Etichettato: meridione

Raccontare il Sud

*Articolo pubblicato sulle pagine culturali de La Repubblica-Bari

La rappresentazione e il meridione

Nel parlare di letteratura meridionale, avendo presente gli interventi dei miei predecessori su queste pagine, partirò col chiedermi che cos’è e dove comincia il Meridione e qual è la sua cornice. 

La mia risposta è che meridionali si diventa in rapporto alla nascita della civiltà tecnologico industriale. E che il Meridione può essere pensato solo in una relazione di interdipendenza con questo fenomeno epocale, quindi con la storia d’Italia e d’Europa. Nei meridioni europei, dunque, il quadro presenta cornici similari: disuguaglianze socio-economiche esacerbate, disoccupazione endemica,  conseguente emigrazione, spopolamento-inurbamento, una psiche collettiva ferita (complessi d’inferiorità-superiorità, filoni identitari, pseudo-revisionismi storici),  difficile conservazione del patrimonio pubblico e privato, aspetti cronici di corruzione e criminalità, scambio politico-clientelare, mancata creazione di classi dirigenti, debolezza delle istituzioni, ecc.

Se è in questo solco che si colloca la lezione maggiore della letteratura meridionale (la poesia merita un discorso a parte), quella realista che da Verga arriva a Leogrande, e se esistono solo due grandi temi epocali (la fine della civiltà contadina in relazione allo sviluppo di una civiltà tecnologica), allora il canone della rappresentazione meridionale necessita di due altri distinguo: il primo è che  diventa meridionale anche Rigoni Stern, con la sua epopea tolstojana di gente che cammina e migra come in un romanzo calabrese di Perri o Alvaro. Anche quella di Stern è la storia di chi ha subito la storia come pure accade col sardo Dessì che racconta della Sardegna di Paese d’ombre, con Deledda, o come Nuto Revelli fa nel Piemonte contadino. La nostra geografia muta i suoi confini per seguire, intersecando i nodi più significativi della storia, la strada già intrapresa da Silone e Carlo Levi.

L’altro punto è che il Meridione viene così a perdere l’aura mitica fatta di tradizione e unicità, in cui troppo spesso si crogiola, per dirsi simile a molti altri territori periferici d’Europa che hanno sviluppato un rapporto incompleto con la modernità. 

Forse per via delle difficoltà di messa a fuoco, lo rammenta Giovanni Russo nella Lettera a Carlo Levi, o lo ricorda Gramsci quando dice che a Torino, nell’incontro con la classe operaia, non a Ghilarza, capì la lezione di Marx; ebbene la letteratura meridionale ha avuto la necessità dello sguardo esterno: mi riferisco al già citato Levi, col Cristo, e a Ottieri, col Donnarumma all’assalto. Seguendo questa linea incontreremmo Morante, o gli scritti diaristici di Natalia Ginzburg sull’Abruzzo. Meridione se non Africa, è pure la definizione che Bassani dà delle Valli del Delta del Po, narrate anche dalla Viganò.

Inoltre, un territorio di secolare emigrazione come il Sud ha diverse anime, occorre tenerne presente la lacerazione e gemmazione, il suo altrove, e questo accade in Pavese e Pierro ma anche a nord del Tronto con Di Ruscio, ne Gli zii di Sicilia di Sciascia, nella trilogia vigevanese di Mastronardi, e poi con Bianciardi, approdato a Milano negli anni del boom economico dopo la terribile strage di minatori maremmani. È il grande tema della subalternità, dell’incompletezza rispetto al moderno, ad accomunare i minatori della maremma, i migranti degli scontri nella Torino di piazza Statuto del ’62. Il Vittorini del Politecnico tenta di avvicinare questo meridione al mondo della civiltà tecnologica. 

Lo stragismo, la risposta brigatista e il rapimento Moro segnano il passaggio dagli anni ’70 agli ’80. Prima Sciascia, poi Vasta ne Il tempo materiale ne producono una riuscita allegoria. Il berlusconismo rivive nella iper-moderna Eternapoli del napoletano Montesano.

Con la frammentazione derivante dalla globalizzazione degli anni ’90 avviene il crollo di contenitori, modelli, simboli edificati nel ‘900. Da allora un Sud in crollo demografico, abbandonato dai giovani, stretto tra stereotipi e pregiudizi, è stato costretto all’adesione a un modello di sviluppo acritico e anti-ecologico, tuttavia efficiente (il neoliberismo); condito con la riproduzione della propria classe dirigente, fatta di quel sud che sfrutta il sud di cui poco, e solo in maniera spettacolare e irreale, purtroppo ci si occupa. 

È una stagione di grave regresso culturale in cui modelli mass-mediatici urbano-centrici, aperti al limite verso la speculazione sulle periferie metropolitane, hanno prodotto la scomparsa della realtà e delle necessità storiche degli italiani per licenziare un canone di target e brand, di argomenti costruiti in vitro, in cui chi scrive deve scavarsi una nicchia ripetitiva, per narrare il proprio personaggio e segmento di mondo a una dimensione. Tutto accade non nel reale, ma nell’altrove dell’immaginario mediatico, dove il conflitto non è possibile e la cornice trasforma tutto in merce innocua. 

Se questo significa la scomparsa di un discorso realmente nazionale-popolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del paese e del contesto internazionale (si veda la rappresentazione di Ucraina o Israele), registra pure la complicità dell’intellettuale col giornalismo da talk-show, che finge la democrazia ma, nei fatti, svilisce l’informazione e il dibattito, divenendo pilastro del regime demagogico populista.

L’industria culturale ha brandizzato poi i territori marginali e generato sempre più specialismi: della montagna, degli Appennini, della criminalità: è l’altra faccia della crisi culturale, mentre irrompe la questione globale.

Quanto ai generi, con Lukacs, la letteratura è sempre realistica, l’unico criterio valido è il rapporto di onestà e veridicità instaurato con la realtà. Essere veritieri non vuol dire utilizzare il solo realismo, ma anzi (penso a Bulgakov, o a Orwell, Fellini), pur attraverso il filtro della fantasia, della distopia, o del sogno, presuppone un rapporto rivelatore, a volte anticipatore della realtà. Disonesto è, o, come direbbe Pasolini, pornografico, tutto ciò che è irreale, perché l’irrealtà rende incomprensibile il mondo, confermandone le strutture egemoniche e l’immaginario oppressivo.

sandro abruzzese

Della retorica sui paesi 

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, l’inserto culturale domenicale del Quotidiano del Sud

Nei piccoli paesi, scrive Giovanni Verga in Mastro-don Gesualdo, c’è della gente che farebbe delle miglia per venire a portarvi la cattiva nuova

E questo è un paese piccolo, aggiunge Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo, in cui è difficile sfugga alla gente una relazione, per quanto segreta, un vizio

Ripenso a queste frasi, le associo meccanicamente a un altro libro importante, La luna e i falò di Cesare Pavese, dove l’io narrante dice: un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti

Queste parole di solito vengono intese quale sorta di inno alla necessità di una comunità di appartenenza. Raramente chi le cita prosegue fino ad arrivare al resto e cogliere la parte più inquieta della riflessione: Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio […] e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora cos’è il mio paese?.
È strano, ma anche indicativo dei nostri tempi a-storici e a-politici, ben rappresentati dai puzzle e dalle cornici di frammenti dell’epoca dei social network, che lo spopolamento dei paesi e della provincia italiana – un fenomeno, lo ricordiamo, relativo a tutti i paesi industrializzati del globo, – dia luogo a un immaginario edulcorato e antistorico della precedente vita dei paesi. Come per un forte trauma psicologico, si finisce per dimenticare il negativo e conservare il positivo di questi luoghi. Ciò che viene omesso nella narrazione odierna spesso è proprio ciò che principalmente raccontavano Verga e Pavese: la tematica sociale, il retaggio culturale, la riproduzione di valori antidemocratici, le divisioni e le lotte per il dominio politico al suo interno. 

Sui paesi, Sciascia non le manda certo a dire, come quando, sempre in A ciascuno il suo, fa dire a uno dei suoi personaggi: E poi, per uno che ha scelto di stare in paese, che è deciso a non allontanarsene, che ambizioni vuoi che restino?

Questa frase finale, non volendo, ci dice che spesso chi idealizza i paesi è l’adulto senza più ambizioni o già realizzatosi, di contro è raro che si inverta la prospettiva per chiedere ai giovani al di sotto dei vent’anni cosa, del luogo in cui crescono, non risponde al loro immaginario e ai conseguenti desideri. Come è raro che si indirizzino gli sforzi politici nella risposta alle aspirazioni giovanili.

I paesi mitizzati e festeggiati, fuori dalla storia, se spoliticizzati, sono falsamente omogenei e uniti in un’artefatta idea di comunità. La fragilità, l’invecchiamento, l’emigrazione, pur producendo uno slancio emotivo positivo, corrono il rischio di cancellare la complessità e l’ambivalenza dei paesi, la cui parte reazionaria si annida proprio nei sedicenti valori tramandati in seno alle comunità locali e alle loro classi dirigenti. E quando la storia è ingiusta, e magari ingiusta per troppo tempo, un luogo può diventare qualcosa da cambiare a ogni costo, oppure da abbandonare per sempre, qualcuno prima o poi dovrebbe ricordarlo.

sandro abruzzese

Grano nostrum per l’Appennino irpino

*Articolo pubblicato in precedenza qui su Doppiozero

di Sandro Abruzzese

Dove si trova il grano più buono d’Italia?

Ci arriveremo. Prima però occorre premettere che, quando si parla di grano, si parla non solo delle civiltà che hanno dato alla luce la nostra, ma della madre di tutte le filiere, di tutte le divisioni del lavoro, delle stratificazioni e delle gerarchie sociali del mondo occidentale. È dunque un discorso, quello del grano, reticolare e nodale, che può portare alla gloriosa Mesopotamia, all’Antico Egitto, ma anche agli attualissimi belt di grano tenero americani, a quelli di grano duro del Canada, o alle vaste distese dell’Ucraina e della Russia. 

Tuttavia, almeno per ciò che riguarda la trasformazione del grano, per le semole e le farine da cui la produzione di pasta e pizza, per incontrare l’eccellenza bisogna ritornare in Italia, ai grandi e piccoli mulini italiani, e magari proprio nel tanto bistrattato sud Italia, dove il clima secco e la tradizione rendono le regioni meridionali vere e proprie fucine dell’alimentazione di qualità. 

Insomma, è seguendo questo filo dell’eccellenza che sono tornato nella Valle dell’Ufita, a 80 km da Napoli e altrettanti da Foggia, in una piccola valle che si trova nell’Appennino irpino e rappresenta una soglia oltre la quale i vigneti e gli uliveti, il verde dei boschi e dell’agricoltura campana, lasciano il campo a un mare giallo che dall’Appennino dauno scende verso la Capitanata e il Gargano, fino alla capitale del pane, Altamura, e più giù verso Corato e Matera.

Se l’Appennino è sempre un’altra storia rispetto alla pianura, questa parte di Appennino campano è qualcosa di davvero altro e diverso dalla conurbazione della Terra dei fuochi o dall’hinterland napoletano, e ciò rende vano argomentare usando indistintamente la parola “Sud”. Eppure proprio dalla Valle dell’Ufita nasce Grano nostrum, l’idea degli imprenditori Michele e Emanuela Meninno, e della loro Greenfarm, di coinvolgere produttori di grano delle regioni meridionali in una filiera di altissima qualità per costruire un marchio e un prodotto di eccellenza tutto campano, così da creare un ponte tra monti e pianure. 

L’idea nasce da una sfida lanciata al Lingotto di Torino: “sareste in grado, voi, di fare una cosa del genere?”. Michele e sua sorella Emanuela non solo accettano la sfida dello scettico interlocutore, ma con caparbietà riescono a convincere uno dei più grandi mulini d’Italia, il napoletano Mulino Caputo, a entrare nel progetto. 

È a questo punto che ritorna la domanda posta in principio: dove si trova il grano più buono d’Italia? 

La risposta di Michele e Emanuela passa sul mio stupore: è a Castelvolturno, provincia di Caserta, nel cuore della Terra dei fuochi. Stiamo parlando dello stesso luogo eletto a simbolo dello strapotere dei casalesi e del degrado casertano, la terra del Villaggio Coppola, così ben descritta nel Gomorra di Saviano. 

Eppure, sebbene Grano nostrum coinvolga produttori della Puglia, del Molise, del Lazio, della Campania, all’interno della sua produzione i valori proteici più alti, il prodotto qualitativamente migliore, arriva da Castelvolturno. Le eventuali diffidenze, i timori sulla salubrità del territorio, vengono fugati grazie a un sofisticato monitoraggio satellitare che consente al progetto Grano nostrum di seguire e garantire tutte le fasi produttive; il monitoraggio consente inoltre di curare i campi in maniera selettiva attraverso una tracciabilità istantanea, riducendo al minimo necessario l’uso di concimi e fitofarmaci. Il resto lo fanno la terra e il clima del luogo che, in questa storia, si riprende la sua antica vocazione agricola di qualità.

Ma non è tutto. Al progetto si unisce poi la partecipazione della Nuova Cucina Organizzata, le associazioni Terra Felix e Albanova, che gestiscono terreni confiscati alle mafie. 

Ecco come il grano di qualità oggi unisce l’Appennino irpino e la Terra dei fuochi al resto del Meridione, e anche se si tratta solo di una piccola storia, di un granello in uno spietato oceano globale, quella di Grano nostrum è l’ennesima dimostrazione che le idee e la competenza costituiscono già altri sud possibili, esistenti e reali. 

Certo, la sfida è solo all’inizio, all’orizzonte l’obiettivo di rendere sostenibile tutta la filiera produttiva, e di rendere la qualità non solo ecologica, ma economicamente sempre più alla portata di tutti. 

Beninteso, molti passi avanti sono stati fatti e nessuno ha intenzione di fermarsi.

Nel fumo della Calabria

Marina di Badolato, agosto 2021, foto Sandro Abruzzese

*Articolo pubblicato in precedenza qui su Terzogiornale

Lettera da una regione devastata dagli incendi, in cui solo la ripresa di un discorso sul Mezzogiorno come grande questione nazionale, oggi europea, potrebbe lasciare intravedere una possibilità di riscatto

Badolato marina, il luogo in cui risiediamo per le cosiddette vacanze, è un paese-pulviscolo, eccentrico, cresciuto come altri sulla strada statale, in cui il volto più umano degli abitati è quello delle case popolari, e quello più asfissiante e anacronistico è fatto invece di palazzi di cemento altissimi, del tutto simili a qualsiasi periferia cittadina da “mani sulla città”.

Anche stanotte, a Badolato, è arrivato il fumo dei roghi appiccati sulle colline della Calabria ionica. Il fumo, ormai lo sappiamo, non viene da solo, ma porta con sé la cenere che pian piano ricopre tutte le superfici e si incunea dappertutto. La cenere la ritroviamo in auto, sulla tavola, nel mare, e persino sul gelato artigianale prodotto nei bar della statale.

Dopo quindici giorni di incendi, la reazione dei nostri corpi alla presenza del fumo non è più la stessa: nessun allarme o insonnia, certo l’olfatto porta le sue informazioni al cervello, ma non accade più nulla, siamo assuefatti all’odore come al rischio costante sottotraccia. E il fumo e l’assuefazione appaiono come le metafore di una condizione collettiva meridionale.

Stamane alle 5 hanno evacuato il borgo di Isca, lambito dalle fiamme. E la stessa sorte ha avuto nei giorni precedenti Badolato superiore, scomparsa in fittissime nuvole di fumo e poi evacuata. Dal mare, assistiamo inermi a questo doloroso gioco delle parti fatto sulla pelle dei calabresi: Canadair ed elicotteri, e i volontari, spengono gli incendi che qualcun altro, la sera stessa, puntualmente appicca. Nella piazza Tropeano, di fronte alla chiesa, un murales ricorda Franco Nisticò – attivista ed ex sindaco deceduto nel 2009 in seguito a un arresto cardiaco durante una manifestazione, in prima linea nella lotta per l’adeguamento della statale 106 –, ma, inoltrandosi sulle colline sbancate del retro del paese, il paesaggio brullo e disordinato sembra dire che da soli non sarà facile venire a capo della situazione.

Va detto che la voce dei badolatesi si è fatta subito sentire con un sit-in e un corteo alla cui testa campeggiava lo striscione con la frase “Bruciateci tutti”; ovviamente la sera stessa i fuochi illuminavano i boschi della montagna, ma almeno la manifestazione ha ribadito che le prime vittime di questa emergenza restano i cittadini, letteralmente ostaggio della strategia incendiaria.

Parlo di strategia anche se, sulle ragioni dei roghi, non mancano gli interventi di protagonisti e osservatori capaci come Tonino Perna, Francesco Bevilacqua, Battista Sangineto, Vito Teti: e tuttavia anche questi commenti, trattando di problemi ormai annosi, fanno parte di un dibattito stanco, ripetitivo, pieno di frustrazione, perché privo di reali interlocutori. Se per esempio prendessimo articoli di dieci o vent’anni fa sull’argomento, li ritroveremmo attualissimi. Il fatto è che i problemi della Calabria si conoscono, le possibili soluzioni pure, ma non accade quasi mai nulla. Se dietro il fenomeno roghi c’è il mercato privato degli spegnimenti affidati ai Canadair, oppure la pressione per assumere i forestali, se si tratta di dolo volontario o involontario, di vendette o tattiche, la sostanza del discorso non cambia.

In genere il controllo del territorio si indebolisce nelle aree ad alta densità criminale, afflitte da disoccupazione endemica; alla base vi è una fortissima disomogeneità territoriale col resto del paese, in grado di pregiudicare il funzionamento delle istituzioni locali e nazionali, dunque di inibire i servizi essenziali. È questo il fumo vero che avvolge la Calabria e Badolato, come tutti i luoghi anche solo parzialmente esclusi dallo sviluppo peninsulare. È questa ripetitività ciclica inesorabile, insieme con l’assenza istituzionale, ad alimentare una sorta di nichilismo meridionale.

Dunque, il tema vero – penso mentre osservo le puntuali colonne di fumo nero innalzarsi verso il cielo – è fatto di parole altrettanto desuete come lavorocontinuità generazionalearresto dell’emigrazione giovanile, piani contro lo spopolamento e il dissesto idrogeologicolotta alla criminalitàgaranzia di servizi di livello nazionale.

È chiaro che l’elenco appena prodotto non può che riguardare una politica e una cultura a carattere nazionale, che abbia una visione del paese nella sua interezza, anche perché se lasciamo il campo al razzismo antropologico non facciamo che il gioco leghista di fazioni impegnate a dividersi il bottino italiano.

Intendiamoci, con questo non voglio negare la parte di responsabilità locale, di cui il cittadino calabrese è investito, bensì sottolineare che l’autorealizzazione personale, o il capitale sociale, per potersi dispiegare liberamente, necessita di luoghi inclusivi, di istituzioni sane e imparziali, e ciò spesso avviene laddove i territori subiscono dei processi di “distruzione creatrice”, cosa che in Calabria, per una serie di ragioni, non è accaduto.

Insomma, in una realtà fatta di reti e conoscenza, di mobilità e competizione, l’omogeneità, la coesione territoriale, la produzione di ricchezza autonoma, devono essere tra gli obiettivi nazionali principali per attenuare distanze e differenze: solo così ci si affranca da alibi identitari ed esotismi meridionalistici, da pregiudizi settentrionali e leghismi. Solo in questa battaglia istituzionale, portando i venti milioni di italiani del sud a livello delle altre Italie, è possibile una politica nazionale di grande respiro nel consesso europeo e mondiale. L’abbandono di questo obiettivo storico sancisce non tanto la crisi della Calabria, ma della politica italiana dopo la caduta del Muro.

È dunque la politica nazionale a dovere, in ogni modo, far sì che le istituzioni diventino realmente garanti costituzionali, altrimenti delle istituzioni viene meno la grande forza configurante e denotante, base primaria per un autentico progresso fatto di diritti.

In questi termini, la Calabria è un punto nevralgico in cui si addensano tutti i problemi italiani, perché è nella parte più debole di un paese che i fenomeni negativi si fanno più evidenti. L’errore più grave sarebbe quello di far finta di credere che si tratti di una questione locale, quando non c’è nulla che sia solo locale in un mondo interdipendente come il nostro.

sandro abruzzese

Riabitare: intervista sull’Irpinia

*Intervista a cura di Maria Fioretti pubblicata qui su Orticalab

«In Irpinia lo spazio è stato violentato e la mentalità clientelare ha fatto il resto, negando ai giovani la libertà»: lo sguardo di Sandro Abruzzese sui nostri luoghi interni

foto di Marco Belli

È nato e cresciuto nella Valle dell’Ufita, Sandro Abruzzese. Narratore di talento, oggi vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un Istituto d’Istruzione Superiore. Su queste colonne digitali abbiamo imparato a conoscere il suo pensiero, espresso in parole: l’ultimo regalo che ci ha fatto – lo trovate QUI – è una lettura, emblematica fin dal titolo Avere un posto nel mondo .

Un contributo tratto dal volume di prossima pubblicazione  Aree interne, sperimentare per ri/abitare , con sperimentazioni progettuali nei comuni molisani di Riccia, Jelsi e Gambatesa, a cura di Nicola Flora e Francesca Iarruso. La pubblicazione è divisa in tre parti: Saggi, Sperimentare col progetto, Sperimentazioni e prospettive nell’Alto Fortore: Riccia, Jelsi, Gambatesa.

«Si tratta di un elaborato curato dalla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli, su impulso del Professor Nicola Flora, coadiuvato da Francesca Iarruso. Grazie a loro ha trovato spazio – in un volume tecnico – anche una riflessione di carattere più letterario-filosofico, proprio perché è stato scelto un approccio multidisciplinare. Nel mio contributo ho provato a mostrare lo spazio e i legami dell’abitare, stando su un fronte diverso rispetto ad un architetto che intende costruire, provando a mostrare l’atto del costruire come una possibile violenza».

E l’Irpinia del post terremoto questa brutalità di una nuova fondazione l’ha subita: «Uno scritto in controtendenza, opposto al modo di pensare a questi luoghi, di raccontarli. Sono passati quarant’anni ormai, è tempo di occuparsi dei giovani, di chi abiterà la nostra terra tra vent’anni. Questa è una provincia in cui lo spazio è stato particolarmente abusato e continua ad esserlo, e paradossalmente mancano infrastrutture essenziali. Così a poco a poco si è finito per alimentare l’inabitabile, si crea una frattura insanabilecon l’unica ricchezza che abbiamo negli Appennini: il paesaggio, inteso come rapporto di cura dei luoghi e dimora. Inoltre costruendo male, oltre allo scollamento con la campagna, si sono create le condizioni per cui i grandi paesi irpini come Ariano, Grottaminarda, Solofra, hanno tutti i problemi di una città, senza averne i pregi, mentre i paesi più piccoli muoiono del tutto».

Le chiamiamo aree interne, ma secondo Sandro Abruzzese questa è una definizione che toglie molto al nostro essere: «La trovo imprecisa, personalmente non la apprezzo perché attiene a un lessico tecnico, freddo, distante. La distinzione di questi tempi non è fondamentale, certo, ma anche nel lessico si avverte la tendenza verso parcellizzazioni, una visione settoriale. Intendiamoci, chi si occupa di aree interne è nel giusto, ma non deve dimenticare che sta colmando il vuoto di “cultura nazionale” del Paese. Un’Italiache ha nella conoscenza profonda della sua storica frammentarietà, della sua molteplicità, è la vera soluzione per aver cura e attuare la Costituzione. Ho paura che, col termine aree interne, si finisca per parlare il linguaggio tecnico, e lo specialismo tende a restringere il campo, a vedere una parte del tutto. Accade lo stesso quando si parla di Sud in maniera troppo unitaria e indistinta».

Il vero nodo però non sta nel linguaggio. Noi ci specchiamo nelle istituzioni che ci governano: «Quella con cui in Irpinia abbiamo modo di confrontarci è un’istituzione, lo sappiamo, spesso clientelare. Ora questo tipo di politica non è solo antipatica o ingiusta eticamente, ma è soprattutto improduttiva economicamente e socialmente lesiva. Non spinge a intraprendere, non garantisce chi vuole rischiare qualcosa e, alla lunga, finisce col danneggiare irrimediabilmente il territorio. Ancora però mi pare non ci sia questa autocoscienza, questa ammissione, per cui forse siamo ancora incapaci di riconoscere che nel lungo periodo una mentalità politico-clientelare ottiene risultati molto limitati, pregiudicando l’interesse generale e con esso il futuro che fatichiamo a costruire. Le nostre case vuote e non finite, i figli lontani, ci dicono questo».

Ma come si sostituisce qualcosa di così radicato? «Innanzitutto prendendone atto. Non cercando di trasformare in statisti i vecchi notabili della Dc (in altri luoghi saranno di altro colore politico magari), perché non è così. E poi cercando di sostituirla questa cultura clientelare. Tirando su delle classi dirigenti che magari siano disposte a perdere pur di fare la scelta giusta per la collettività. Il punto è rendersi conto di che cosa abbiamo avuto e di cosa realmente vorremmo avere avuto, e quali sono i metodi per raggiungerlo. Se vogliamo prosperare deve essere chiaro che l’interesse della politica clientelare è contrario al libero sviluppo del territorio, alla partecipazione civica, all’associazionismo, e che un’istituzione piegata a queste logiche è un esempio negativo che denota e configura la società che lo subisce. Tutte le fabbriche che riempiono le aree industriali, sono state utilissime, essenziali per generare economia e lavoro nel breve periodo, certo, solo che per qualcuno i compromessi, l’assenza di trasparenza e di possibilità, ha generato una spinta inversa. Se penso alle possibilità di riabitare per i giovani, eliminerei la dicotomia tra restare e tornare, mi soffermerei sulla loro necessità di essere liberi. Nessuno dovrebbe subire un uso improprio, parziale e dannoso delle comuni istituzioni, sacrificandovi la propria libertà».

Potremmo considerare che la SNAI – alle nostre latitudini – sia fallita in Alta Irpinia anche per questo, perché è successo di trovare un Sindaco molto più forte della stessa Strategia Nazionale per le Aree Interne, capace di tenere sotto scacco l’intero progetto e tutta l’area pilota: «Chi ha costruito il suo potere su una mentalità padronale difficilmente si dimostrerà aperto al rinnovamento, perché non lo puoi controllare il cambiamento, e quindi non sarà disposto a rinunciare al suo mondo per il nostro. Pensiamo ad esempio agli ospedali che chiudono o che non funzionano, che non riescono mai ad essere un’eccellenza, si preferisce questo, finendo per creare quel fenomeno del turismo sanitario che è umiliante per il cittadino meridionale. L’Istituzione è connotante, è un esempio, educa, ed è figlia di una mentalità. E quando è davvero capace di ricoprire il suo ruolo, riesce a togliere alle comunità, cosiddette marginali, anche qualche complesso di inferiorità, dimostra che ce la possiamo fare. Il nodo istituzionale si rivela fondamentale per l’Irpinia, per il Meridione che deve recuperare quella cittadinanza attiva soffocata dal potere politico. Ecco, si potrebbe partire da questo, dall’ammettere che fino ad ora si è generato sudditanza, che non è volano di prosperità e intraprendenza o cambiamento, ma di privilegio».

Sandro Abruzzese è uno di quei figli che se ne è andato: «Senza più tornare, o meglio per tornare ho dovuto inventarmi un mestiere. Questo mio scrivere non è altro che la voglia di restare e esserci, mi consente di stabilire delle relazioni pur mancando la presenza fisica, il pensiero ai miei luoghi è costante. Non posso rinnegare la partenza, troppe volte i giovani sono stati traditi da chi è venuto prima di loro. Nella mia esperienza l’emigrazione è stata una forma di redenzione, ha significato lasciarsi alle spalle tutto, rimettersi in discussione e non basta dirsi che lo hai fatto per un lavoro migliore e per dei servizi garantiti, perché resta un percorso doloroso, di perdita. Nessuno mi pare ricordi mai la divisione tra chi è complice e resta nel privilegio a casa, chi ha ricevuto vantaggi dall’iniquo stato di cose, e chi è dovuto o è voluto andar via, anche questa è un’ennesima frattura e rimozione collettiva. Invitare i giovani ad un ritorno, tenendo fuori questi nodi, sarebbe ingiusto e retorico».

Dopotutto è questa la nostra più grande contraddizione, un’infinita bellezza e nessuna capacità di costruire un progetto: «Viviamo dei luoghi fatti di semplicità, con vallate e colline aperte, maestose. Eppure ogni paese è ricostruito voltando le spalle a questa bellezza. Ma una volta che ci è stato tolto questo rapporto, cosa resta? Senza campagne, senza fiumi, senza boschi, e centri urbani vivi, e ragazzi, e figli. Senza lavoro, senza continuità generazionale, e per giunta con l’inquinamento, col cemento e l’incuria…Questa è la nostra compresenza dei tempi, di assenti e presenti, di nostalgia e scettico cinismo. Se non riconosciamo queste e altre contraddizioni profonde sarà difficile ri-abitare per davvero».

 

 

 

Avere un posto nel mondo

Articolo comparso in precedenza qui su Il lavoro culturale

Il seguente contributo è tratto dal volume di prossima pubblicazione “Aree interne, sperimentare per ri/abitare”, con sperimentazioni progettuali nei comuni molisani di Riccia, Jelsi e Gambatesa, a cura di Nicola Flora e Francesca Iarruso. La pubblicazione è divisa in tre parti: saggi, sperimentare col progetto, sperimentazioni e prospettive nell’Alto Fortore: Riccia, Jelsi, Gambatesa. Il contributo che segue, firmato da Sandro Abruzzese, fa parte della prima sezione del libro.

Foto di Sandro Abruzzese

Abitare e vedere

Abitare è una parola nobile, porta a quel misto di avere e tenere che rimanda al possesso, ma anche a qualcosa che ci sta a cuore e di cui abbiamo cura. Ci sono aspetti complessi e ambivalenti nell’abitare, riguardano la relazione tra spazi privati e pubblici, tra ambiente, società, individui: non si abita mai del tutto soli.

Abitare presuppone il vedere. Vedere per capire significa, secondo la lezione di Carlo Levi, avere senza possedererinunciare ad appropriarsilasciare intatto e alla portata di altri sguardi. Vedere un paesaggio, però, è qualcosa di diverso dal vedere una piazza o visitare una città. Quando guardo la natura vedo qualcosa che non presuppone per forza un soggetto. Una città, al contrario, è un artificio costruito spesso a partire dal soggetto, in cui la conquista della visibilità spinge il potere (religioso, politico, economico) ad appropriarsi dello spazio, trasformandolo in segno, effigie, simbolo, in grado di rappresentare, e gettare così le basi dell’immaginario collettivo. 

Vedere allora diventa necessario proprio per interrogare e decifrare, a questo punto si tratta di non farsi irretire e alienare, di riconoscere la realtà nei suoi tratti salienti. 

Vedere, ha scritto Merleau-Ponty, è apertura al mondo.

Paesaggio

La mia apertura al mondo è legata a un luogo, poco lontano dalla casa in cui sono cresciuto, che, aperto com’è sull’Italia interna, offre un paesaggio davvero unico. Non riuscivo ancora a definire, da ragazzo, alla vista di quel paesaggio, l’ammirato stupore e la curiosità che eliminano il disagio, né riuscivo a dare un nome al desiderio di riconoscere. Eppure dall’altura dei Limiti, a Frigento, abbracciavo la valle riuscendo a superare il mio consueto orizzonte. Bastava raggiungere le vette di Trevico o Frigento, per vedere le terre di Lucania, il Vulture, o i paesi più alti del Fortore e della Puglia dauna. Sull’altura dei Limiti, dopo i monti del Matese, il Taburno, rare volte, faceva capolino la vetta arrotondata della Maiella. Verso il tirreno invece, era uno scherzo inseguire con la mente il Sele, la discesa delle sue acque fino alle ruvide pendici dei dolomitici Alburni, o immaginare i detriti dell’Ofanto spingersi fin nell’Adriatico. Ma la sfida vera riguardava Greci, l’unico paese arbrëschë della Campania, oppure la sella in cui è riparato Savignano, con le sue casette bianche ben proporzionate, affacciate sul principio della strada per la valle del Bovino. 

A oriente, la sfida era scorgere Monteleone dai portali scolpiti, il paese più alto della Puglia, e ai suoi piedi Zungoli bianca e pendente, appesa a una parete ripida, sopra una forra. Spuntavano qua e là piccole zone industriali, intersecate dall’autostrada dei mari, dritta come la sutura di una cicatrice mai rimarginata. 

L’autostrada corre ancora lungo il margine agricolo, dove il giallo delle monocolture del grano pugliese, quasi sull’Ufita, incontra il verde della policoltura mediterranea o i castagneti, gli ulivi, i vitigni e i boschi delle montagne.

Foto di Sandro Abruzzese

In seguito, spesso mi sono chiesto cosa nascondesse questo inseguire luoghi di un mondo minore. Credo sia nel rapporto con lo spazio, la risposta. Il mondo di cui scrivo non è altro che un unico luogo in cui le persone e le cose, le parole e i gesti, si muovono come qualcosa che è già dentro di me e che ri-conosco

Guardare il mondo con gli occhi del paese, dai margini, farlo partendo da uno Stato fondato su un gravissimo e annoso squilibrio territoriale come l’Italia, in un momento storico in cui l’imporsi di un nuovo spazio, quello virtuale, in grado di abolire le distanze, ha messo in crisi le grandi conquiste del ‘900, è diventato un modo di stare al mondo e abitare

Vicinanza e lontananza

Non capisce, scrisse Mario Soldati in America primo amore, forse, non ama il proprio paese chi non l’ha abbandonato almeno una volta, e credendo fosse per sempre.

Penso spesso a questa frase di Soldati. Egli capì, nel viaggio americano, che abitare significa essere con i luoghi in rapporto di vicinanza e lontananza. Saperli vedere, secondo una linea che da Sestov e Simmel arriva fino ad Adorno e Bauman, è poi comprendere gli esiliati, gli emarginati, lo straniero, l’estraneità, la diversità, e farlo per essere successivamente in grado di costruire una patria nel rispetto del genere umano, in cui sicurezza e comunità non siano cortine di ferro né limiti invalicabili. 

È necessario per questo non solo conoscere il proprio territorio, l’ambiente, ma esserne al contempo distanti. Salvaguardare il peculiare non può darsi senza verità e giustizia, il rischio sotteso nel perdere di vista l’universale è il familismo, anticamera del baronaggio. È continuare a smarrirsi ripetendo la storia, il cui ritorno vuol dire assenza di reale progresso.

Un mondo servile e amorale si rifiuta di vedere, ha gli occhi chiusi. Per cui, essere vicino e lontano vuol dire svelare i rapporti di dominio, scorgere nei luoghi, al di là dell’utile e dell’economico, l’umano e il sacroOccorre per questo sentirsi parte del Tutto, di un tutto plasmato senza annichilire né schiacciare, poiché lo spazio è, per dirla con Kant, possibilità di essere insieme. Occorrono una cornice e dei confini, per definire i limiti dei luoghi, ma solo se si ricorderà che i confini sono sempre arbitrari e nulla valgono senza la vita affettiva e la consonanza psichica di chi li abita. Lo spazio psichico precede e forma quello geografico.

Nondimeno, adesso che lo spazio virtuale, sebbene non privo di ambivalenze, consente nuove strade, attraverso vicinanza lontananza le aree marginali possono affrancarsi dalla trappola del conservatorismo per sommare il senso di libertà al progresso, non dimenticando l’energia vitale senza cui il futuro ha i giorni contati: i figli, ha scritto Hans Jonas, sono l’unico esempio altruistico della natura.

Foto di Sandro Abruzzese

Prospettive

Per quanto mi riguarda, sono un figlio emigrato, che non è più tornato, e pure che non smette di tornare, non rinuncia a pensare all’Appennino e al Meridione come parte integrante e vitale di sé e di questo Paese. E se, come ha scritto ne L’abusivo Antonio Franchini, chi da un luogo se ne è andato non ha diritto di parlare se non del luogo che lasciò, il Sud in cui sono cresciuto sembrava, rispetto alla pienezza della metropoli napoletana che avrei scoperto all’università, espressione di una cultura minoritaria, una patria minore, cristallizzata, come di popoli superstiti o sconfitti, in cui tutto, a partire dalla lingua, attraverso l’isolamento e la distanza, si era conservato più vicino al passato. 

Ebbene, quando questa condizione viene percepita come involuzione o disvalore, e quei luoghi stessi, attraverso un’approssimativa rappresentazione mediatica, vengono banalizzati e deformati, non può che emergerne un rapporto asimmetrico col resto del Paese. Come colonie di abitanti, direbbe Gianni Celati, delle riserve.

Nel rapporto con la costa campana, per esempio, con questa conurbazione che vede il casertano unirsi attraverso una miriade di cittadine al salernitano, formando un’unica, gigantesca periferia di pochi centri privilegiati, lAppennino è più debole, disarmato e attenuato, privato di reciprocità prospettica.

Un po’ come dei nuovi albigesi, come dei berberi, da ragazzi abitavamo luoghi ancora privi di velocità e quantità, privi di frenesia; dalle impercettibili diseguaglianze sociali. Chiunque, in paese, era equidistante dal centro come nella più perfetta polis greca. E il paese intero risultava percorribile, esplorabile, in parte manipolabile, in un rapporto di esperienza in cui lo spazio circostante, la possibilità insita nello spazio, era la cifra fondante della nostra formazione. Vi erano meno povertà e indigenza, nessun contrasto sociale, meno stimoli e competizione, poche possibilità, annacquati strumenti di potere e nessuna parvenza di organizzazione criminale. Forse è questo a far sì che Meneghello si chieda, in Libera nos a Malo, Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco?

In comune con le città avevamo però il disprezzo atavico per la campagna e i contadini. Quel mondo laborioso e autonomo, non veniva migliorato, bensì continuamente esecrato. E forse se ancora oggi le campagne non sono ambite, in qualche misura ciò è dovuto anche al disprezzo oppressivo e all’assenza di lealtà, all’incapacità di vedere le possibilità insite in un diverso universo morale, permeato com’era dalla vocazione al lavoro e da un alto grado di autodeterminazione.

Memoria

L’Irpinia, va detto, ha fatto parte di quella civiltà contadina in grado di esprimere una straordinaria omogeneità di valori in tutta Europa, prima di essere, in preda all’emigrazione, ai terremoti, al boom economico del Nord, definitivamente soppiantata. L’episodio che sancisce simbolicamente il tracollo porta la data del 23 novembre 1980. Quei devastanti novanta secondi, con i suoi tremila morti insabbiati, lasciati a morire sotto le macerie di un Paese privo di Protezione civile, mentre il presidente della Repubblica Pertini inveiva contro l’assenza e poi la lentezza dei soccorsi, avrebbe segnato, per molti, un punto di non ritorno. Non solo le forze materiali, ma anche quelle psicologiche furono inquinate irrimediabilmente dalla conseguente pioggia di denaro pubblico sul territorio. La maggior parte delle risorse, è noto, venne distratta dalle rapaci classi dirigenti attraverso il settore edilizio e infrastrutturale a favore di corruzione e criminalità. 

Sicché nel dopo-sisma, insieme al mio corpo bambino, un po’ dappertutto crescevano enormi caseggiati o villette geometrili bianche, con archi, veneziane, torrette merlate, cuspidi. I vecchi casolari furono abbandonati e affiancati da moderni edifici cittadini, i paesi distrutti vennero ricostruiti senza alcuna cura per la memoria e le antiche relazioni degli abitanti con i luoghi.

La descrizione potrebbe indurre a pensare solo ai paesi appenninici fatti di desolazione e spopolamento. E invece la politica urbanistica post-sisma generava anche paesi che attualmente hanno raddoppiato la propria popolazione: Grottaminarda, Lioni, Ariano Irpino, Atripalda, Solofra. Ai paesi desolati e inattuali ora fanno eco i paesi-città, sformati, bulimici, ingrossati fino a incarnare il simulacro delle città osservate alla televisione. 

È la nostra attuale compresenza dei tempi.

Il cemento e il ferro, oltre alle case, finirono per armare un invincibile sistema di potere politico-clientelare. Questo potere impose la sua facile utopia. Ma le utopie hanno sempre un prezzo alto, e di rado la lungimiranza necessaria. In questo caso si barattò la necessità col diritto, la cittadinanza con la sudditanza. Il rimedio preparava mali peggiori e tante volte, guardando al passato, mi illudo che senza di lui sarebbe stato diverso. Preferisco puerilmente dare la colpa al terremoto e dire che saremmo stati migliori, che fu il terremoto a depositare come una polvere sottile dappertutto e in ognuno: tra le case, su per ogni singola narice. E così il mondo successivo alla scossa inoculò il germe da cui è scaturita una sorta di allergia collettiva per ogni sorta di responsabilità e per qualsiasi bene comune. 

Rispetto all’Irpinia contadina e artigiana, che sapeva produrre e costruire, questo continuo dissipare ha avuto il sapore di una mutazione genetica. 

D’altra parte la stessa Italia odierna, dall’Aquila a Amatrice e Genova, sembra aver rinunciato definitivamente al suo corpo. Pare aver dimenticato che un Paese democratico si fonda su un corpo simmetrico, fatto di una miriade di centri e quasi nessun margine. Un Paese, per essere giusto, deve essere dappertutto.

Diritti

Certo, non solo l’Italia ma il mondo intero sembra avere la testa da qualche altra parte rispetto al suo corpo. Eppure abitare fa pensare inevitabilmente alla parola patria, a questo spazio di condivisione, comune e politico, in cui albergano il dono e il dovere. Hannah Arendt ha ricordato che la più grande privazione dei diritti umani è avvenuta ai danni di una popolazioni privata di un posto nel mondo: gli ebrei. 

A distanza di centocinquanta anni dall’Unità, forse per rispondere alle emergenze globali e alle esigenze dei popoli, occorrerebbe ricordare che anche le popolazioni appenniniche, insulari, alpine hanno vissuto, – schiacciate da due guerre mondiali decise sulla base di veri e propri Colpi di stato -, una perpetua e inaccettabile diaspora. I contadini derubati, spremuti, di Sardegna e Calabria, per esempio. I contadini ubriacati prima di assaltare altri contadini in trincee nemiche. Oppure accusati di vigliaccheria e diserzione per occultare le responsabilità degli Alti comandi. La gente di Lussu e Gramsci, di Levi, Scotellaro, di Cavani, Alvaro, di Jovine, Silone, scompare dalle antologie e dalla memoria collettiva. 

La mia patria, scrisse Scotellaro, è dove l’erba trema / un alito può trapiantare / il mio seme lontano.

Foto di Sandro Abruzzese

La provincia

Rispetto a quanto detto, una risposta potremmo costruirla proprio nell’altrove di cui abbiamo parlato finora. In anni recenti è toccato ad Alexander Langer ricordare che se l’inurbamento pone il problema ecologico, della diseguaglianza, dei costi della vita, della mobilità, dell’alienazione e della violenza, è la provincia il luogo dove la vita è sostenibile e al riparo dal potere; dove si può opporre alla competizione urbana, la cooperazione e la solidarietà. 

In provincia, certo in una provincia votata al dubbio, al sospetto, aiutata e migliorata nell’opposizione agli aspetti più deleteri della metropoli, – vien fatto di pensare con Bataille, – si potrebbe essere individui e comunità sovranamente

I luoghi rurali a questo proposito conservano tracce di quell’antica forma di pietas che viene dalla capacità di ridurre tutto all’Uno, fatta di necessità e semplicità, di consapevolezza, a volte tragica, del destino comune. Ecco che la vicinanza al mondo rurale può aiutare a guardare i nuovi ultimi moderni con la consapevolezza innata della comune miseria umana, poiché c’è nell’infinitamente piccolo dei luoghi marginali qualcosa che rimanda davvero all’universo e al cosmo: vedere le comunità, la lingua, i gesti svanire, assistere alla perdita di senso e significato dei valori di un mondo precedente, anche questo è il potenziale istruttivo delle aree marginali.

D’altra parte, se la subalternità ricaccia gli stessi luoghi in sacche di tribalismo, in cui lo smarrimento, la rabbia, la delusione, sfociano nell’intolleranza, divenendo strumentali alla xenofobia e ai neo-fascismi; è la tradizione stessa ad avere un ruolo principale. Posto che sia all’altezza di essere conservata e rinnovata nei suoi valori positivi e duraturi, la tradizione può, secondo De Martino, aiutare la comunità a farsi cosciente, razionalizzata, organizzata e plasmata, fino a diventare una vera società. Beninteso, la cittadinanza e la capacità di operare necessitano di luoghi che si hanno a cuore, di continuità generazionale e relazioni umane. 

Mi rendo conto che quanto detto ricorda un nuovo protestantesimo, magari capace di riscoprire la serietà e la mitezza, la responsabilità e la maturità. Ma forse è proprio nella dimensione ideale, tante volte sacrificata a criteri pragmatici ed economici, in un rapporto di tipo eretico, passionale e razionale, che diventa possibile offrire ai luoghi più indifesi alternative alla competizione e al mercato. E diventa possibile una riflessione sulla dignità di qualsiasi lavoro, di quello agricolo e materiale, rispettabili in quanto matrice da cui tutto comincia, nobili non già per la gloria o la potenza generata, ma perché nelle giuste condizioni non sfruttano nessun altro. 

Credo che la semplice quanto chimerica assenza di sfruttamento sia già riportare la propria parte di mondo nella sfera morale, per sottrarsi al male di questo globo sempre più grande e terribile. 

Si tratta ancora una volta di opporre, ha scritto una volta Fortini, la parola alla chiacchiera. E all’edonismo, sempre infantile, preferire una battaglia culturale che investa la concezione futura del tempo del lavoro e dello spazio concreto, nonché di quello dell’immaginario e dell’immaginazione. Ripartire magari dalla cura dell’intimità, della sfera privata, perché è da un mondo interiore decolonizzato, dalla solitudine che non è isolamento, ma riflessione per l’altro e con gli altri, che può nascere, anche e soprattutto in luoghi cosiddetti marginali, un nuovo senso del mondo.

La provincia, dunque, potrebbe essere il luogo dove un sapere liberato dal narcisismo, si dedichi alla salvaguardia e tutela dell’esistente, magari attraverso la modestia di piccoli passi certi, liberi e partecipati. 

CHE COSA RACCONTA LA CALABRIA DI MUCCINO

*Articolo comparso in precedenza qui su Le parole e le cose

Le righe che seguono prendono spunto dalla vicenda del video commissionato dalla Regione Calabria al regista Gabriele Muccino. Non analizzerò il video ma prenderò spunto da alcuni elementi per alcuni rilievi su Calabria e Questione nazionale. In via generale, sul video basterebbe dire qui che, se la rappresentazione è sempre finzione e parzialità, l’irrealtà – la potenza dell’irrealtà mediatica di cui il lavoro di Muccino si avvale – è, per citare il Pasolini corsaro, forse l’unica vera forma di pornografia esistente. Tuttavia anche la pornografia dice qualcosa del tutto. In questo caso è utile per ragionare sull’attuale immaginario calabrese e magari per chiedersi un’ennesima volta cosa realmente rappresenti la Calabria oggi, e farlo a maggior ragione perché, ogni volta che si parla di Meridione, sovvengono quei versi disincantati di Franco Costabile, quando scrive: Ecco / io e te, Meridione / dobbiamo parlarci una volta / ragionare davvero con calma / da soli, / senza raccontarci fantasie / sulle nostre contrade. / Noi dobbiamo deciderci / con questo cuore troppo cantastorie.

Geografie

Prendendo in parola Costabile, il primo rilievo sull’argomento è di ordine geo-antropico. La penisola calabrese è circondata da poco più di 700 chilometri di costa, è vero, ma il suo suolo e buona parte della sua storia sono prevalentemente di natura montana: il Pollino, la Sila, le Serre, l’Aspromonte, insieme a eremi e monasteri, santi e filosofi, sono lì a ricordarlo. Si tratta di boschi maestosi (è la quarta regione italiana per superficie forestale) e laghi artificiali, dei calanchi del Pollino, di fiumare e torrenti, fino alla roccia granitica della Sila. Il bosco, verrebbe da aggiungere, sarebbe ricchezza, in altri luoghi d’Europa lo è, ma, come ricorda Francesco Iovino in La montagna calabrese (Rubbettino 2019), in Calabria “la frammentazione della proprietà fondiaria, la carenza di una pianificazione forestale a diversi livelli, la mancanza di appropriati strumenti conoscitivi e di supporto alla gestione, insieme al basso grado di meccanizzazione forestale (…) rendono poco efficiente la filiera foresta-legno e alto il grado di abbandono dei boschi, almeno per quanto attiene le fustaie”. Molto suggestiva, a riguardo, la lettura di Mauro Minervino, in La Calabria brucia, dove gli incendi e la dissoluzione del patrimonio boschivo del passato assurgono a sorta di dépense o potlatch, un segno della dissoluzione e di sovvertimento, comunque di un rapporto distruttivo e distorto con la modernità.

Insomma, se c’è un discorso culturale sulla Calabria, questo non può prescindere dalle sue montagne, che sono l’archivio della memoria regionale, perché conservano, con tutta la problematicità, le tracce del passato. Vero è che col risanamento delle coste, in un lento e a volte tumultuoso processo, i calabresi, come gli altri abitanti della penisola italiana, sono scesi verso le coste e le statali, ma solo dall’800, e spesso senza mai riferirsi del tutto al mare.

Da questa natura montuosa, peraltro, deriva un clima umido e piovoso, per cui i cieli azzurri del video in questione sono stati molto fortunati a non intercettare nemmeno in lontananza le nuvole aspromontane o silane, che spesso minacciano temporali pomeridiani, anche in piena estate. Ma al di là della boutade, vengono meno nella visione mucciniana l’asperità e la verticalità della regione, privata della sua vera dimensione, che non era sfuggita invece al grande geografo Lucio Gambi e a studiosi che ne custodiscono la lezione, come Francesco Bevilacqua.

Paesi

Beninteso, un discorso sono i paesi, le province, altro è la paesanità e il provincialismo culturale. Sul video c’è l’imbarazzo della scelta: si può partire dalla lingua, dalle pittoresche comparse in bretelle e coppola col clarinetto in sottofondo che rimandano agli stereotipi dispregiativi sul montanaro calabrese, all’insistita e gratuita sensualità. Ma, anche qui andrebbe ricordato qualche dato.

In quei magnifici borghi desolati oggi vivono circa 10 milioni di italiani, e quasi il 70 per cento dei poco più di 8000 comuni italiani è composto da nuclei che non superano i 5000 abitanti. In piena estate, Muccino vi troverebbe non Adelaide o Penelope, sorta di parodia nomenclatoria degna del Don Chisciotte di Cervantes, ma molte case chiuse e porte sprangate, tetti divelti, come a Siderno Superiore per esempio. O al limite emigranti di ritorno, emigranti o figli di emigranti degli esodi perdurati per tutta l’età liberale, e ingigantitisi col boom economico, continuati con la rivoluzione digitale. Quei borghi una volta privi di acquedotti, fognature – il loro travaso dalle montagne alla pianura, e poi verso l’altrove – costituirono una calamità e una liberazione da condizioni inimmaginabili, che meritano rispetto. Oggi quasi il 90 per cento dei borghi montani e collinari calabresi e buona parte delle aree interne italiane, lo sappiamo, è affetto da abbandono, oltre che altamente esposto a rischio sismico e idrogeologico. Inoltre essi presentano una natalità più bassa e un’età media più alta delle aree metropolitane. Ma se fossimo in comuni sotto i mille abitanti, probabilmente non troveremmo che sparute scuole pluriclasse, nessun presidio ospedaliero e zero asili nido.

Allora che cos’è la Calabria? Quante Calabrie esistono e come rappresentarle senza ferire o banalizzare? Come far coesistere le città medie con Tropea e Gerace, o Scilla, Oriolo, Diamante, con i paesi doppi delle statali, le foreste e le gole, il non finito e gli ecomostri?

La Calabria è innanzitutto una delle regioni più fragili d’Italia, insieme a Campania e Lazio presenta le maggiori irregolarità sul sommerso in agricoltura, direi al Muccino degli agrumeti. È poi tra le prime per abbandono scolastico, per la povertà relativa, senza contare le classifiche sulla qualità della vita condotte dal “Sole 24 ore”, dove in fondo alla lista albergano Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia. Dunque, nessuna falsità o edulcorazione, nessun patetismo o populismo, fondato sulla presunta calabresità o su pseudo-folklore, potranno cambiare il fatto che sulla punta dello stivale si condensano e cristallizzano, radicalizzandosi, molti problemi nazionali.

Sguardi e pregiudizi

Intendiamoci, se la Regione commissiona un corto a Muccino, non possiamo lamentarci che il regista interpreti se stesso. È la scelta politica a tradire evidente confusione, per cui siamo ancora una volta alla riproposizione di uno sguardo esterno, oltre che posticcio e offensivo. Ora, subire la realtà in forma colonizzante è traumatico e ovviamente non tutte le colpe di questo trauma e dei dati sopra riportati possono essere imputate ai calabresi, soprattutto alla luce di ragioni storiche, del caotico, spontaneo e repentino boom economico italiano – per stare alla Repubblica –, cioè alla mancata industrializzazione di una parte del paese, vero spartiacque della storia recente. Molto però potrebbe essere imputato, sul piano politico, ai parlamentari meridionali e ai loro partiti nazionali di riferimento, sia nel passato che per quanto riguarda la politica italiana degli ultimi trent’anni, la quale ha visto un rinfocolarsi del pregiudizio antimeridionale di stampo prima leghista e poi trasversale, con il risultato significativo di distrarre indebitamente risorse dal Sud per riportarle verso il centro e il nord del paese. Infatti in Italia “I Conti pubblici territoriali dimostrano almeno a partire dal 2000 una persistente differenza a favore del Centro-nord: in media 26 miliardi all’anno pur depurando il dato delle pensioni, che sono reddito differito”, scrive Marco Esposito in Fake news, per poi chiosare: “non soltanto dal 2000 al 2017 la spesa pubblica continua ad andare nella medesima direzione della ricchezza privata, ma addirittura gli investimenti, cioè gli interventi per costruire infrastrutture e servizi dove mancano, si orientano verso i territori già più ricchi, al punto che si è dovuta scrivere una legge nel 2016 per obbligare lo stato a spendere il 34% degli investimenti ordinari nel Mezzogiorno. Legge di cui peraltro si è rinviata l’attuazione”.

Tornando all’immaginario, e stando solo all’ultimo decennio, se artisti come il cantautore, più volte Premio Tenco, Peppe Voltarelli, nonché lo sguardo aperto sul mondo della scrittrice Sonia Serazzi, per fare dei nomi, hanno dimostrato una lucida e ispirata capacità di auto-rappresentazione; se lo stesso Wim Wenders ha scelto di lavorare a Badolato, la vicenda Regione-Muccino finisce per riportare alla luce il complesso d’inferiorità meridionale nel rapporto col paese. Complesso che non è frutto di banale latitudine, bensì di annosa discrepanza tra civiltà contadina e civiltà industriale, tra reti di città e paesi o province isolate, tra luoghi feriti da costante emigrazione, disagio, illegalità, e luoghi attrattivi e iper-produttivi. Insomma, le varie modalità e vulgate con cui nel discorso pubblico, sui media, si parla della Calabria e dei Sud, oppure l’insistenza con cui al suo interno si parla di calabresità, sono termometro di una situazione perdurante di crisi, e portano in superficie il latente fondo problematico che accomuna un po’ tutti i paesi che hanno subìto la modernità invece di accompagnarvisi. Basti pensare al risvolto urbano della calabresità, ovvero a quella napoletanità a volte ostentata, fitta di luoghi comuni e alibi auto-assolutori da cui, come ricorda Mario Pezzella in Altrenapoli, solo i grandi autori partenopei hanno saputo emanciparsi.

Terre inquiete

È Vito Teti in Terra inquieta ad avvisare che “Bisogna essere cauti, accorti, pazienti, nel definire la Calabria come un luogo, (…) si rivela spesso un’ambiziosa scorciatoia”, e tuttavia anche la sua diversità “nasconde una forma di pigrizia, di semplificazione, una rinuncia a tentare di cogliere la regione nelle sue differenze”. L’antropologo del Senso dei luoghi, partendo dalla geografia delle varie “Calabrie”, ne ricostruisce la trascuratezza idrogeologica, la piaga sismica, quindi gli smottamenti, le frane, gli abbandoni. Una terra di eventi catastrofici e disastri come i terremoti del 1783 o quello del 1905, mobile e precaria, eccentrica, di paesi svuotati e nuove periferie, in cui spesso la liberazione è venuta dalla fuga verso l’America: “fuga di protesta, di ribaltamento”, da cui lo sdoppiamento e la gemmazione di tante piccole “Calabrie” nel mondo.

È chiaro con Terra inquieta, seguendo il magistero di grandi osservatori come Padula e Alvaro, che l’immaginario calabrese è pervaso dall’esterno e dall’altrove, quello dell’abbondanza, della riuscita, che avverrà non più nel paese natio, bensì errando nel mondo. Meridionali come ennesimi ebrei erranti che per bibbia hanno il ricordo della comunità tradizionale. Da qui il richiamo nostalgico e emotivo verso la tradizione e l’identità, che “ha a che fare con i modi di percepirsi, di rappresentarsi, di sentirsi quando si esce fuori dal mondo di origine”.

Beninteso, ciò di cui parliamo non è una storia solo calabrese, non c’è magia o pretenziosa specificità, ma ragioni che accomunano a tanti altri popoli del mondo in bilico tra pre-moderno e ormai post-moderno.

Per giunta, a complicare ulteriormente il quadro si aggiunge, come racconta Antonio Talìa in Statale 106, il fatto che all’isolamento aspromontano risponde una rete di traffici e intrecci che può portare a Duisburg, a Bratislava, in Australia, ricordandoci che il rapporto estremamente disomogeneo della Calabria e del Mezzogiorno col paese, qui, nella fattispecie tra Reggio e Locride, forse la provincia più povera d’Italia, genera una tra le più potenti organizzazioni criminali d’Europa, con diramazioni globali e un’estrema capacità di permeare le istituzioni locali e nazionali. Anche questo è il paradosso calabrese. Essa, in un connubio tribale, arcaico, eppure dinamico e avanguardistico, genera trame e interconnessioni globali fino a mettere in discussione l’effettiva sovranità dello stato. La fragilità ha una sua densità, genera fenomeni più pervasivi, ma non è alterità, quanto coerente continuità nazionale.

Corsi e ricorsi

Non vorrei, con questi rilievi, sembrare troppo deterministico. Al di là degli alibi, le enormi difficoltà quotidiane sul fronte politico locale e nazionale derivano da strutture e istituzioni democratiche deboli. Le istituzioni configurano e dispongono, per cui la loro sofferenza produce distanza, sfiducia, oltre che danni. Mi riferisco inoltre alla debolezza partitica, di coalizione, all’espressione di una componente razionale di orientamento della società, alla capacità di coesione e indirizzo su temi e priorità di interesse generale e equità sociale, volta anche all’allineamento tra istituzioni e cittadini.

Ebbene, dal punto di vista storico, fallito il tentativo della terza via intrapreso da Togliatti e Berlinguer per un fronte popolare con cattolici e socialisti in grado di riformare radicalmente il Paese attraverso l’incontro della lotta di classe e i ceti medi progressisti, ecco che la società postfordista, negli anni ’80, ha subìto una ulteriore frammentazione, stratificandosi in maniera molto più complessa. Il ceto medio italiano, con la scomparsa del popolo per la fluttuante moltitudine, e il massiccio approdo di immigrati, in risposta al trentennio neoliberista, pare ancora nelle secche del piccoloborghesismo più acuto. In questo quadro frammentato, privo di riferimenti, le uniche riforme restano prevalentemente di natura tecnologica o tecnocratica e la politica ridotta in fazioni insegue pulsioni territoriali. Tuttavia c’è una costante invariata: l’immarcescibile trasformismo della classe dirigente meridionale. Quel blocco agrario dell’età liberale inviso a Salvemini e Dorso che ha poi accolto il fascismo padano; oppure quello successivo repubblicano che ha costituito il nerbo della Democrazia cristiana, per ritrovarsi poi in ogni nuovo partito disceso, nella Forza Italia di Dell’Utri, nella Margherita come nella Lega di Salvini, per l’appunto eletto nel collegio di Reggio Calabria, e in frange del Pd e Cinque stelle. Schema che vince non si cambia. A pagare restano i milioni di cittadini irretiti in un questo circolo vizioso. Il treno perduto è sempre quello delle mancate riforme per la giustizia sociale.

Familismi

Per rispondere però a chi è tentato dalla vecchia categoria del familismo amorale, potremmo rammentare, come in altri tempi fece Lombardi Satriani con Banfield, che il fenomeno attecchisce e perdura anche perché in un determinato contesto si rivela utile o obbligato, mentre le pratiche democratiche, nella disomogeneità socio-economica, nella carenza di servizi e possibilità, rappresentano un percorso incerto, rischioso, impervio.

Per dirla altrimenti, i pretenziosi appelli liberali alla riforma morale meridionale, a meno che non vogliano degli eroi al posto di concittadini, dovrebbero considerare che essa può imporsi solo se, nel breve periodo, non produce contrasti eccessivi tra interessi individuali e generali. Se questo punto è valido, ho l’impressione che la politica clientelare stessa finisca per acuire il costante bisogno istituzionale in cui sono tenuti i cittadini, emancipando il suo operato dal legame col territorio attraverso favoritismi e privilegi che vanno a sostituirsi ai diritti costituzionali. È un sistema in grado di svuotare il senso dell’impalcatura democratica, e le direzioni nazionali dei partiti, tranne che per rare eccezioni, hanno quasi sempre preferito beneficiarne. Il dato più umiliante è che in certe parti d’Italia emigrare resta ancora l’unico atto di libertà e ribellione possibile.

In definitiva, solo l’arresto di questa soggezione attraverso una doppia spinta, interna e esterna, locale e nazionale, volta al sostanziale abbassamento del tasso di disoccupazione, all’innalzamento del reddito, all’arresto dell’emigrazione giovanile, ovvero una politica di ampio respiro che miri a risolvere la distanza tra le varie Italie, può contrastare definitivamente la situazione descritta. Regionalismo e federalismo, invece, seppur nate per avvicinare le istituzioni ai cittadini, così come le politiche dei fondi a pioggia privi di pianificazione, in questo contesto sembrano acuire gli sprechi del paese.

Utopie calabresi

Detto questo, sinergie e convergenze possono avvenire anche in comunità sfilacciate o in centri fiorenti o cosiddetti minori. Lo dimostra la vicenda tutta calabrese di Riace, dove il sindaco Lucano, alla guida di un Comune di 1.726 abitanti della Provincia di Reggio Calabria, dal 2004 fino alle inchieste che hanno provocato la fine dell’esperienza, ha ospitato oltre 6.000 richiedenti asilo provenienti da 20 diverse nazioni. Lo sbarco, nel 1998, di 200 profughi curdi a Riace Marina fornì all’associazione Città Futura l’idea di una vera e propria utopia concreta, quella di ripopolare il paese, usando le vecchie case abbandonate dai proprietari. Riace così, nel tempo, è riuscita a ospitare rifugiati, immigrati irregolari con diritto d’asilo, rigenerando scuola, servizi, piccole attività artigianali. Il Comune ionico ha dimostrato che il circolo vizioso di istituzioni e società si nutre dell’assenza di utopie concrete e forza morale, e che finanche nei luoghi più poveri d’Italia ci sono inedite strade percorribili. In fondo la colpa maggiore dell’irregolare Domenico Lucano è stata l’aver demolito alibi di amministratori, dirigenti o politici, mettendoli di fronte alla propria insipienza, che a sua volta produce acute forme di nichilismo e tribalismo. Credo che il riconoscimento della rivista Fortune verso Lucano, che anni fa lo annoverò tra gli uomini più influenti al mondo, fosse di carattere principalmente morale, e che le stesse ragioni abbiano portato, con l’inquietante tempismo che ha visto il leader xenofobo leghista Matteo Salvini alla guida degli Interni, al sabotaggio del progetto.

Assenze

Insomma, pur in contesti difficili, restano margini o esempi. Basta non raccontarsi storie sul Mezzogiorno, e chiedersi se ciò di cui stiamo parlando non sia tradotto troppe volte con discorsi di natura reazionaria, con banalizzazioni populistiche intorno ai Sud italiani e del mondo. Magari in futuro occorrerà pensare più spesso ai versi di Franco Costabile. E magari bisognerà dirsi pure che la retorica sul calore, sull’ospitalità, sull’umanità meridionale, rischia di nascondere altre assenze: carenza di solidi soggetti impersonali e capacità di autodeterminazione.

Il mancato sviluppo non rende solo più povero il Mezzogiorno, lo rende pure ostaggio delle sue tare, orfano di reali esperienze di rottura, di cambiamento e spinte propulsive progressiste. Mi pare sia un punto primario, che ha trovato in passato ampia attenzione nel discorso politico e intellettuale, per essere poi, fatta salva la parentesi in corso del ministro Giuseppe Provenzano, artatamente bypassato e falsificato da media e partiti territorializzati, alla cieca ricerca di consenso.

Bibliografia essenziale

AA.VV., La montagna calabrese, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2020

Marco Esposito, Fake Sud, Piemme, Milano 2020

Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989

Fabrizia Ippolito, Paesaggi frantumati, Atlante d’Italia in numeri, Skira, Milano 2019

Mauro Francesco Minervino, La Calabria brucia, Ediesse, Roma 2008

Mario Pezzella, Altrenapoli, Rosenberg  Sellier, Torino 2019

Luigi Lombardi Satriani, Antropologia culturale, Rizzoli, Milano 1980

Vito Teti, Terra inquieta, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2015

Vito Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli, Roma 2004

Antonio Talìa, Statale 106, Minimum fax, Roma 2019

Per una grammatica sul dialetto di Rotonda

*articolo uscito in precedenza qui su Poetarum silva

Il 26 marzo del 1927 il recluso e perseguitato antifascista Antonio Gramsci scrive una lettera a Teresina, sua sorella prediletta, chiedendole del nipote, il piccolo Franco. È in questa lettera che il politico comunista sardo, nativo della remota e contadina Ghilarza, ribadisce: «Spero che lo lascerete parlare in sardo […]. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. […] Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.»
È questo il primo brano che mi viene in mente sfogliando l’accurata pubblicazione sulla grammatica del dialetto di Rotonda, i suoi tanti brani, le poesie, i proverbi. Per non parlare delle meravigliose riflessioni che Carlo Levi dedica al dialetto dei contadini di Aliano nel Cristo. Il torinese si accorse della materialità, della forza plastica e creaturale delle parole dei contadini lucani e ne fu testimone per il resto della vita. Sarebbero tornati, al pari di lontani antenati, i paesani lucani, in ogni altro libro e viaggio, dalla Sicilia alla Sardegna, fino alla Russia e al testamento del Quaderno a cancelli.
L’amore per la pluralità linguistica italiana, per le sue tante particolarità, potrebbe aprirsi a un discorso che, da Dante in poi, procede, solo per citare alcuni protagonisti, fino al Canzoniere italiano di Pasolini, alle ricerche di Calvino, agli studi di Gianni Celati, senza dimenticare l’istrionico Dario Fo. Nel saggio introduttivo al Canzoniere, Pasolini sottolinea la provenienza dal basso, l’anima popolare e dominata, il sostanziale bilinguismo italiano, fino alla “miseria psicologica demartiniana” di canti e poesia regionale. Dunque lingua e dialetti, registro alto e basso, si intrecciano in tutta la storia della lingua italiana: Boccaccio, Pulci, Burchiello, e il rapporto con una visione popolare sarà, da Verga in poi, attraversato in opere di Pavese, Vittorini, Scotellaro, e ancora in Gadda, Testori.
Nondimeno la tradizione letteraria italiana e il dialetto studiato da Enzo Fittipaldi in questa grammatica ci consentono di riflettere sulla storia d’Italia fino agli approdi attuali. Se il Gramsci dei Quaderni ha avuto il merito di sottolineare la frattura italiana tra intellettuali e popolo, nella lingua parlata degli italiani vi sono invenzione e innovazione (Pasolini); anche se con lo sviluppo economico dell’Italia, mentre la tradizione popolare resta quasi appannaggio solo delle aree meno sviluppate, il resto del paese vive, attraverso il sistema scolastico, la radio e la televisione, l’omologazione dell’italiano standard e in seguito un vero e proprio mutamento antropologico.
Ebbene, grazie alla stagione degli studi etno-antropologici di intellettuali come Cocchiara e De Martino, fino ad arrivare agli odierni Vito Teti, Franco Cassano, Piero Bevilacqua, potremmo seguire la Questione italiana per arrivare alla divaricazione sociale e culturale, oltre che economica, delle varie Italie della penisola. E infatti alla luce dell’odierna frammentazione nazionale, delle spinte autonomiste, degli egoismi regionali, e consapevoli dello spopolamento di Rotonda come di quasi tutto il sud rurale del paese, dell’ormai endemica disoccupazione, dell’assenza di piani e progetti di respiro nazionale e europeo, che passano per i limiti di una classe dirigente locale non sempre all’altezza delle sfide dei tempi, ecco che il lavoro di Enzo Fittipaldi appare un estremo atto d’amore per il luogo natìo. Un lavoro intriso di passione e etica del lavoro al servizio di un interesse  pubblico e comune. La grammatica di un dialetto nobilita e ricostruisce, è umile e lontana dal disprezzo e dall’alterigia delle accademie. È sì connotativa, normativa, ma senza ergersi a fustigatrice, anzi è rivolta quasi a rinnovare l’attenzione per le peculiarità più nobili degli aspetti popolari.
Studiare per ricostruire il passato e la memoria, dunque, farlo nell’unico modo possibile, ovvero con onestà e serietà intellettuale e morale, vuol dire sempre comprendere e dispiegare, quindi radicarsi non in bieco conservatorismo reazionario e tribale, come i morbi leghisti di cui oggi è affetto il paese, bensì nella profondità, nel terreno universale della conoscenza, scevra com’è da qualsiasi tipo di pregiudizio, da qualsiasi pulsione esclusivistica e settaria.

Foto di Sandro Abruzzese

Credo inoltre che l’abnegazione e l’impegno riposti in questo libro siano un atto di ritorno  e restanza ideale dell’autore. Un atto di chi, pur essendo partito, non ha mai realmente lasciato le vicende e i destini del paese e del Meridione, per cui attraverso il lavoro e la progettualità ha finito per creare e agire con la funzione di contribuire al miglioramento delle condizioni culturali del luogo oggetto di studi.
Il Meridione ha un estremo bisogno di attenzioni del genere, e ne ha bisogno non certo in quanto terra speciale o particolare, ma al contrario per le fragilità estreme che lo accomunano a tanti altri sud del mondo. Solo così, mi permetto di dire, è necessario amare i luoghi: nella loro unicità, mai slegata dalla propria condizione universale, dal legame e dal rapporto con gli altri infiniti mondi possibili, che sempre, in qualche modo, parlano di noi.

© Sandro Abruzzese
Ferrara, 27 febbraio 2020

L’identità del paese

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Il luogo dell’identità, il primo ordine del mondo, è stato, per me, il microcosmo del paese. Un paese rurale come tanti, nell’entroterra irpino, Appennino meridionale. Le linee, i punti di fuga, i meridiani, i paralleli, tutto, a dispetto del tempo, ovunque vada, ancora riesce sorprendentemente a partire e ritornare in quella valle.
Intendiamoci, all’epoca si capiva che oltre c’era di più e di meglio, ma una volta aderito a un ordine, una volta ambientati in una struttura portante reale e permeati dal suo immaginario, il resto appare comunque qualcosa di caotico e disordinato, che può essere scoperto, ma solo un passo alla volta e non senza fatica.

Occorre anche rinnegare per creare e riconoscersi, e d’altronde è Pavese nell’incipit della Luna e i falò a far dire a Anguilla: “ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione”, o ancora, qualche pagina dopo: “Così questo paese, dove non sono nato (il protagonista è un orfano), ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi molto”.

Rispetto alle parole di Pavese, oggi il mondo a cui lo scrittore si riferiva è fatto quasi più di città e conurbazioni, di agglomerati e periferie, che di paesi; le identità pian piano cambiano e nonostante tutto un luogo – qualsiasi luogo – rimane sempre in parte violento e lacunoso. Un luogo innanzitutto costringe, quindi contribuisce a edificare e costruisce i suoi stessi abitanti. Sarà il costruito, poi, opponendosi all’incerto del mondo, a scacciare l’abisso.
E allora la mia identità, la matrice – come per tanti – è nella lingua, nei gesti, nei pensieri e negli oggetti, nelle idee e nelle norme del paese natale. Sono i suoi simboli e il suo scheletro, il mondo a cui il mio corpo si è dovuto adattare e di cui in seguito ho dovuto in parte liberarmi.
La cosa sembra banale, eppure ho visto tante persone non riuscire a trovare una forma al suo interno. Tanti amici fragili a cui ritorno spesso con la mente, sono spariti, inghiottiti dai loro incubi peggiori. I figli degli emigrati di ritorno, per esempio, gli americani, gli svizzeri, i romani, i tedeschi, i cui genitori avevano deciso di tornare per sempre, capitava finissero in un limbo. Non riuscivano più, quei ragazzi “evoluti”, a occultarsi e uniformarsi. Avevano avuto troppo e visto di più, di conseguenza il paese era la loro prigione silenziosa e loro si limitavano, standosene ai margini, a tratteggiarne i confini.
Noialtri, invece, un po’ come dei nuovi albigesi, o come dei berberi, abitavamo con naturalezza posti ancora privi di velocità e quantità, privi di frenesia; dalle impercettibili diseguaglianze sociali. Chiunque, in paese, era equidistante dal centro come nella più perfetta polis greca. E il paese intero risultava percorribile, esplorabile, in parte manipolabile, in un rapporto di esperienza in cui lo spazio circostante, la possibilità insita nello spazio, era la cifra fondante della nostra formazione. Vi erano meno povertà e indigenza, nessun contrasto sociale, meno stimoli e competizione, pochissime possibilità, annacquati strumenti di potere e nessuna parvenza di organizzazione criminale.
In comune con le città avevamo però il disprezzo atavico per la campagna e i contadini. Quel mondo laborioso e autonomo, non veniva migliorato, bensì continuamente esecrato. E forse se ancora oggi le campagne irpine non sono ambite, in qualche misura ciò è dovuto anche al disprezzo oppressivo e all’assenza di lealtà, all’incapacità di vedere le possibilità insite in un diverso universo morale, permeato com’era dalla vocazione al lavoro e da un alto grado di autodeterminazione.

Insomma, per la maggioranza, è valso quello che scrive Meneghello in Libera nos a Malo: “Mezzogiorno col sole, quando l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo. Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori la portata della morte.”
Ecco, forse Meneghello trova una via, forse è questo il segreto della ricerca d’identità, ovvero la forza irresistibile delle origini che combattono strenuamente, insieme alla continuità generazionale, contro l’idea della morte. O forse la verità è nelle parole di Soldati: “Non capisce”, scrisse in America primo amore, “forse, non ama il proprio paese chi non l’ha abbandonato almeno una volta, e credendo fosse per sempre”. Soldati capì, nel viaggio americano, che per conoscersi bisogna essere con i luoghi amati in rapporto di vicinanza e lontananza.
Bisognerebbe abbandonarli come degli esiliati, aggiungo. Solo così potremmo capire gli emarginati, lo straniero, la diversità, ed essere in grado un giorno di ambire a una patria nel rispetto del genere umano, senza cortine di ferro né limiti invalicabili.
Ed è proprio questo che sembra voler dire l’ormai adulto Nuto in risposta al suo amico trovatello Anguilla:

“In America c’è di bello che sono tutti bastardi”, dice Anguilla.

– “Anche questa è una cosa da aggiustare. Perché ci deve essere chi non ha nome né casa? Non siamo tutti uomini?”, risponde Nuto.

Ma, tornando all’identità del paese, se il radicale Nuto è portatore di una volontà di progresso morale universale, ed è uno che il mondo lo vuole cambiare da capo a piedi, il paese reca con sé un’ambivalenza che, a suo modo, svela alcuni ostacoli frapposti. Infatti è un microcosmo che oscilla e che, lasciato a se stesso, può rivelarsi – penso alla sua mai emancipata borghesia di Luigini italici – servile e amorale, privo di verità e giustizia, in preda al familismo e al baronaggio. Può essere, se slegato dal resto della nazione, un luogo di smarrimento, in cui la storia non fa che ripetersi incessantemente.
E d’altra parte, però, quello stesso luogo – lo si scorge in Meneghello come in altri – a volte diviene un riparo contro la minaccia esterna: lo stato, la burocrazia, la disoccupazione, o qualsiasi altra forma di coercizione.
Il fatto è che il paese in certi casi risponde come può a tutto il resto, e lo fa soprattutto perché non sempre si possiedono mezzi, e dunque il fallimento non è più una colpa, ma al massimo una bizzarra forma di resistenza.
E allora nell’ambivalenza, è come se l’identità del paese oscillasse continuamente tra la possibilità di dirsi che l’origine altro non è che “la radice dell’intero”, e che l’identità è sempre una parte dell’universo, qualcosa di unico ma naturale e comune; e la bieca chiusura identitaria, che è angustia culturale, e diviene fatica ad ammettere che “tutte le carni sono uguali” e che tutti siamo esseri umani e mondo.
Ebbene, forse il paese-pendolo è già metafora delle oscillazioni del mondo globale, e se Nuto e Anguilla vivessero oggi, così deterritorializzati, potrebbero vedere con i loro occhi, nelle città come nei paesi, l’incredibile processo di de-umanizzazione normativa, disciplinare e mediatica a cui siamo sottoposti nei confronti dell’altro e soprattutto dei poveri del mondo.
Saremmo costretti ad ammettere, al cospetto dei personaggi di Pavese, non solo che sembra prevalere e imporsi chi sostiene che “non siamo tutti uomini”, ma che ovunque, nelle istituzioni come sui giornali o alla tv, al prezzo di nuovi sciovinismi e vecchie xenofobie, sembra di nuovo lecito lo sprezzo dei diritti universali e la negazione della dignità umana.

sandro abruzzese

*Questo brano è per Rocco Meninno, e per Mario, suo fratello. Con cui abbiamo condiviso la grande strada, via Valle, che ci unisce e separa. Da allora ogni cosa ci tiene sullo stesso filo, da cui ci si allontana senza mai dimenticare.

I “pirati” di Lentiscosa

camerota

*Questo articolo è apparso in precedenza qui su Doppiozero

Nel Cilento meridionale, all’estremo limite della Campania, tra l’Alpe del monte Bulgheria e il Tirreno, è qui che si trova Lentiscosa, frazione di Camerota a circa 300 metri d’altitudine sul livello del mare. Ed è qui, nel Parco nazionale del Cilento, in un podere avito, a Santa Maria del Piano, che Nino Belluccio, insieme ad altri produttori, semina e raccoglie il maracuoccio. Sembra quasi di vederlo, Gaetano, con la sua fronte alta, le spalle inarcate e il sorriso delicato, fatto di linee che suggeriscono mestizia. In autunno prepara il terreno alla semina, e mesi dopo raccoglie i baccelli da cui germogliano i caratteristici semi irregolari, ognuno diverso dall’altro, ognuno colorato e squadrato. Certo, non è così semplice raccoglierne i frutti, perché pare che il maracuoccio cresca meglio se sotto lo strato di terra si trova della pietra calcarea e sopra l’aria asciutta della collina, quindi occorrono alture un po’ distanti dal mare, proprio come il paese di Lentiscosa, che prende il nome dal lentisco.

Nino, poi, il maracuoccio lo custodisce gelosamente, la sua produzione è limitata e la farina ricavata da questa leguminosa autoctona vicina alla famiglia della cicerchia, macinata a pietra, gli serve per il ristorante che gestisce giù alla marina di Camerota. Quanto alla preparazione: dopo aver aggiunto della farina di grano saragolla, fatto cuocere il tutto lentamente in acqua bollente e sale, e rimestato fino a fine cottura, sarà pronta la maracucciata. Una polenta a cui basta aggiungere dei tozzi di pane rosolati in olio extravergine di oliva e cipolla, questa è la maracucciata. Un cibo povero, nutriente, tramandato e ripreso dalla Comunità dei produttori del Maracuoccio di Lentiscosa e da tempo, nel solco tracciato da Carlin Petrini, presidio Slow food. Una ricetta che ricorda quanto dura e al contempo ingegnosa fosse l’alimentazione delle classi subalterne del Mediterraneo, abituate al pane nero, fatto di crusche e scarti, alla raccolta di erbe; a cui, al contrario di quanto ci portano a credere le vulgate del momento, erano preclusi alimenti oggi ritenuti fondamentali per la cosiddetta dieta mediterranea come la farina bianca e lo stesso olio extravergine d’oliva, prodotti un tempo destinati, come pure la carne, al commercio, al consumo delle classi agiate, e alle festività.

La storia di Nino la devo a Giovanni, guida e amico camerotano da decenni. Non è strano che Nino e Giovanni siano a loro volta amici e abbiano dei tratti comuni. Alla fine, insieme a tanti mestieri praticati, sono pur sempre un contadino e un pescatore. E quindi abituati a un buon grado di solitudine e silenzio. Abituati a rimestare i pensieri, a misurare i gesti, prima di incamminarsi o fare parola con qualcuno.
Giovanni, senza aver letto Pirenne, dice che Lentiscosa è figlia dei pirati, che il nucleo deve la sua esistenza alla fuga dal mare e dalle coste, quando gli ottomani dominavano il Tirreno, e furono attirati in questi profondi fondali dalla sicurezza del porto naturale degli Infreschi.
Conduce lentamente il suo racconto, Giovanni, che si intreccia a queste montagne appenniniche finite nel mare. Da sessant’anni tutti lo conoscono con un nome non suo. Se il destino ancora in fasce gli ha tolto il padre, i parenti decisero di levargli anche il nome d’anagrafe, scelto proprio dal papà pochi mesi innanzi. Dunque lo ribattezzarono Domenico, come il genitore appena trapassato e il santo patrono di Marina. È così che dalla vita egli non solo non ha avuto un padre, ma non ha potuto ricevere nemmeno il nome che questi gli aveva lasciato.

Giovanni instancabile, magro, ossuto e nero di sole, senza scuola, né licenze o diplomi, ma pescatore, muratore, bagnino, guida, contadino; insomma costantemente in fuga e affaccendato in qualcosa; che tutti chiamano Cuccio, diminutivo di Domenico e che, tra un lavoro e l’altro, sa usare la lingua per difendersi e, se necessario, affermarsi. Una lingua acuta, veloce, con cui mostra tutta la sua intelligenza e a volte dirupa, si blocca o incespica, anche se meno di un tempo. E che rimane, a dispetto degli anni, burbero e gentile compagno, declinando in questo suo modo paradossale, ironico e generoso, l’esistenza e con essa l’amicizia. È lui ad annuire insieme a Nino, a rammentare che la storia degli esseri umani è storia di semi, senza cui, dice, non ci saremmo nemmeno noi. Tutti dobbiamo in qualche modo, proprio come semi, adattarci a ciò che ci circonda.
Così il seme del maracuoccio attecchisce e cresce poco sopra la roccia e con la sua tenacia riporta a quella di Nino e Giovanni, ognuno diverso, ognuno colorato e squadrato a suo modo. Forse a Camerota o a Lentiscosa, ben difesi dai monti cilentani, qualcuno può ancora voltare le spalle al mondo, rivolgersi al mare o alle colline, come hanno fatto loro.

Tuttavia, visto da Lentiscosa, Camerota, Licusati, l’Italia è un Paese lontano, quasi come voltasse le spalle ai suoi limiti estremi, alle sue pendici, al Mediterraneo.
A ben guardare la stessa Campania sembra condensare e riprodurre in scala, con i suoi vuoti e pieni, gli squilibri territoriali e i difetti della Penisola. Al vuoto del Cilento, del Sannio e dell’Irpinia, oppone le valli massicciamente urbanizzate che da Battipaglia e Salerno portano a Napoli e Caserta, una conurbazione in cui vivono circa quattro dei cinque milioni di abitanti campani.
Resta da capire come avrebbero potuto questi luoghi di migranti, gemmazioni, sdoppiamenti, fatti di tante isole e montagne, vissuti in una continua emorragia di giovani, per giunta laureati e diplomati, diventare d’un colpo quello che si desiderava in un altrove di nome Roma, Milano, Bruxelles, o chissà chi altro. A ognuno, vien fatto di pensare, il suo mascherato nomos della terra.
Alla fine, lo sappiamo, i limiti, le pendici, hanno preso a cercare da sé altri luoghi e nuovi nomi: il Venezuela, il Belgio, l’America.
“Un alito”, scrisse Scotellaro a tal proposito in La mia bella patria, “può trapiantare il mio seme lontano”, soprattutto quando la patria non è altro che un esile filo d’erba.