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Verso Portomaggiore

*Articolo comparso nella rubrica Racconti viandanti per La Nuova Ferrara del 29/11/2022

È ormai una regola, quando giro in pianura, quella di evitare le strade a scorrimento veloce, oppure le strade nuove e dritte, le autostrade, per cercare le vecchie statali che collegano i paesi. Ho imparato nel tempo che occorre diffidare delle rette, che sono il portato di uno sguardo altro. Le rette, come scrive Franco Farinelli, trattano i luoghi come spazi, la terra come semplice superficie, e – un po’ come fa la ragione – tendono a ridurre il mondo a oggetto, a pianificare e progettare, travolgendo, con la loro visione uniforme, tutto ciò che è ricco e molteplice. E poi questo paesaggio sommesso, se attraverso le rette risulta intraducibile, lungo i corsi d’acqua cambia sorprendentemente. Cambiano i casolari squarciati e abbandonati con i cartelli vendesi, cambiano gli abitati invecchiati, le villette bifamiliari assiepate, gli autovelox, le trattorie, i bar, e il rapporto con l’acqua e la terra. È in queste vie che la pianura rompe la monotonia bidimensionale per riappropriarsi di volume e senso.

Oggi da Ferrara la strada mi conduce verso sud, a Portomaggiore, meno di trenta chilometri di vie sinuose e alberate che collegano le frazioni con i paesi circostanti e compongono una fitta rete. Sono diramazioni che configurano la provincia orientale e se non fossi passato per Quartiere e Gambulaga, o per Runco, non avrei capito il ruolo che Portomaggiore riveste nella zona. Insieme a Ostellato e Argenta, Porto delimita la grande bonifica della Valle del Mezzano. Qui, nei luoghi delle terre emerse e di delicato equilibrio idrogeologico, Portomaggiore, come Ripapersico, Porto Verrara, Consandolo, possiede un nome evocativo che rimanda al passato palustre, a quell’antico ramo di valli collegato all’Adriatico, agli etruschi di Spina, tra fiumi scomparsi di cui non resta traccia se non nelle vecchie mappe e, appunto, nei nomi: Sandalo, Persico.
Quella di Porto poi, sarebbe anche una storia di fossi, argini e contese, di margini e confini mutevoli che ne fanno un ennesimo paese di una frontiera ormai invisibile, tra estensi e papalini, ma non solo. La geografia ha dettato ancora una volta i tempi, e il paese, per via della linea ferroviaria collegata a Bologna, Ferrara, e Ravenna, è stato scelto negli ultimi trent’anni da nutrite comunità pachistane, marocchine, slave. È perciò paese-margine, ma a sua volta centro cittadino del contado. E se oggi conta circa 12000 abitanti, nemmeno con i copiosi afflussi dal sud e dall’estero è riuscita a tornare alla città di quasi 18000 abitanti che era tra le due guerre, prima del boom economico. Dal 1960 anche qui la decrescita, dovuta allo stile di vita, al massiccio urbanesimo verso il triangolo industriale, come nel resto d’Italia, ha fatto il suo corso. La mobilità, la disponibilità di immobili, la vocazione agricola e industriale, agiscono però come forza centripeta e attraggono nuovi abitanti. 

Comunque sia, stamane a Portomaggiore il cielo è coperto e un vento meridionale spira dagli Appennini. Mi aggiro raggrinzito, di sabato, nella piazza di fronte al Comune in cerca di qualcuno con cui parlare. Un po’ imbranato, comincio a fermare i passanti a caso, parto dagli anziani, uno di loro tratteggia una realtà fosca, di confusione e rovina, per concludere col problema delle foglie, dice cioè che i netturbini non raccolgono il fogliame, per cui è costretto a tenersi le sporte nel giardino. Dopo un po’ cerco un secondo gruppo di anziani, il signore in questione si giustifica dicendo di venire da San Nicolò per poi cominciare a raccontare una storia su una sua casa in costruzione e dei muratori di Berra, e via dicendo. Allora passo ai giovani baristi lungo il corso, uno di loro viene da Gallo e sostiene che all’inizio addirittura si perdeva in auto in un paese così grande, che ci si sta bene, tutto sommato, dipende dalla prospettiva. 
A questo punto, con in mente Terzani o Chatwin, avvicino una signora africana, la quale vive qui da quarant’anni e rimpiange un tempo pieno di giovani che passeggiavano lungo il viale della stazione. 
Nonostante i risultati, insisto, fermo un giovane pachistano fumante, lavora in azienda di fragole a Lagosanto, parla poco e mi pare capisca ancora meno. Poi, è la volta di un adolescente venuto dal’Abruzzo, infine, due giardinieri marocchini di Pincara che curano il verde pubblico. 
Oltre ai passanti presi a caso, in maniera un po’ improvvisata, per giunta avendo dimenticato a casa il taccuino, finisco per annotare la seguente serie di punti sulla mano che vado a trascrivere e ampliare per concludere:
A Quartiere, direzione Voghiera, nelle campagne della pianura si vedono in lontananza piccole chiese di una bellezza particolare, è forse la bellezza di luoghi una volta dal potere immenso, dunque la bellezza del passato sconfitto, a cui si guarda con indulgenza solo perché divenuto innocuo.
A Porto ci si perde, è vero, ha ragione il barista di Gallo, il paese non ha una vera e proprio forma, è custodito in un anello circolare ordinato, ma poi c’è qualcosa al suo interno che confonde. 
Il Municipio con i portici e il tetto alla francese, circondato dai tanti palazzi degli anni ’50-’70, in mezzo a vecchie case basse da contadini, mostra il disordine architettonico proprio dei paesi feriti e ricostruiti. Sono il portato di terribili e credo inutili bombardamenti dell’aprile del ’45. Muoiono un migliaio di cittadini. E muore, per sempre, il corpo antico del paese. La speculazione in Italia vive di catastrofi.
Gran lavoro della Biblioteca dedicata a Peppino Impastato e gestita prima da Patrizia e ora da Alice, gran lavoro del Comune per arginare frizioni inevitabili, malumori, incomprensioni, tra le varie e diversissime anime della città vecchia e nuova.
Invisibile, almeno stamane, la rivalità con Argenta. 
Invisibili sono i grandi scioperi della fine dell’800 e inizio ‘900, le proteste contro gli agrari, i crumiri. 
Invisibili e ultimi, ancora una volta, dannati come i braccianti di Porto, Molinella, Medicina, attirati qui da ogni dove per via delle bonifiche e della terra. 
Forse Portomaggiore stesso è un paese invisibile, fatto di storie che non si vendono, non alla moda, di acque e persone svanite, fiumi estinti, un paese accumulo di varie sottrazioni, dove come al solito si vede solo quel che resta. 
Vado verso l’auto, i due marocchini di Pincara salutano, sono lì che puliscono con attenzione, senza sapere bene cosa sia, il Monumento ai Caduti. Il vento si è calmato, il cielo è aperto come Portomaggiore di sabato mattina.

Il fiume bagna Pontelogascuro

Articolo pubblicato, con le foto di Marco Belli, nella rubrica Racconti Viandanti su La Nuova Ferrara del 18 ottobre 2022

Non so perché sia così difficile scrivere di Pontelagoscuro, forse perché la prima volta che ci sono stato non ne avevo capito poi molto del luogo. La prima volta mi era sembrato sì un paese del socialismo reale, un paese-periferia, costruito ai margini, per gli operai delle fabbriche attigue, per operai migranti come i marchigiani, o come i meridionali venuti a lavorare al nord, ma non certo un paese di fiume, una volta di dogane e pescatori, di portici e porti, lì in riva al Po. 

A Ponte, a differenza di Francolino o Ravalle, non c’è niente, venendo da Ferrara, che faccia pensare al fiume. Solo dall’argine, guardandolo con le ciminiere e i vapori del Petrolchimico come sfondo, si capisce il rapporto reciso, quella distanza artificiale creata tra paese e fiume. Da qui il rimorso per non aver inteso che Ponte non è solo un altro di quei quartieri nuovi a cui ci ha abituato l’Italia dei terremoti e delle alluvioni, bensì, avrei scoperto dopo, una delle tante vittime dell’ultima guerra mondiale. 

Fatto sta che per scrivere di Ponte devo vincere questa reticenza inconscia e, a un certo punto della giornata – per la precisione di un venerdì d’ottobre all’imbrunire – prendere l’auto per infilare la solita via Canapa. Dunque, come tante altre volte, superato Barco, attraverso le ordinate palazzine operaie che danno sempre l’aria di essere in un film di Ken Loach, arrivo ancora una volta in piazza, davanti alla chiesa in mattoncini dedicata a San Giovanni. 

Lì però, non sapendo bene che fare, abbastanza improvvisato e balzano, lo ammetto, insieme ad altri avventori dall’accento slavo che parlano di andare ad una festa non so dove, mi siedo sul muretto davanti al negozio di bibite di un pachistano. Gli slavi, divisi in due gruppi, uno di anziani a sinistra, uno di ragazzini a destra, mi guardano brevemente e senza interesse. La piccola figlia del gestore invece, davanti al negozio, gioca solitaria con dei cartoni vuoti. Sono solo, ho un ginocchio gonfio da giorni e, per giunta, non ho alcuna voglia di parlare con chicchessia, quindi, senza particolari risultati per il mio racconto, guardo i portici e la piazza vuota. 

Dopo un po’ decido di cambiare postazione, verso gli uffici della delegazione comunale. Da Barco a Ponte, mentre guidavo, ho contato almeno una dozzina di bar, il più affollato qui in piazza è il Bar Nuovo, gestito da una ragazza asiatica e frequentato un po’ da tutti, anziani locali, famiglie magrebine, qualche coppia. Intanto, in lontananza si intravede un signore brizzolato che orina addosso a un murales, nel cortile della delegazione. Mi fermo davanti a una targa commemorativa posta sul cemento armato dello stabile, leggo i nomi dei caduti della Grande Guerra: Saturno, Ferdiano, Artemio, Romolo, Vito, Alfonso, Sante, Cirillo. Lo faccio spesso. Mi piace leggere i nomi di un altro mondo, frutto di altri desideri e sogni che non sono più i nostri. Mi piace leggere i nomi di quando significavano qualcosa, nomi rizomatici che portano ad altri nomi e altre storie. Ma forse qualsiasi nome, anche il più artefatto, pur non volendo, finisce col significare sempre qualcosa. Così come qualsiasi luogo, anche il più anonimo, se possiede una piazza dove giocano dei bambini, è sempre un luogo riuscito. Ciò che determina la riuscita di un luogo non è tanto l’estetica o l’urbanistica, ma la vita che vi scorre, la vita che si rigenera, che crea continuità e senso fino a diventare valore. A lato del palazzo degli uffici, ancora una lapide e un nome, stavolta è di un carabiniere avellinese di nome Carmine, morto nel tentativo di sventare una rapina, nel ’73.

Ormai è sera e sulla piazza arriva la luce della luna piena e un’aria tiepida e umida di pianura ottobrina. Mi infilo tra questi due bambini della scuola calcio locale che sul muretto giocano con le figurine. Sulla panchina di fronte, davanti alla chiesa, un anziano stempiato con l’indice all’insù sta dicendo a un’infermiera che ha appena finito il turno che ormai ci dobbiamo abituare al modello americano, questa è la realtà, bisogna pagare per qualsiasi cosa, conclude concitato, e comunque lui va in Veneto, si trova meglio. 

Torno al parcheggio con l’idea sghemba di andare a vedere il fiume di notte, invece mi perdo in questo reticolo rettangolare, funzionale e geometrico, che è Pontelagoscuro di notte. Tra una palestra, un campo di calcio illuminato, il mulino, passo per la bocciofila e il teatro Cortazar. Di fronte al Teatro, nel buio della sera, rivedo il monumento alla memoria di Ponte, degli alberi in cerchio che racchiudono macerie, indicando il luogo preciso dov’era situato il paese vecchio. 

Decido di rientrare. Forse, mi dico, la verità è che Pontelagoscuro non l’avevo mai visto sotto questa luce, all’ora dell’aperitivo di un venerdì sera post-pandemico. Dunque, quello che mi era parso un paese-satellite, un paese-ripiego, anche se nell’Italia post-industriale e antisocialista di oggi è un po’ come se a Ponte si abitasse l’idea di qualcun altro, comunque l’ho trovato vivo. Da un lato, è come se Pontelagoscuro fosse spuntato dal nulla, da abbandonate idee novecentesche, lavoro e industria, come un paese orientale ormai votato al neo-liberismo più sfacciato. Dall’altro lato, Ponte è uno di quei luoghi dove, tra la fatica e gli sforzi delle istituzioni per far fronte ai bisogni di una comunità in continuo cambiamento, dal Dopoguerra a oggi, hanno trovato casa a buon mercato tante nuove famiglie venute da ogni dove. Ed è questo che, piaccia o meno, fa di Pontelagoscuro una frazione e un paese più riuscito di altri: l’essere nuova dimora che ricrea la vita. E se Ferrara non vorrà diventare solo la vuota vetrina per turisti che molti desiderano, è bene che trovi il modo per dialogare con i suoi  futuri cittadini.

sandro abruzzese

Nelle terre mosse

Foto di Marco Belli, tratta da Niente da vedere, Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino 2022)

*articolo comparso sulle pagine culturali della Nuova Ferrara di domenica 13 marzo

Ogni città esiste senza ricordare il perché, verrebbe da dire tra le strade di pianura che portano da Ferrara al Delta de Po. Bisognerebbe riuscire a immaginare Comacchio e Ravenna circondate dall’acqua, oppure pensare a quando le valli lambivano Ferrara, per capire le ragioni antiche di un luogo. Comunque ogni città, che sia Ravenna, Rovigo o Adria, è il risultato di svariate dimenticanze, a volte addirittura di calcoli e previsioni sbagliate, come fu per Mesola, il progetto estense di una nuova città portuale che contendesse la leadership a Venezia, affossata dalla Serenissima attraverso un’opera faraonica: il taglio del Porto Viro del 1600-604. Eppure, proprio come per le matrioske, ogni città sembra sempre ne nasconda un’altra dentro di sé, e oggi che siamo tutti un po’ stranieri residenti, ogni città è per i suoi stessi abitanti come una lingua in parte sconosciuta, o anche come una parola antica, che nel tempo ha assunto un altro significato, di cui ormai nessuno ricorda più l’origine. E allora in principio forse non era il verbo, come dice un libro sacro, bensì il luogo, la realtà esterna, da cui lo stupore e il tentativo susseguente del verbo, del dire ciò che si vede. O magari questa è un’impressione personale frutto del ripetitivo vagare nelle terre mosse del Polesine veneto e ferrarese. Infatti, non esiste un solo modo di guardare il mondo, e oggi che passiamo per la Fratta Polesine di Giacomo Matteotti, oppure visitiamo i resti della vecchia sede dell’Avanti di Magnolina, se ripensiamo al bracciantato locale, ai badilanti, ai grandi conflitti sociali tra padronato e lavoratori, da cui la nascita del sindacalismo, delle cooperative, ebbene, verrebbe da dire che in principio – almeno al principio dell’epoca contemporanea – era la coscienza di classe, dunque da trent’anni a questa parte, orfani come siamo, non ci resta che la coscienza dei luoghi.

In viaggio, invece, l’etimo delle parole e quello dei luoghi fanno davvero al caso nostro. In pochi posti come tra l’Adige e il Reno, di cui Ferrara è davvero un ultimo avamposto prima del caos acquatico, occorre prestare attenzione alle origini. Qui tutto parla del rapporto con l’acqua. Le origini sono le sorgenti, le fonti, sono il tutto. Se il delta del Po e il limite estremo della pianura restano, almeno idrogeologicamente, tra i luoghi più fragili d’Italia, il suo territorio si consolida se lo si considera, come ha insegnato Eugenio Turri, il palcoscenico di un teatro ben più grande, ovvero l’intera pianura padana, insieme all’arco appenninico e alpino, con tutti i boschi e i corsi d’acqua, le città e le campagne a essa collegate. Il delta del Po è il terminale di una civiltà interconnessa e interdipendente, e pagherà le conseguenze dello spopolamento degli Appennini, della fuga dalle Alpi, delle frane di montagna, della cementificazione pedemontana, dell’incedere del mare.

Di questo parliamo con Marco mentre passeggiamo lungo l’argine di una golena, a Villanova Marchesana, dove una vecchia fornace di laterizi giace abbandonata e sulla superficie del fiume scivolano placidamente detriti e qualche rifiuto. Parliamo di ciò che noi possiamo fare al fiume, dei danni che l’essere umano può fare al mondo. In pratica il rapporto tra natura e cultura si è capovolto, dunque persino il conte Leopardi sarebbe costretto a chiedere conto alla cultura, alla civiltà, della sua indifferenza verso le sorti del pianeta, degli esseri viventi, dei popoli, non più alla natura, come nel suo celebre dialogo.

Siamo verso Canalnovo, nella piazza centrale c’è tutta l’onestà del posto. Nessun orpello o volontà di apparire diversi dall’essenziale. Di fronte al viale che porta alla chiesa, sul muro scrostato di una rimessa in rovina, c’è scritto «w i spusi», poi un cuore disegnato e una freccia a trafiggere le iniziali «M. S.». Il ristorante Due cigni, fallito, mostra ancora in vetrina il volto di una certa cantante di piano bar. La foto della cantante è ingrandita e sgranata. Non resta che il Caffè Costarica. Di fronte al ristorante, da una delle due case sulla strada, fuoriesce una suora vestita di bianco, deposita il pattume, dall’altra una signora anziana alla finestra osserva incuriosita.

Torno a Ferrara dopo aver accompagnato Marco.

Oggi si può dire che è una giornata in cui non è successo nulla di particolare, lo so anch’io, una giornata astratta, di soli pensieri e immagini. Il paesaggio, la realtà circostante non avevano granché da dirci, eppure lo stesso non è stato male, se non altro ne è uscita questa pagina contro la dittatura degli accadimenti, delle fiction, che testimonia l’esistenza letteraria di momenti qualsiasi, anzi la loro piena dignità: Cesare Zavattini parlava di qualsiasità. Una pagina del genere potrebbe però benissimo significare che una democrazia si occupa allo stesso modo dei luoghi famosi e di quelli dove non c’è niente da vedere, che una democrazia è una rete di punti senza margini. Oppure significa che in certi posti, davvero non c’è niente, salvo gente balzana che se ne va zonzo sul fiume priva di scopo, come noialtri.

Per strada, di ritorno, attraverso muri di nebbia in grado di cancellare qualsiasi riferimento, ampiezza e orizzonte si chiudono o restringono improvvisamente. Viene in mente l’idea della lavagna. Forse tutta la giornata serviva per quest’unica idea, da cui nasceranno migliaia di altre idee e progetti. Chi può dirlo?

Nel frattempo, tutto, ancora una volta, come con l’acqua, scompare o si cancella: il Polesine diventa una lavagna, qualcosa da riscrivere ogni giorno, in ogni epoca. L’acqua cancella le tracce, ridiscute i confini, e noi, per capire il Paese, come scriveva Adorno, seguiamo le sue tracce verso i margini, andiamo verso il caos generato dalle acque, dove lo stato non arriva, e l’uniforme affronta la sua battaglia persa contro il limite della pianura.

In memoria di Gianni Celati

Gianni Celati è stato un intellettuale originale che ha fornito per tutta la vita nuove prospettive critiche e narrative nel panorama culturale italiano. Personalmente, Verso la foce o Narratori delle pianure  mi hanno aiutato a comprendere che la realtà circostante è una cura contro l’omologazione dell’immaginario mediato dalle tv e dall’industria culturale. Inoltre, i suoi saggi critici mi hanno insegnato che rileggere gli autori classici è un atto di costante rielaborazione scevra da pregiudizi e mode letterarie.

Celati ha portato alle estreme conseguenze intuizioni di Benjamin, Wittgenstein, Zavattini, liberandoci dagli editor, dalle idee calate dall’alto, dalla letteratura priva di passione, e dimostrando che saper guardare è sempre un’avventura, perché può voler dire mettersi da parte per ritrovare il mondo, occupandosi, attraverso l’uso del proprio corpo, dell’altrove, ovunque esso sia. 

Non meno importante è la sua lezione sull’assenza di radici, se l’intellettuale deve avere vicinanza e lontananza col mondo, con Celati è chiaro che l’intellettuale lotta con le origini fino a scoprirsi essere senza origini, in grado di creare nuove e inedite ramificazioni, che rispondono alla ricerca della verità ma soprattutto a un rapporto autentico con la vita. 

Da Celati ho imparato che si può raccontare il vuoto, l’assenza, l’inezia, senza mai ammiccare al lettore o all’editore. Narrare magari come atto sempre nuovo eppure antichissimo, sempre gravido, con la forza dell’oralità, delle voci narranti dei senza voce, ai margini, sempre in bilico tra moderno e pre-moderno.

Ecco, è questo coraggio di scrivere, questo fuggire dall’irrealtà attraverso una lingua che vivifica, che devo a Gianni Celati, è lui che ci ha insegnato a rincorrere il mito, riportando però il fantastico alla terrestrità. Con lui abbiamo capito che essere “umani” vuol dire fallire onestamente, con tutto il coraggio di essere fragili.

Sandro Abruzzese 

La via Romea come frontiera

Il nostro itinerario all’interno di questo vasto spazio, uno degli ultimi grandi vuoti della pianura padana, non ha particolari mete. Ci aggiriamo a caso con la convinzione che il mondo circostante sia comunque incapace di mentire allo sguardo, per cui nei dintorni c’è sempre qualcosa da vedere che parli di noi e di come effettivamente funziona il mondo. Certo, viaggiare nella pianura, decifrarne i segni, vuol dire innanzitutto attenersi alla realtà concreta. Per cui passare alla rinfusa da Contane, ignorando che si tratti del luogo più basso d’Italia, o veleggiare di soppiatto a Jolanda di Savoia e Mezzogoro, ebbene fa sempre un certo effetto. Da Contane, dove oggi non c’è un filo di vento e il cielo opaco rende la terra ancora più bruna, per strade secondarie, stavolta ci dirigiamo verso il litorale. Sbuchiamo sulla Romea che è una strada particolarmente amata perché vi si costeggiano limiti non solo geografici, ma di un confine invisibile, in cui si sovrappongono elementi, e dove il mondo progettato e studiato dallo stato, dalla regione e da chi per loro, si affievolisce del tutto. 

La Romea è un confessionale ibrido, ribadisce il divano blu elettrico abbandonato sotto la pensilina di un distributore di metano. Un luogo dove la pianura, anche la più reticente, si confessa, e dove l’omogeneo e l’uniforme vi si compiono e falliscono a un tempo, oppure dove le illusioni cittadine, mondane, lasciano il posto a una buona dose di franchezza, per cui nel paesaggio inerme, spuntano trame sotto traccia e disfunzioni, come la discarica clandestina appena sequestrata qui di fianco, a Lagosanto. Non sono solo gli incidenti, la pericolosità di questa arteria, bensì le variabili e le intenzioni che si incrociano in questo punto-limite a raccontare l’Italia. È un posto per i segreti, per i rifiuti, per il proibito, la Romea. È il posto giusto per far perdere le proprie tracce, per pentiti di mafia, traffici o amori clandestini. Vi si può mangiare e dormire facilmente, anzi la vita vi prende come un sapore di accessibilità, per inciso dequalificata, tirata all’osso, flessibile, ma è pur sempre sopravvivenza ed espletamento di bisogni fisiologici primari. Motel a basso costo, camere a ore, cibo a basso costo, cibo a tutte le ore. Sesso a basso costo. Droga, supermercati. Tutto il mondo com’è e come accade, passa per la frontiera che è la Romea e vi si fonde. E tutto ciò che si trova oltre questa strada, verso il mare, a Boccasette, Scardovari, fino all’Isola dell’Amore o alle Vene di Bellocchio, rappresenta un’altra storia, fatta di cieli ancora più ampi, di campi se possibile ancora più sconfinati, di geometrie e forme che rimandano a un continuo altrove. 

Di questo e altro, dopo una mattinata di osservazione disordinata, mentre a fianco al nostro tavolo due amanti litigano e due vecchi migranti partenopei conversano col loro nipotino alternando il tedesco e il napoletano, discutiamo in osteria con Marco. Guardiamo le foto, decidiamo il da farsi, e dopo un po’ litighiamo pure noi, e sul Sessantotto, per giunta. Lui difende le forme libertarie e anarchiche, rimpiange un’Italia d’avanguardia. Io invece in quella divisione, nella velocità dell’avanguardia urbana, ritrovo l’abbandono delle retroguardie e delle province, e l’incapacità di camminare insieme, di radicarsi per non lasciare nessuno indietro, anzi di essere compatti e solidali fin nelle lande più remote del paese, proprio come questi luoghi. Anche in questo diverbio conta l’esperienza e la provenienza, è il dialogo tra un cittadino e un paesano, tra un settentrionale e un meridionale, e prova ancora una volta l’importanza e la necessità di incrociare le prospettive secondo una reciprocità essenziale alla comprensione delle parti come tutto. Una subcultura della frammentazione, invece, un’analisi continua e univoca delle parti, senza più sintesi, è questa la morsa che non lascia scampo all’Italia di oggi. Ed è per questo che il vuoto della pianura, la sua parte più debole e eterogenea, può aiutare a comprendere la realtà nazionale. È una prospettiva senza voce, o al limite con una voce letteraria, ma senza il politico e sociale.

È già ora di rientrare. Lungo la strada ripensiamo alla giornata. Nella mente ormai la Romea è un grumo in cui si addensano scarti e resti: venditori ambulanti, canali, rimesse, veicoli in panne, zucche e sacchi di patate, pattume. È un confine di cui resta questo suo essere sintesi, quasi una cerniera meticcia di campi agricoli e spiagge adriatiche. La ripetitività desolata della monocoltura del Mezzano e quel pieno stagionale dei vacanzieri ai Lidi, appaiono comunque due mondi a loro modo reificati, a senso unico, e quindi in grado di smarrire qualsiasi reale senso. La Romea separa e attraversa questa riduzione bipolare del mondo, in cui la modernità è a un tempo applicata e sospesa, così da generare attraversamento e vuoto. Se il Mezzano è privo di vita umana e insediamenti, i Lidi sono semi vuoti in inverno.

Di rientro, dopo aver camminato per qualche chilometro su una striscia di terra in mezzo alla laguna comacchiese, attraversiamo il Mezzano all’imbrunire, tra nutrie e fagiani, tra strade sconfinate degne di una canzone di Springsteen. Qualcuno, su una casupola grigia, con dello spray nero, ha scritto “Duce idiota”. Ci lasciamo alle spalle la laguna grigia, sempre più scura per via del sole calante dietro l’arco appenninico. 

La sensazione è che chiunque, in questi luoghi, per come sono stati concepiti, possa essere solo un ospite, e che il provvisorio, sotto forma enigmatica e misteriosa, regni incontrastato, anzi, addirittura incomba. Il resto lo farà il mare, con la sua avanzata lenta, impercettibile quanto incontrastabile, sarà lui a riprendersi definitivamente l’estremo limite della pianura.

sandro abruzzese

Viaggio a Serravalle

Il paesaggio padano, quello della locomotiva economica del Belpaese, verso il limite estremo della pianura finisce per tradire quella sua aura protestante dovuta all’esasperato funzionalismo produttivo, per lasciare spazio ai resti, all’ibrido, alle deviazioni verso il particolare. E i particolari, dando luogo alle contro-condotte più esasperate, svelano i recessi e il recondito dei luoghi. Ecco perché da Francolino, da Copparo o Argenta, andare verso oriente significa varcare soglie invisibili che parlano dell’Italia tutta, non solo della parte più ricca e efficiente, di solito gremita di capannoni industriali. Qui la pianura, proprio perché molteplice, si mostra più fragile e sincera. 

La golena di Serravalle, per esempio, stretta com’è tra Santa Maria in Punta e Papozze, laddove il Po si ramifica in due tronconi, quello di Venezia e di Goro, è uno dei tratti più suggestivi del Parco del Delta. La golena è fitta di boschi e, anche qui, come a Borgo Santa Maura a Polesella, chiuso il ristorante che molti rimpiangono, a gestire i bungalow e il molo delle barche è un signore tedesco che vive sul fiume tutto l’anno. Lo cerchiamo ma stavolta siamo sfortunati.

Sul molo ci accompagnano Sergio e Elisabeth. Sergio fa cenno di guardare in alto, in cima a un palo che funge da padimetro svetta il livello spaventoso della piena del Po del 2000. 

Sergio, orafo e ceramista, uruguaiano trapiantato per amore di Elisabeth sulla riva destra del Po sedici anni fa, ci dice che i vecchi qui vivono in maniera essenziale, acquistando il poco che non sono in grado di produrre. Si accontentano di sopravvivere, a volte. Non rinunciano al lavoro. Per loro non è un problema. È vita, il lavoro. Anche la fatica, il sudore, è vita. Quello che ti restituisce qualcosa, però. C’è una cesura generazionale tra il mondo agricolo, artigianale e i ragazzi di oggi che, invece, sono simili a quelli di qualsiasi altro posto: hanno il profilo Instagram, il corpo tatuato, lo stesso taglio di capelli dei milanesi o dei romani, affollano le bacheche con i selfie e le foto delle sere passate in discoteca. È a loro che occorre rispondere, alle loro legittime aspirazioni. Così a volte viene meno la continuità, anche se il lavoro ci sarebbe, non sempre c’è chi vuole portarlo avanti, soprattutto nelle aziende agricole dei dintorni.

Ho raccontato altrove (CasaperCasa, Rubbettino 2018) la storia di Sergio, l’emigrazione dall’Uruguay all’Argentina, i difficili anni dell’Argentina, l’approdo a Bologna. Con Elisabeth, che a Serravalle è nata e cresciuta, hanno scelto di crescere qui i propri figli. Sergio ha rinunciato a fare l’orafo, la filiera della ceramica moralmente gli restituisce sonni più tranquilli, dice, e ricorda la frase di Gandhi che ama: “Dobbiamo essere noi il cambiamento”. 

Inoltre, a Serravalle ha imparato, dal padre di Elisabeth, agricoltore, a fare un po’ di tutto, e a sua volta lui ha portato i suoi valori ecologisti nella campagna ferrarese. Da qui, per ridare fiato alla terra, il progetto di un bosco di bambù, una pianta che risana l’ambiente. 

Andiamo in piazza. Marco fotografa il campanile, in cima alla guglia c’è una palla che sta per cadere, indica. Io invece mi soffermo sull’edificio in cemento armato, una sorta di architettura da socialismo ferrarese piena di pilastri. 

Riprendiamo a girare, con lo sguardo cerco uno scivolo, un parco, qualcosa di costruito e pensato per ragazzi e bambini, niente. O meglio, ci sono i bar, ne ho contati almeno cinque, i tabacchi, bed and breakfast, insomma c’è tutto ciò che si trova o che manca nei paesi di oggi. 

Ma forse più che dall’interno, è da fuori che si può dire qualcosa di più su Serravalle. Dall’esterno si nota che l’area artigianale e industriale, del cui tessuto fanno parte aziende importanti anche a livello internazionale, si sposa quasi senza soluzione di continuità con i campi coltivati. Da fuori si notano poi i ponti sui canali, ne attraversiamo uno in ristrutturazione da tempo e ad accesso limitato. 

Serravalle dunque si fa più lontana anche per via di una viabilità non sempre adeguata. A risentirne è il suo comparto industriale, sono i cittadini che percorrono strade non sempre sicure. In fondo, Serravalle mostra questo suo doppio volto: l’incontro tra una civiltà agricola e artigiana, autosufficiente; e l’industria, anche a carattere internazionale, per cui occorrerebbe competere, avere istituzioni e politiche adeguate alle continue sfide del mercato. Il paesaggio rurale poi, qui, come dappertutto, non deve ingannare: all’inquinamento dell’aria, delle acque, dei terreni, ai danni subiti dalla pianura più industrializzata d’Europa, non si sfugge. Il paradosso venuto a crearsi è che i paesi della pianura patiscono gli stessi problemi di inquinamento delle aree urbane, senza averne in cambio i servizi. 

C’è il tempo per parlare della Pro Loco, che è vivace, attiva, per una visita alla diroccata Villa Giglioli, un luogo evocativo della storia agraria padana, dove conosciamo un conte senza più contea, che subito ci corregge: “In Italia i titoli sono stati aboliti”. 

Di nuovo in cammino, ripensiamo alla giornata trascorsa: se da una parte in provincia ci sarebbe la possibilità di applicare una nuova cultura ecologista, di essere e fare altro, più liberi e autonomi, più giusti e solidali, dall’altra questo trovarsi nell’interdipendenza eterodiretta dai centri di potere la rendono inerme ingranaggio di una macchina burocratica lontana e indifferente. Anche così la provincia finisce per sognare gli stessi sogni di grandezza delle città e delle tv, dunque è nell’immaginario che si smarrisce. I paesi, senza servizi, senza lavori che rispondano alle aspirazioni giovanili, diventano località smunte. Se i giovani se ne vanno, nessuno può cambiare più nulla. All’orizzonte, nessuna emancipazione. In questo modo, la provincia italiana finisce per diventare retroguardia e Vandea, ovvero il bacino della reazione, in cui ci si aggrappa alla xenofobia, ai discorsi identitari o territoriali, se ne strumentalizzano i disagi fino ad arrivare – è il caso dei fatti della vicina Goro del 2016 – a respingere con le barricate e i sit-in un gruppo di profughi destinati all’ostello del paese.

Il fatto è che vedere che cos’è diventata la provincia oggi è molto più facile che comprenderne le cause e i vari livelli di responsabilità. Forse la domanda vera è: chi e cosa produce la provincia com’è oggi?

Da Mezzogiorno padano a CasaperCasa

*articolo comparso sul Quotidiano del sud il 25 marzo del 2018

di Paolo Speranza

L’Italia smarrita di Sandro Abruzzese

Certo, Torre del Greco “non è Manhattan”, e questo lo si sapeva, vicina com’è alla “terra dei fuochi” e all’epicentro di Gomorra. La vera rivelazione, semmai, è che neanche la ricca, civile, progressista Emilia-Romagna può più accreditarsi come la “terra promessa” per i tanti che, di nuovo e silenziosamente, emigrano dal Sud per una vita migliore: “questa non è Hollywood”, sentenzia amaramente Maria, che da Torre del Greco si è trasferita con la famiglia a Parma per assicurare a sua figlia, affetta dalla nascita da una malattia rara, un’assistenza sanitaria adeguata. Senonchè, quello che doveva essere un temporaneo “pellegrinaggio della salute”, da Sud a Nord, è diventato invece un trasferimento definitivo: permanente e senza via d’uscita come la solitudine assoluta con cui Maria è costretta a convivere in quella “immensa e ricca pianura in cui, quando mi sento sola, non resta che andarsene all’iper, a fare la spesa”. Più simile alla depressione strisciante che ad una forma di sognante saudade, questa solitudine amplifica nell’animo della casalinga venuta dall’area vesuviana quel magma di nostalgia, sensi di colpa e rassegnazione di cui è irrimediabilmente prigioniera da ormai vent’anni.
No, non è davvero Hollywood, e non le somiglia neanche lontanamente, quella Padania che da oltre un decennio accoglie (ma sarebbe più corretto dire: ospita) gli attori della nuova e inarrestabile ondata migratoria dalle regioni del Sud Italia: un movimento carsico, inedito nelle sue dinamiche, che ancora oggi i più preferiscono rimuovere, pochi si sforzano di analizzare, quasi nessuno ha raccontato davvero.
Per questo è importante, ricco com’è di qualità letteraria e di coraggio civile, l’esordio narrativo di Sandro Abruzzese, che tre anni fa con Mezzogiorno padano, edito da manifestolibri con prefazione di Vito Teti (presentato in Irpinia a Grottaminarda ed allo Sponz Fest di Calitri in un’iniziativa coordinata da Franco Fiordellisi, Rita Labruna e chi scrive), ha dato vita ad una sorta di “Spoon River meridiana” dei nostri giorni, intrecciando con uno stile già coinvolgente e maturo storie personali di donne e uomini del Sud, sopravvissuti e resistenti, marginali o migranti. Storie semplici nella loro struttura eppure emblematiche, percorse da un vivo realismo e da una partecipe e a tratti vibrante caratterizzazione dei personaggi: “Queste storie apparentemente separate appaiono un unico romanzo sul dolore del nostro tempo presente. Queste storie, apparentemente fatte di scarti e di frammenti, raccontano le vicende eroiche e drammatiche della normalità, di un mondo di sradicati, di persone in fuga per arrivare in nessun luogo e per accorgersi che il luogo forse, come recitano i versi di Scotellaro, è là dove nasce l’erba nella terra e là dove il seme può spostarsi per trapiantarsi lontano”, scrive nella prefazione Teti, autorevole antropologo e meridionalista, estimatore convinto di Abruzzese (che dalla nativa Grottaminarda si è trasferito da anni a Ferrara), tanto da inserirlo fra le firme della nuova collana che dirige per Rubbettino, “Che ci faccio qui?”, per la sua seconda opera narrativa CasaperCasa – presentazione a Grottaminarda alle 19.00 del 30 marzo alla Mondadori – con la quale il giovane docente irpino, blogger e fondatore del progetto “Racconti viandanti” (attraverso cui promuove incontri sul tema dell’erranza) si conferma come una delle voci più interessanti e sincere della nuova narrativa italiana, in grado di cimentarsi con una polifonia di temi, generi e toni.
Se Mezzogiorno padano è infatti una silloge ben articolata di storie e racconti, filtrati dalle voci e dal flusso di memoria dei protagonisti, CasaperCasa è una sorta di odissea esistenziale, con echi joyciani, del protagonista (un insegnante in anno sabbatico dopo un matrimonio fallito) che si svolge tra le strade, le case e l’hinterland di Ferrara, fitta di sensazioni ed incontri a cui l’io narrante cerca di dare un ordine narrativo, costruendo così, come rileva l’estensore della scheda editoriale, “un reportage involontario, ironico e disarmante, di una ricerca di senso condotta con tenacia e leggerezza”. Il reportage foto-cartografico rappresenta una delle particolarità dell’opera seconda di Abruzzese, oltre alla tenace, progressiva conquista di uno stile sempre più personale ed interiorizzato, senza rinunciare (al contrario, esternandoli quasi con orgogliosa passione) ai richiami e agli apporti linguistici e morali di una solida teoria di buone letture e visioni d’autore.
La Ferrara narrata dal giovane scrittore meridiano non ha più l’opulenza fascinosa e dai risvolti talora torbidi del “romanzo di Ferrara” di Bassani o l’aristocratica eleganza di certi squarci dei film di Antonioni, per citare due tra i suoi figli più illustri, bensì è pienamente partecipe del grigio declino dell’Italia e d’Europa, di cui anche l’ampia e suggestiva appendice fotografica di CasaperCasa sembra restituirci, insieme all’antica bellezza, un retrogusto di spenta grandeur di provincia, di ripiegamento e di vuoto.
«Paese incridibile questo, Alecsandro, tantasorpresa, tanto riccopaese questo, o no? Anche tanto stranopaese di questi cosechecapita in riccopaese, o no? Certi volte questo che sento qui è di paesestrano, molto moltoancora più di che Ucraina sai?», commenta nel suo improbabile italiano Giorgio “Aggiustatutto”, l’immigrato ucraino che diventa compagno di viaggio ed amico del tormentato Ulisse di CasaperCasa, finendo per scoprire una città ed una Italia molto più complesse, tristi e ripiegate in se stesse di quanto lui, e come lui tanti migranti attratti dal “miraggio europeo”, avrebbe potuto mai prevedere. Ma non va meglio, peraltro, a tanti personaggi autoctoni, emigrati dal Sud o residenti “storici”, feriti e confusi da una vita privata e collettiva sempre più povera di umanità e di sorrisi, di relazioni sociali, di antidoti etici e culturali a una sorda, e sempre meno sotterranea, violenza.
Questa non è Hollywood, appunto. E non tornerà ad esserlo, se mai lo è stata. Perché se il futuro appare problematico e incerto, ancor meno senso ha il rifugio nella nostalgia di un recente passato, benchè indubbiamente migliore.
Scrive Abruzzese in una delle pagine più profonde del libro, citando uno dei suoi autori preferiti: “Portami con te, scrive in una poesia dedicata al figlio Attilio il poeta Caproni, e invece sa benissimo che il bello di questo mondo è prendere la propria strada, sperando sia la volta buona, il verso giusto, tentare di inseguirlo”. Come l’Ulisse che è in ognuno di noi, il più delle volte represso o nascosto in nome di un’esistenza più comoda e sicura. Ma di quelle certezze rassicuranti che hanno come protetto in un involucro di benessere, fino a ieri, Ferrara e l’Emilia e gran parte d’Italia, non vi è traccia nei personaggi di Mezzogiorno padano e di CasaperCasa. Ai quali non resta che affidarsi, in una vita che è sempre più resistenza quotidiana, alle residue risorse di vitalità ed ai barlumi di solidarietà umana e civile che a tratti illuminano la lunga strada, piena di foschia, che li separa dall’approdo alla loro personale e ancor sconosciuta Itaca.

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Sulla Ferrara infelice e disperata de L’Espresso

le torri gemelle

Torri gemelle alla stazione di Ferrara

Del reportage su Ferrara di Fabrizio Gatti, che ha destato scalpore e provocato la conseguente replica del sindaco, devo dire che ho trovato molto proficuo lo sforzo di raccontare “l’altra Ferrara”, cioé la parte più povera e a volte invisibile della città. Si tratta però di prenderne il buono, – la prospettiva, alcuni dati, – e lasciar perdere la retorica della disperazione e dell’infelicità. Questo a mio avviso sarebbe utile alla città per comprendersi.

Il giornalista ha infatti usato statistiche socio-economiche quali i dati sull’occupazione, la povertà, gli indici demografici, alcune cifre sull’assistenza sociale. Ha inoltre ricordato la presenza della mafia nigeriana, dello spaccio di droga e, in alcune aree della città come la Gad, della perdita del controllo del territorio da parte delle istituzioni. E per fortuna, bontà sua, ha dimenticato il tasto dolente dell’inquinamento.

La ricostruzione, dicevo, va salvata per darle un dibattito serio e anche per non lasciare l’argomento a una facile ironia o peggio relegarlo a monopolio e strumento di propaganda delle odierne e odiose destre xenofobe. I punti sollevati da Gatti esistono, sono urgenti e meritano attenzione.

La risposta del sindaco invece, soffermandosi sulla crescita del turismo, le nuove fermate dei veloci (e costosi) treni di Italo e Trenitalia, le nuove infrastrutture ecc., ha finito per ricordarmi un famoso film con Gene Wilder intitolato Non guardarmi: non ti sento. Insomma la sua mi è parsa una difesa d’ufficio dell’amministrazione piccata e tuttavia fuori fuoco poiché i treni veloci o le infrastrutture, le mostre, le piste ciclabili parlano di una Ferrara ampiamente visibile e pubblicizzata che poco ha a che fare con la parte povera e multietnica della città. Non credo fosse in discussione questo.

Come difesa d’ufficio, peraltro, sarebbe bastato incrociare qualche statistica nazionale per confutare i dati utilizzati da Gatti sull’impoverimento, sulla demografia, sull’immigrazione, e sottolineare come queste cifre riguardino dinamiche nazionali e internazionali contro cui nessuna amministrazione comunale ha colpe né può vantare soluzioni. Non è a Ferrara ma in Italia che ci sono pochi nati. Non è a Ferrara ma in Italia che la povertà relativa ha raddoppiato le sue percentuali. Non è a Ferrara ma in Europa e nel mondo che le migrazioni stanno cambiando la realtà di interi continenti. È quindi Ferrara il simbolo di un periodo europeo e non il contrario. Anzi la retorica della disperazione, se paragonata alla realtà e ai numeri di altre aree del Paese, o del Mezzogiorno, dove risiedono la maggior parte delle famiglie povere italiane, risulta del tutto inappropriata.

Su questo però, ripeto, sarebbe utile a tutti discutere, spiegarsi, argomentare.

Tornando al reportage, ebbene i parametri valutativi usati dal giornalista non mettono in discussione di certo la “felicità di Ferrara”, bensì il suo benessere. È il binomio “benessere-felicità” o “povertà relativa-disperazione” quello che contesto al giornalista, o meglio ai titoli sensazionalisti dell’articolo.

Allora è il caso di aggiungere altre prospettive al racconto della città e dire magari che, a dispetto di tante altre città padane, Ferrara non è infelice né disperata prima di tutto perché è ancora un luogo. È uno spazio vissuto che genera senso e relazioni umane, memoria, conoscenza e condivisione. Sono le relazioni simmetriche, la capacità di muoversi liberamente e partecipare, è la capacità di vivere la propria privatezza per poi condividerla in una sfera pubblica che fanno di una città un luogo vivo (costo di un affitto o di una casa, mobilità, gratuità di eventi e servizi, ecc.). Dunque, Ferrara è ancora un luogo e lo è proprio perché non è particolarmente ricca né industrializzata, e non è ancora soffocata né snaturata dal turismo di massa o dalla diseguaglianza. Questi fattori, insieme agli impulsi positivi legati alla sua antica università, le hanno consentito di conservare il suo corpo, la sua forma, e di attirare costantemente nella sua orbita.

Certo, stiamo parlando di un’Italia tremendamente invecchiata, e la felicità di Ferrara, va detto, non è eterna né scontata. Essa dipenderà dalle sue capacità residue di generare radicamento nei nuovi ferraresi (le statistiche demografiche restano inesorabili), di generare uguaglianza e di difendersi dal consumo del suolo, dalle speculazioni edilizie, dal proliferare di centri commerciali, dall’inquinamento, che pure ne hanno minacciato e continuano a minacciarne l’essenza.

Ebbene, vale la pena ricordare che una città che genera radicamento è l’antidoto migliore a qualsiasi tipo di fondamentalismo o fanatismo e le città della desolazione italiane sono proprio quelle industriali e postindustriali che vantano pil, cifre e dati più virtuosi. È lì che crescono i focolai d’odio, di rabbia e rancore dovuti allo sradicamento e alla fine delle comunità, ed è lì che nascono e attecchiscono le leghe e i Salvini.

In questa vicenda è chiaro che spetterà un ruolo importante alla nostra classe dirigente, la quale nel complesso, se confrontata al resto d’Italia, viene da diversi mandati positivi, e tuttavia dovrà nell’immediato futuro favorire la maggiore compartecipazione possibile tra la città dei poveri e quella dei ricchi, tra i nuovi e i vecchi ferraresi.

Insomma, Ferrara è anche l’altra città di cui il giornalista Gatti parla, e agire su di essa è un’occasione, forse l’unica, di rigenerazione, per creare nuovi, inediti equilibri.

Il fatto è che, purtroppo, – come la peste di Camus o la cecità di Saramago, – l’odio, la paura, l’isolamento degli italiani, lo stallo politico nazionale, la mancanza di idee e visioni precise del Paese, si propagano su e giù per lo stivale al pari di un morbo inarrestabile, rendendoci disperatamente inermi, soli, a volte miopi.

 

Sandro Abruzzese

*Articolo comparso in precedenza qui, su Ferraraitalia

La città di Monica

Testo e foto di Sandro Abruzzese

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… E poteva andare a studiare in America, Monica, però non ci va in America, per tanti motivi, non se la sente. Per dirne una, quando i colleghi hanno respinto a maggioranza un alunno privo di aiuti familiari e con seri problemi, lei ha scritto e fatto tutto ciò che poteva, ma poi non le è restato che piangerne impotente: con te sarebbe stato diverso, mi ha detto con voce spenta. Allora il padre del ragazzo la rincuorava dicendole tu maestra Monica, ce la fai tu l’iscrizione a Roberto per l’anno prossimo? Faccela tu, ci sei l’anno prossimo, non scherzare mica te ne vai lo lasci solo a Roberto? Se ci stai tu è tutt’appost! Allora Monica ha detto che c’era, ma non è per questo che non se ne va in America.

Comunque, per dire com’è Monica, e con questo mi fermo, ebbene quando Michele, un pittore dotato e un po’ toccato, le ha chiesto di leggere brani di Dostoevskij mentre lui disegnava lì, in libreria, ebbene, che ha fatto Monica? Siccome l’idea le è piaciuta un casino, ha passato i due giorni successivi a selezionare i brani da leggere, e quando l’ha richiamato per dire che era pronta, che, sì, aveva accuratamente selezionato soprattutto da Memorie del sottosuolo; ebbene Michele dopo due giorni del progetto non ricordava praticamente più nulla: cancellato, perso, assorbito nei meandri di quella sua meravigliosa testa, dietro quel volto dagli occhi tagliati d’azzurro e dai lineamenti simmetrici, dentro quel corpo slanciato e proporzionato, tra le spalle larghe da nuotatore e le braccia da ragazzino. Il progetto era finito da qualche parte, sprofondato tra i suoi capelli lunghi e ormai bianchi, con quel portamento regale, sempre elegante, qualsiasi capo indossi. E allora Monica me l’ha raccontato e ha riso. Ha riso tanto come fa lei quando qualcosa la diverte. Ha riso rumorosamente di leggerezza e partecipazione alla follia di Michele, e la gente al tavolino di via Mazzini si destava e voltava curiosa di quella curiosità generata dall’allegria che fa un po’ invidia e un po’ contagio. Ha riso della follia di Michele e della nostra, che poi non è dissimile da tutte le follie di cui è costituito il Cosmo, così com’è costellato di lontani pianeti e stelle e possibilità infinite. Ha riso finché non è arrivato Paolo il fotografo che spesso è lì, al tavolo del bar, e ha detto: ciò, ma si può sapere, voi due scribacchin, che c’è da ridere così tanto? E allora noi ci siamo guardati negli occhi e abbiamo risposto: niente, però abbiamo continuato a ridere tanto e capita che ancora ne ridiamo.