Verso Portomaggiore

*Articolo comparso nella rubrica Racconti viandanti per La Nuova Ferrara del 29/11/2022

È ormai una regola, quando giro in pianura, quella di evitare le strade a scorrimento veloce, oppure le strade nuove e dritte, le autostrade, per cercare le vecchie statali che collegano i paesi. Ho imparato nel tempo che occorre diffidare delle rette, che sono il portato di uno sguardo altro. Le rette, come scrive Franco Farinelli, trattano i luoghi come spazi, la terra come semplice superficie, e – un po’ come fa la ragione – tendono a ridurre il mondo a oggetto, a pianificare e progettare, travolgendo, con la loro visione uniforme, tutto ciò che è ricco e molteplice. E poi questo paesaggio sommesso, se attraverso le rette risulta intraducibile, lungo i corsi d’acqua cambia sorprendentemente. Cambiano i casolari squarciati e abbandonati con i cartelli vendesi, cambiano gli abitati invecchiati, le villette bifamiliari assiepate, gli autovelox, le trattorie, i bar, e il rapporto con l’acqua e la terra. È in queste vie che la pianura rompe la monotonia bidimensionale per riappropriarsi di volume e senso.

Oggi da Ferrara la strada mi conduce verso sud, a Portomaggiore, meno di trenta chilometri di vie sinuose e alberate che collegano le frazioni con i paesi circostanti e compongono una fitta rete. Sono diramazioni che configurano la provincia orientale e se non fossi passato per Quartiere e Gambulaga, o per Runco, non avrei capito il ruolo che Portomaggiore riveste nella zona. Insieme a Ostellato e Argenta, Porto delimita la grande bonifica della Valle del Mezzano. Qui, nei luoghi delle terre emerse e di delicato equilibrio idrogeologico, Portomaggiore, come Ripapersico, Porto Verrara, Consandolo, possiede un nome evocativo che rimanda al passato palustre, a quell’antico ramo di valli collegato all’Adriatico, agli etruschi di Spina, tra fiumi scomparsi di cui non resta traccia se non nelle vecchie mappe e, appunto, nei nomi: Sandalo, Persico.
Quella di Porto poi, sarebbe anche una storia di fossi, argini e contese, di margini e confini mutevoli che ne fanno un ennesimo paese di una frontiera ormai invisibile, tra estensi e papalini, ma non solo. La geografia ha dettato ancora una volta i tempi, e il paese, per via della linea ferroviaria collegata a Bologna, Ferrara, e Ravenna, è stato scelto negli ultimi trent’anni da nutrite comunità pachistane, marocchine, slave. È perciò paese-margine, ma a sua volta centro cittadino del contado. E se oggi conta circa 12000 abitanti, nemmeno con i copiosi afflussi dal sud e dall’estero è riuscita a tornare alla città di quasi 18000 abitanti che era tra le due guerre, prima del boom economico. Dal 1960 anche qui la decrescita, dovuta allo stile di vita, al massiccio urbanesimo verso il triangolo industriale, come nel resto d’Italia, ha fatto il suo corso. La mobilità, la disponibilità di immobili, la vocazione agricola e industriale, agiscono però come forza centripeta e attraggono nuovi abitanti. 

Comunque sia, stamane a Portomaggiore il cielo è coperto e un vento meridionale spira dagli Appennini. Mi aggiro raggrinzito, di sabato, nella piazza di fronte al Comune in cerca di qualcuno con cui parlare. Un po’ imbranato, comincio a fermare i passanti a caso, parto dagli anziani, uno di loro tratteggia una realtà fosca, di confusione e rovina, per concludere col problema delle foglie, dice cioè che i netturbini non raccolgono il fogliame, per cui è costretto a tenersi le sporte nel giardino. Dopo un po’ cerco un secondo gruppo di anziani, il signore in questione si giustifica dicendo di venire da San Nicolò per poi cominciare a raccontare una storia su una sua casa in costruzione e dei muratori di Berra, e via dicendo. Allora passo ai giovani baristi lungo il corso, uno di loro viene da Gallo e sostiene che all’inizio addirittura si perdeva in auto in un paese così grande, che ci si sta bene, tutto sommato, dipende dalla prospettiva. 
A questo punto, con in mente Terzani o Chatwin, avvicino una signora africana, la quale vive qui da quarant’anni e rimpiange un tempo pieno di giovani che passeggiavano lungo il viale della stazione. 
Nonostante i risultati, insisto, fermo un giovane pachistano fumante, lavora in azienda di fragole a Lagosanto, parla poco e mi pare capisca ancora meno. Poi, è la volta di un adolescente venuto dal’Abruzzo, infine, due giardinieri marocchini di Pincara che curano il verde pubblico. 
Oltre ai passanti presi a caso, in maniera un po’ improvvisata, per giunta avendo dimenticato a casa il taccuino, finisco per annotare la seguente serie di punti sulla mano che vado a trascrivere e ampliare per concludere:
A Quartiere, direzione Voghiera, nelle campagne della pianura si vedono in lontananza piccole chiese di una bellezza particolare, è forse la bellezza di luoghi una volta dal potere immenso, dunque la bellezza del passato sconfitto, a cui si guarda con indulgenza solo perché divenuto innocuo.
A Porto ci si perde, è vero, ha ragione il barista di Gallo, il paese non ha una vera e proprio forma, è custodito in un anello circolare ordinato, ma poi c’è qualcosa al suo interno che confonde. 
Il Municipio con i portici e il tetto alla francese, circondato dai tanti palazzi degli anni ’50-’70, in mezzo a vecchie case basse da contadini, mostra il disordine architettonico proprio dei paesi feriti e ricostruiti. Sono il portato di terribili e credo inutili bombardamenti dell’aprile del ’45. Muoiono un migliaio di cittadini. E muore, per sempre, il corpo antico del paese. La speculazione in Italia vive di catastrofi.
Gran lavoro della Biblioteca dedicata a Peppino Impastato e gestita prima da Patrizia e ora da Alice, gran lavoro del Comune per arginare frizioni inevitabili, malumori, incomprensioni, tra le varie e diversissime anime della città vecchia e nuova.
Invisibile, almeno stamane, la rivalità con Argenta. 
Invisibili sono i grandi scioperi della fine dell’800 e inizio ‘900, le proteste contro gli agrari, i crumiri. 
Invisibili e ultimi, ancora una volta, dannati come i braccianti di Porto, Molinella, Medicina, attirati qui da ogni dove per via delle bonifiche e della terra. 
Forse Portomaggiore stesso è un paese invisibile, fatto di storie che non si vendono, non alla moda, di acque e persone svanite, fiumi estinti, un paese accumulo di varie sottrazioni, dove come al solito si vede solo quel che resta. 
Vado verso l’auto, i due marocchini di Pincara salutano, sono lì che puliscono con attenzione, senza sapere bene cosa sia, il Monumento ai Caduti. Il vento si è calmato, il cielo è aperto come Portomaggiore di sabato mattina.