Etichettato: critica

Raccontare il Sud

*Articolo pubblicato sulle pagine culturali de La Repubblica-Bari

La rappresentazione e il meridione

Nel parlare di letteratura meridionale, avendo presente gli interventi dei miei predecessori su queste pagine, partirò col chiedermi che cos’è e dove comincia il Meridione e qual è la sua cornice. 

La mia risposta è che meridionali si diventa in rapporto alla nascita della civiltà tecnologico industriale. E che il Meridione può essere pensato solo in una relazione di interdipendenza con questo fenomeno epocale, quindi con la storia d’Italia e d’Europa. Nei meridioni europei, dunque, il quadro presenta cornici similari: disuguaglianze socio-economiche esacerbate, disoccupazione endemica,  conseguente emigrazione, spopolamento-inurbamento, una psiche collettiva ferita (complessi d’inferiorità-superiorità, filoni identitari, pseudo-revisionismi storici),  difficile conservazione del patrimonio pubblico e privato, aspetti cronici di corruzione e criminalità, scambio politico-clientelare, mancata creazione di classi dirigenti, debolezza delle istituzioni, ecc.

Se è in questo solco che si colloca la lezione maggiore della letteratura meridionale (la poesia merita un discorso a parte), quella realista che da Verga arriva a Leogrande, e se esistono solo due grandi temi epocali (la fine della civiltà contadina in relazione allo sviluppo di una civiltà tecnologica), allora il canone della rappresentazione meridionale necessita di due altri distinguo: il primo è che  diventa meridionale anche Rigoni Stern, con la sua epopea tolstojana di gente che cammina e migra come in un romanzo calabrese di Perri o Alvaro. Anche quella di Stern è la storia di chi ha subito la storia come pure accade col sardo Dessì che racconta della Sardegna di Paese d’ombre, con Deledda, o come Nuto Revelli fa nel Piemonte contadino. La nostra geografia muta i suoi confini per seguire, intersecando i nodi più significativi della storia, la strada già intrapresa da Silone e Carlo Levi.

L’altro punto è che il Meridione viene così a perdere l’aura mitica fatta di tradizione e unicità, in cui troppo spesso si crogiola, per dirsi simile a molti altri territori periferici d’Europa che hanno sviluppato un rapporto incompleto con la modernità. 

Forse per via delle difficoltà di messa a fuoco, lo rammenta Giovanni Russo nella Lettera a Carlo Levi, o lo ricorda Gramsci quando dice che a Torino, nell’incontro con la classe operaia, non a Ghilarza, capì la lezione di Marx; ebbene la letteratura meridionale ha avuto la necessità dello sguardo esterno: mi riferisco al già citato Levi, col Cristo, e a Ottieri, col Donnarumma all’assalto. Seguendo questa linea incontreremmo Morante, o gli scritti diaristici di Natalia Ginzburg sull’Abruzzo. Meridione se non Africa, è pure la definizione che Bassani dà delle Valli del Delta del Po, narrate anche dalla Viganò.

Inoltre, un territorio di secolare emigrazione come il Sud ha diverse anime, occorre tenerne presente la lacerazione e gemmazione, il suo altrove, e questo accade in Pavese e Pierro ma anche a nord del Tronto con Di Ruscio, ne Gli zii di Sicilia di Sciascia, nella trilogia vigevanese di Mastronardi, e poi con Bianciardi, approdato a Milano negli anni del boom economico dopo la terribile strage di minatori maremmani. È il grande tema della subalternità, dell’incompletezza rispetto al moderno, ad accomunare i minatori della maremma, i migranti degli scontri nella Torino di piazza Statuto del ’62. Il Vittorini del Politecnico tenta di avvicinare questo meridione al mondo della civiltà tecnologica. 

Lo stragismo, la risposta brigatista e il rapimento Moro segnano il passaggio dagli anni ’70 agli ’80. Prima Sciascia, poi Vasta ne Il tempo materiale ne producono una riuscita allegoria. Il berlusconismo rivive nella iper-moderna Eternapoli del napoletano Montesano.

Con la frammentazione derivante dalla globalizzazione degli anni ’90 avviene il crollo di contenitori, modelli, simboli edificati nel ‘900. Da allora un Sud in crollo demografico, abbandonato dai giovani, stretto tra stereotipi e pregiudizi, è stato costretto all’adesione a un modello di sviluppo acritico e anti-ecologico, tuttavia efficiente (il neoliberismo); condito con la riproduzione della propria classe dirigente, fatta di quel sud che sfrutta il sud di cui poco, e solo in maniera spettacolare e irreale, purtroppo ci si occupa. 

È una stagione di grave regresso culturale in cui modelli mass-mediatici urbano-centrici, aperti al limite verso la speculazione sulle periferie metropolitane, hanno prodotto la scomparsa della realtà e delle necessità storiche degli italiani per licenziare un canone di target e brand, di argomenti costruiti in vitro, in cui chi scrive deve scavarsi una nicchia ripetitiva, per narrare il proprio personaggio e segmento di mondo a una dimensione. Tutto accade non nel reale, ma nell’altrove dell’immaginario mediatico, dove il conflitto non è possibile e la cornice trasforma tutto in merce innocua. 

Se questo significa la scomparsa di un discorso realmente nazionale-popolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del paese e del contesto internazionale (si veda la rappresentazione di Ucraina o Israele), registra pure la complicità dell’intellettuale col giornalismo da talk-show, che finge la democrazia ma, nei fatti, svilisce l’informazione e il dibattito, divenendo pilastro del regime demagogico populista.

L’industria culturale ha brandizzato poi i territori marginali e generato sempre più specialismi: della montagna, degli Appennini, della criminalità: è l’altra faccia della crisi culturale, mentre irrompe la questione globale.

Quanto ai generi, con Lukacs, la letteratura è sempre realistica, l’unico criterio valido è il rapporto di onestà e veridicità instaurato con la realtà. Essere veritieri non vuol dire utilizzare il solo realismo, ma anzi (penso a Bulgakov, o a Orwell, Fellini), pur attraverso il filtro della fantasia, della distopia, o del sogno, presuppone un rapporto rivelatore, a volte anticipatore della realtà. Disonesto è, o, come direbbe Pasolini, pornografico, tutto ciò che è irreale, perché l’irrealtà rende incomprensibile il mondo, confermandone le strutture egemoniche e l’immaginario oppressivo.

sandro abruzzese

In memoria di Gianni Celati

Gianni Celati è stato un intellettuale originale che ha fornito per tutta la vita nuove prospettive critiche e narrative nel panorama culturale italiano. Personalmente, Verso la foce o Narratori delle pianure  mi hanno aiutato a comprendere che la realtà circostante è una cura contro l’omologazione dell’immaginario mediato dalle tv e dall’industria culturale. Inoltre, i suoi saggi critici mi hanno insegnato che rileggere gli autori classici è un atto di costante rielaborazione scevra da pregiudizi e mode letterarie.

Celati ha portato alle estreme conseguenze intuizioni di Benjamin, Wittgenstein, Zavattini, liberandoci dagli editor, dalle idee calate dall’alto, dalla letteratura priva di passione, e dimostrando che saper guardare è sempre un’avventura, perché può voler dire mettersi da parte per ritrovare il mondo, occupandosi, attraverso l’uso del proprio corpo, dell’altrove, ovunque esso sia. 

Non meno importante è la sua lezione sull’assenza di radici, se l’intellettuale deve avere vicinanza e lontananza col mondo, con Celati è chiaro che l’intellettuale lotta con le origini fino a scoprirsi essere senza origini, in grado di creare nuove e inedite ramificazioni, che rispondono alla ricerca della verità ma soprattutto a un rapporto autentico con la vita. 

Da Celati ho imparato che si può raccontare il vuoto, l’assenza, l’inezia, senza mai ammiccare al lettore o all’editore. Narrare magari come atto sempre nuovo eppure antichissimo, sempre gravido, con la forza dell’oralità, delle voci narranti dei senza voce, ai margini, sempre in bilico tra moderno e pre-moderno.

Ecco, è questo coraggio di scrivere, questo fuggire dall’irrealtà attraverso una lingua che vivifica, che devo a Gianni Celati, è lui che ci ha insegnato a rincorrere il mito, riportando però il fantastico alla terrestrità. Con lui abbiamo capito che essere “umani” vuol dire fallire onestamente, con tutto il coraggio di essere fragili.

Sandro Abruzzese