi chi può”, il filmato di Zaia sui topi mangiati dai cinesi, le performance surrealiste di Sgarbi, sui cui davvero non vale la pena indugiare. Questo, nel silenzio di Berlusconi, è quel che resta della destra italiana. Ma nel frattempo il virus, propagandosi velocemente, rammenta che finalmente il problema non sono più i poveri, i migranti, gli sfruttati, non gli spacciatori nigeriani, non gli zingari o gli accattoni, non i clochard o i meridionali. Non erano loro a rubare il posto all’ospedale, all’asilo, alle case popolari. Anzi, le misure restrittive si abbattono in maniera fortemente disuguale proprio su chi non gode di reti sociali, di ampi spazi e risorse personali. L’emergenza colpisce fortemente chi è più fragile: i detenuti, i centri di accoglienza, le famiglie dei ceti medio-bassi letteralmente stipate in alloggi al limite della claustrofobia.
L’universale del virus, ponendo ovunque il pericolo del contagio, finalmente libera i capri espiatori, i vecchi untori – in precedenza usati per coprire i vizi italici della corruzione, della cattiva gestione dello stato – dal fardello della colpa. Il virus mostra i tagli allo stato sociale costringendoci a scegliere tra chi salvare e chi abbandonare.
Dunque, la pandemia non solo pone la necessità di un forte stato sociale, l’importanza della coordinazione e dell’equilibrio tra le varie parti del paese nel sistema ospedaliero, nell’istruzione, ma ridicolizza trent’anni di politiche neoliberiste bipartisan, nonché buona parte della classe politica nata da Tangentopoli.
Come se non bastasse, poi, con una istantanea obsolescenza non programmata, rende irricevibile e anacronistico qualsiasi progetto di autonomia differenziata in salsa leghista o piddina; e infine riporta l’attenzione sui lavoratori (medici, poliziotti, cassieri, magazzinieri, rider, ecc.), – parola desueta, lo so, – costretti a lavorare ugualmente per non fermare i servizi e l’economia italiana, a rischio della loro salute e di quella dei familiari.
Insomma, un evento del genere invita a ripensare il mondo per una configurazione diversa. Sembra lo shock, la catastrofe messianica benjaminiana, l’accelerazione (o la brusca frenata?) della storia capace di contestare alla radice un sistema tecnocratico e un modello economico per vari e comprovati motivi criticato, ma mai realmente messo in discussione.
A questo punto, rimandando ai problemi sollevati da Agamben (qui) nell’intervento del 26 febbraio sul Manifesto, e poi alle puntuali osservazioni del collettivo Wu Ming nel loro Diario virale sulla pervasività del controllo statale sui cittadini, la creazione e l’utilizzo ad arte dello stato emergenziale (qui l’articolo), mi limito a sottolineare che il virus, parlando di questo nostro essere in comune nel mondo, mostra i limiti del pantano politico italiano-europeo: di ogni discorso di solo impianto localistico, di sola impronta occidentale, o di qualsiasi politica che non sia proiettata in una sfera internazionalista, fatta di popoli e diritti umani inclusivi e estensibili.
La pandemia pone la questione di enormi passioni sopite, di utopie concrete, per troppo tempo messe da parte per la cupezza e il livore, per l’egoismo, l’indifferenza, le menzogne ereditate da questo trentennio. Ma se, in questo processo di elaborazione e risposta globale al virus, le destre europee svelano i tratti della loro inquietante natura, di solito nascosta dalla pavidità e dalla confusione del mondo progressista, il discorso del premier britannico Johnson, per fare un esempio, non solo risulta incredibilmente primonovecentesco, fondato su una concezione dello stato quasi machiavellica, frutto di una missione di dominio del mondo che sacrifica il ruolo del popolo per la grandezza della nazione; nondimeno riesce a negare il fatto che in uno stato democratico non esiste altro destino che il popolo, verrebbe da dire con Jean-Luc Nancy.
E il destino di un popolo è il popolo stesso nella sua continuità e nella costruzione di senso dell’esistenza. In democrazia non si tratta di destini imperiali, bensì di essere insieme agli altri come popolo, e non certo come moltitudini atomizzate da lasciare a se stesse.
Ebbene, il virus dirime anche questo: smaschera e costringe a scegliere tra due strade: la potenza delle nazioni, basata su una competizione internazionale senza freni né regole, che d’altronde ha caratterizzato il ‘900; la condivisione del globo a partire dal riconoscimento degli altri, dunque una nuova produzione di senso che investa la condivisione di questo spazio comune.
Il virus ha abbattuto le frontiere che i “sovranisti”, gli etnocentristi, ma anche l’imbarazzante finto progressismo rappresentato finora dal centro-sinistra a guida Pd, inventano di continuo basandosi su una versione dello stato nazionale superata dalla realtà pluralistica odierna. Così facendo, però, la pandemia reclama un nuovo nomos della terra: la ridiscussione di limiti, misure, confini, simboli, modelli. È, come dice Marco Revelli in un articolo per il Manifesto dell’11 marzo, (qui l’articolo) “una visione del mondo da rovesciare”.
Il vero pericolo politico e sociale, deve essere chiaro, è quel mondo che nega la coesistenza all’altro e che si chiama e si è sempre chiamato, anche se larvato, truccato, rinominato, semplicemente Fascismo. Con esso, si negano non delle opinioni, ma un fatto: il diritto di co-esistere, proprio mentre l’integrazione e interconnessione globale degli esseri viventi realizzata da un modello tecnologico-economico, si riversa con violenza sul piano sociale, ecologico, e quindi di nuovo politico.
Ecco perché la versione neoliberista e sovranista di Boris Johnson, al di là del pragmatismo nichilista, non deve sorprendere: esprime sì uno stile britannico, ma anche il cortocircuito di uno stato che tutela l’interesse capitalista, sacrificando il bene comune, ovvero il suo stesso popolo.
L’auspicio finale è che lo slogan “Andrà tutto bene”, adoperato sui social come atto di resistenza e ottimismo dalla società civile italiana, non significhi che torneremo alla nostra cara disinformazione pubblica, o a distruggere ecosistemi, ad alzare muri e speronare navi gremite di disperati nel Mediterraneo per poi gioire della loro morte, che torneremo al razzismo diffuso, alle politiche di distruzione dello stato sociale, alla de-umanizzazione di poveri e diversi. Passato il virus, occorre un mondo realmente umano. Altrimenti non avremo imparato nulla dall’universale del virus. L’auspicio, insomma, è che vada e “andrà tutto bene”, per noi, ma anche per il resto del mondo.

© Sandro Abruzzese

Dalla fine della Sinistra al Salvinismo

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È difficile rimanere ottimisti di questi tempi rispetto alla situazione politica. Sembra che l’Italia sia immersa in una febbre antica. Si risponde al problema delle migrazioni puntando il dito contro i neri. Sono i neri il problema, diciamocelo, anzi i negri. È difficile dimenticare i fatti di Macerata, Firenze, di San Calogero, l’Aquarius.

La disorganizzazione dello stato italiano produce, oltre alle mafie e ad altre forme di acceso squilibrio, anche questa deriva ignobile. Si vive di capri espiatori come in epoche tutte da dimenticare, utilizzando slogan degni dei periodi più bui della storia.

La regressione del livello politico dei partiti, dell’informazione, e di conseguenza dei cittadini, è il termometro delle condizioni attuali: si ragiona per municipi, interessi di ceto, addirittura emerge un nuovo, fantomatico, interesse nazionale.

Se solo il fascismo mascherato è più odioso dei fascismi, tuttavia i Salvini o i Berlusconi non possono essere considerati la causa, bensì il prodotto della condizione odierna. Per arrivare a questo punto è occorso abituare le persone a narrazioni illogiche, emotive, irrazionali. Occorrono decenni di complicità trasversali per cancellare la ragione, boicottare i nessi logici, ignorare costantemente le cause prime degli eventi e puntare tutto sullo sfruttamento del rancore e della paura. Solo così lo sradicamento, l’emarginazione, la solitudine, le frustrazioni, diventano il bacino d’odio a cui attingono le destre dei vari Salvini. Ma prima di ciò bisogna privare i cittadini di comunità, spaesarli, togliergli assistenza e voce, privarli di senso, per domiciliarli nell’estraniamento, farli sentire insignificanti e inutili. Per arrivare a Macerata, San Calogero e all’Europa odierna bisogna spogliare le persone della loro dignità e abituarle a un certo grado di servilismo, occorre atomizzare la gente per renderla così fragile e debole. È la messa al bando della ragione e della politica a generare la viltà di oggi. Quello che vediamo è solo il prodotto di una lontana e ignominiosa resa.

Tanto più che qualsiasi analisi seria e argomentata, anche se razionale, documentata, veritiera, ormai è destinata a essere zittita dagli schiamazzi di ringalluzziti leader politici e seguaci. Hanno la maggioranza e gli italiani sono con loro, dicono. Allora qualcuno dovrebbe ricordare che tuttavia democrazia non è sempre decidere a maggioranza, poiché non vi è democrazia se non sono assicurate le condizioni democratiche, che vengono prima della maggioranza.

E invece per il problema dei migranti la soluzione proposta da decenni è spostarli, evitarli. Si cerca solo di farli sparire alla vista. Non conta altro.

Qualcuno obietterà che i migranti non fanno parte della famiglia, non sono italiani e per di più sono neri. Ma il fatto è che una patria realmente democratica si costruisce nel rispetto del genere umano, non della famiglia. Una patria democratica, mi riferisco anche all’Europa, è reciprocità, la sua base è la giustizia. E ogni volta che il privilegio soppianta la giustizia, muore un po’ di patria, come sta morendo la nostra, verrebbe da dire.

Prendiamo l’indignazione per le spese dovute ai migranti: stranamente questa indignazione non compare per l’endemica corruzione, per lo strapotere mafioso, per l’inefficienza della giustizia, della sanità, stiamo parlando di cifre ben più cospicue che però hanno un filo in comune: queste, sì, sarebbero responsabilità della nostra classe politica e dirigente.

Dunque, si potrebbe abbozzare una risposta al fenomeno migratorio, tutti sanno che è generato dalla forza centripeta del capitalismo. È il capitalismo, la nostra forma finto-opulenta di esistenza globalizzata, invasiva e distruttiva, a metterci in rapporto di reciprocità con chiunque, una forma economica basata sull’energia e il lavoro a basso costo, per cui il tema dell’egoismo nazionale è non solo anacronistico ma anche un ulteriore svilimento del discorso. Se c’è un debito è dei paesi ricchi verso il resto del mondo, ricordava Langer, poiché sappiamo bene che questa ricchezza è fondata sull’oppressione, la distruzione e l’inquinamento di interi altri mondi possibili. La nostra è una storia di una violenza e di una vigliaccheria inaudita, ma far finta di non averne memoria è davvero il colmo.

Stiamo parlando del sistema politico-economico delle grandi potenze in cui, tra l’altro, da tempo si registra la gravissima subalternità della politica all’economia, per non parlare della dittatura della crescita: un ossimoro che ignora l’ecologia, la sostenibilità, i diritti umani. Ancora una volta siamo vittime di una realtà autodistruttiva e, anzi, tutto il mondo risulta basato sui suoi astuti feticci: quello della potenza, quello del benessere: è una colossale follia globale. La stessa follia proposta sulla pelle dei profughi che fuggono dalle nostre guerre, sulla pelle dei migranti che fuggono dai nostri dittatori. È la politica dello struzzo che pur di non ridistribuire la ricchezza farebbe di tutto.

Ma come è stata possibile tale regressione? Tornando all’Italia, quel che è mancato negli ultimi trent’anni è una vera sinistra internazionalista, pacifista, che rinvigorisse l’imprescindibile critica della società di stampo marxista e con essa rinnovasse l’attenzione alla vita delle persone. E invece la distanza tra società e politica si è fatta siderale e esiziale. Non ultima, è venuta meno quella tensione culturale, il dovere morale della continua ricerca di equità e giustizia propria della sinistra. La critica politico-economica è diventata ricetta stantìa, come le forme di protesta, gli slogan, l’apporto si è fatto talmente narcisistico, egocentrico, da risultare aperto personalismo.

Ciò che rimane nell’immaginario collettivo di trent’anni di politica di sinistra italiana sono i salotti televisivi e i cashmere di Bertinotti, la barca a vela di D’Alema, i romanzi improponibili di Veltroni, l’umiliante deriva verticistica renziana.

Mentre tutti i leader politici occupavano più i talk-show che gli scranni parlamentari, veniva completamente abbandonata la rete capillare delle strutture partitiche della penisola, essenziali luoghi di condivisione, coinvolgimento e partecipazione: vera ossatura della penisola.

Nel frattempo, i luoghi, i territori periferici, abbandonati dai partiti, hanno subito i cambiamenti senza comprenderli e senza potervi partecipare, la vita privata ha preso il sopravvento un po’ ovunque. E il risultato è che i luoghi oggi non esprimono più alcuna identità, non creano cultura, ma la importano dai mass media. Si vive di un riflesso artificiale, regredendo così da comunità a mere località di spaesati. Così i residenti vivono in delle riserve, spettatori delle vite vere, urbane (sempre più artificiali), cioè quelle rappresentate mediaticamente. Nelle riserve la politica oggi arriva solo per le elezioni, a chiedere il voto. È prima di tutto uno sradicamento spirituale, quello di cui parlo, poi materiale, certo, su cui è stato facile soffiare il fuoco della paura, della frustrazione, della rabbia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: e allora è il caso di citare Gramsci per dire: Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.

Sandro Abruzzese

Perché il REDDITO MINIMO è NECESSARIO!

O  del come non si tratta di democrazia, senza giustizia

comunista piero

dal progetto fotografico Close your eyes, a La Courneve, il comunista Piero, foto di Daniele Domenico Delaini

Per capire l’importanza della discussione intorno al reddito minimo occorre fare un discorso articolato. Cercherò di essere il più conciso possibile.

Oggi i governi democraticamente eletti devono sottostare ai ricatti del mercato, del capitale finanziario. Ma la posta politica in gioco, la massima aspirazione per i cittadini, italiani e non, credo sia il raggiungimento del più alto grado di libertà individuale e collettiva, la posta è il progresso morale e materiale, quindi più capacità di incidere sulla propria vita, sulla realtà, più democrazia, socialità.
E tuttavia la libertà non esiste senza le condizioni materiali di libertà: occorre in primis che nessuno sia sfruttato. La libertà è prima di tutto “lavoro e istruzione”, e un sistema di mercato come il nostro è accettabile solo se non genera “dominio e sfruttamento” ma è contendibile, scalabile dai cittadini o addirittura può essere ignorato: questa è democrazia come spazio di libertà.
È chiaro che in Italia, come ovunque, sul mercato esistono realtà di predominanza, fatte di introiti anche clamorosi, ma a questo punto se non interviene una redistribuzione equa delle risorse ci ritroveremo con dei cittadini di serie A e altri di serie B. La libertà di mercato quindi deve essere un’occasione per tutti i cittadini e non deve essere l’unica strada, anzi la sovranità dei cittadini passa per la libertà di scegliere tra competizione e solidarietà, o gratuità, insomma altri stili di vita a cui partecipare col proprio lavoro o contributo cooperativo.

Prendiamo la condizione odierna: oggi chi non ha denaro è spacciato. Oggi si considera compito di uno stato moderno garantire solo sicurezza, libertà, possesso, ma poi si lascia a ognuno l’onere di trovare lavoro, beni e altro. E invece risulta importantissimo rendere conto volta per volta politicamente delle occasioni, delle possibilità offerte ai cittadini (la costituzione insegna!): la divisione del lavoro, il reddito, la costrizione a dover vendere se stessi, le proprie conoscenze, la forza-lavoro, il tempo, secondo condizioni di “mercato” può non essere una condizione democratica poiché il mercato ha tendenza colonizzatrice e totalizzante, per dirla con Stefano Petrucciani, soprattutto se l’economia è slegata dalla preminenza della politica, come accade al nostro stato oggi.

È inaccettabile quindi che si costringa il cittadino ad accettare compensi e lavori determinati dal dominio del mercato e non dalla giustizia sociale (retribuzione, orario di lavoro, ecc). È in questi termini e per non mettere in discussione il capitalismo (il quale, è bene ricordarlo, col meccanismo dell’ereditarietà dei beni si rende antimeritocratico), né la libertà di mercato, che si pone il problema del reddito di esistenza o comunque si voglia rinominarlo. Si pone il problema, pensando a Marx, di limitare il dominio di classe e l’alienazione dell’individuo nella società.
Oggi, tra l’altro, abbiamo i mezzi tecnologici e economici per superare la visione ormai riduttiva nazionale di queste vicende e porle al centro del dibattito politico globale. In poche parole tutti devono ricevere i benefici della ricchezza e hanno il dovere di collaborare a ciò in condizioni di libertà, di opportunità uguali. Questa è la strada per la costruzione di un mondo fatto di libertà autentica.

Quello che ho scritto lo devo a tante letture che non ho il tempo di elencare, ma è frutto del mio lavoro, e produce valore perché chi lo legge impara qualcosa e questo può essere socialmente rilevante. A tal proposito sovviene ciò che scrive sul reddito d’esistenza Girolamo De Michele, e cioè che non lottando contro l’evasione, non avendo la volontà di redistribuire il reddito attraverso una tassazione più equa e produttiva, “anche senza partecipare ad attività produttive dirette, il mio intelletto è sempre al lavoro, come parte di un intelletto sociale che interagisce col sistema globale della conoscenza e della comunicazione” (La scuola è di tutti, p 61), quindi, il sapere nella nostra società è di per sé produttore di valore, è un’attività continua di elaborazione che merita un reddito minimo di esistenza.
Se l’intera vita viene messa in valore, allora è giusto che una parte di essa venga retribuita, oggi la conoscenza è la sostanza stessa del capitalismo che è diventato cognitivo. La conoscenza genera produzione e valore.

 

Sandro Abruzzese