I vaganti della pianura

di Sandro Marchioro

*Articolo uscito in precedenza sulla rivista Rem

Che non ci sia “niente da vedere” nel Polesine che Sandro Abruzzese percorre in lungo e in largo è ovviamente una provocazione che ogni pagina di questo libro accende. Titolo e sottotitolo (Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati – Con un racconto fotografico di Marco Belli, Rubbettino Editore, 2022) contengono in effetti molte indicazioni su quali siano le qualità di questo testo: il termine “vedere” è fondamentale, ad esempio, perché lo sguardo di Abruzzese mi pare sia una costante dei suoi libri, direi un desiderio di profondità che contrasta fortemente con il racconto superficiale a cui siamo abituati quotidianamente dal mondo dell’informazione, ad esempio, ma forse anche dal nostro stesso modo di guardare alle cose del mondo; Abruzzese invece “vede”, ma vede in fondo, non solo nel paesaggio che descrive e nelle suggestioni esistenziali che spesso questo paesaggio racconta (il vuoto, lo spazio aperto, il confine, il limite) ma anche e soprattutto nei meccanismi sociali di questo territorio, nella sua storia, nella sua vita piena delle contraddizioni del presente. E poi c’è quell’altra parola: “cronache”, che dà non solo un indizio di stile (perché in effetti la prima parte di questo libro è una cronaca di viaggio, o, meglio, di vagabondaggio) ma indica una precisa volontà di descrivere e di raccontare, come facevano i buoni cronisti di una volta, ma dico proprio di una volta, quelli del Trecento, i Dino Compagni, i Giovanni Villani, che osservavano, descrivevano, scavavano, raccontavano, e lo facevano con un occhio al mondo e con un altro alla scrittura, allo stile. Poi c’è la parola “Polesine”, che qui indica un territorio più ampio rispetto al Polesine di Rovigo a cui siamo solitamente abituati: e pure questa è una indicazione precisa, mi pare, perché questa visione estensiva del Polesine è corretta non solo dal punto di vista geografico, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, dato che chi conosce questa terra sa benissimo quanto il paesaggio sia unico e simile, e come siano uniche e simili le culture, le abitudini, le storie che in questo paesaggio si sono determinate. Ed è unica la trasformazione violenta che in queste terre hanno impresso i meccanismi economici che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento e i primi decenni del nuovo millennio: trasformazione che Abruzzese disegna benissimo con il suo linguaggio apparentemente cronachistico, in realtà profondamente letterario. E su questo mi fermo un attimo: Abruzzese aveva già dimostrato nei libri precedenti (Mezzogiorno Padano, Manifesto libri, 2015 e Casa per casa, Rubbettino, 2018) di possedere uno stile ben identificabile che ha la sua cifra più caratteristica nella fluidità con cui scrive, nell’abbondanza e nella precisione lessicale, nel saper incastonare perfettamente la riflessione dentro il narrato; mi sembra che in questo libro lo stile sia ancora più maturato, che sia estremamente nitido e che risulti chiaro anche al lettore più sprovveduto come lo stile (che poi è l’essenza della letteratura) sia lo strumento principale attraverso cui spiegare ciò che si vede, descrivere ciò che si osserva, comprendere la struttura profonda di quello che si muove davanti ai nostri occhi. Nella Prefazione, Angelo Ferracuti richiama, fin dalle prime righe, il nome di Gianni Celati, che il destino ha voluto morisse proprio quando il libro era in tipografia: certo, Celati è dentro questo libro, Celati ha fondato uno stile ed è stato maestro di molti, questo è innegabile, Celati è citato anche in esergo; ma a me pare che lo sforzo di Sandro Abruzzese di “dimenticare” Celati, mentre scrive, sia andato a buon fine, nel senso che il taglio, la costruzione del testo, la conduzione della scrittura sono pienamente di Sandro Abruzzese e, pur imparando dai maestri, non mimano nessuno e arrivano a dimostrare una personalità piena e pienamente autonoma. 

Restando ancora ad analizzare il titolo, c’è una specifica sotto di esso: “con un racconto fotografico di Marco Belli”. Vorrei dedicare qualche riga a questo: Marco Belli non è solo l’autore delle fotografie inserite nel testo e che accompagnano il racconto di Abruzzese. E’ molto di più. Marco e Sandro si conoscono e si frequentano da tempo, fanno tutti e due gli insegnanti, vivono entrambi in area ferrarese, hanno pubblicato entrambi dei libri che hanno avuto un buon riscontro. Marco entra spesso nel testo, ma non come l’autore delle fotografie soltanto: Abruzzese lo fa diventare un personaggio del suo racconto, forse il personaggio intimamente più importante perché è un supporto fondamentale allo sguardo sulla pianura, perché Marco in queste terre ci è nato e Sandro invece ci è arrivato da lontano, perché è il suggeritore di tante situazioni e perché, con l’umanità di Marco, Sandro si confronta continuamente. E se il Marco-personaggio ha una funzione in parte maieutica in determinate situazioni, il Marco-fotografo aggiunge una visione precisa e carica di suggestioni alle parole dell’autore. 

Ma entriamo adesso nel testo. Lo abbiamo detto: è una cronaca di vagabondaggio nelle terre del Polesine di Rovigo e di Ferrara. Ma non è solo questo. O meglio: è questo per tre quarti: perché ad un certo punto il viaggio si interrombe. O meglio: si interrompe il vagabondaggio ed inizia invece un viaggio. Ma ne parleremo più avanti. 

Il vagabondaggio, appunto, era iniziato dalla provincia di Rovigo, in particolare da quei piccoli borghi nei dintorni di Adria che oggi vivono uno spopolamento radicale, nei quali tuttavia si respira un’atmosfera assolutamente unica: ma è proprio in questo spopolamento, che spesso assomiglia alla desolazione, che Abruzzese infila descrizioni e analisi che raccontano questi ambienti con deliziosa capacità analitica. “La scala per il cielo di Villanova Marchesana”, “Le assenze di Adria”: sono i titoli dei primi capitoli che ci aiutano ad entrare nel testo con delicatezza ma senza incertezza alcuna. Perché nel raccontare questi territori l’autore va diretto al punto ed anche quando descrive nel modo più semplice una barista cinese che lavora in uno di questi piccoli borghi, è sempre chiaro e limpido il tema della trasformazione e del cambiamento traumatico di queste realtà da paesi agricoli con una propria identità ad agglomerati comunitari compositi, contraddittori e soprattutto desolati. Tuttavia, in queste descrizioni, Abruzzese non sembra attratto dalla sociologia, piuttosto la sua è una descrizione che porta con se una analisi schiettamente politica. E’ una delle chiavi del libro, questa: la presenza di un’analisi politica di quello che Sandro vede intorno a se: attenzione, non ideologica, ma veramente e profondamente politica, di quella politica di cui avremmo un gran bisogno oggi e che è la descrizione in chiave critica di quello che avviene in una comunità. Il vagabondare dei nostri due protagonisti (anche lo stesso Abruzzese, oltre a Belli, diventa pagina dopo pagina “personaggio” del libro) continua in altre località: Papozze, Ariano, Polesella, Bottrighe, Boccasette, e poi verso il ferrarese, Tresigallo, Massa Fiscaglia, Bondeno, Stellata, senza dimenticare di fermarsi a descrivere anche le strade (un capitolo è intitolato: “Sulla provinciale”) ed il rapporto complesso della pianura con le città e con le periferie e, soprattutto, di quella cultura dell’ ”essere qualcosa” che caratterizza, oggi, il rapporto città-borghi. Le persone che incontra diventano parte integrante del discorso politico di Abruzzese, sono pienamente funzionali alla descrizione di quel mondo, di quella comunità e delle sue contraddizioni: penso alla barista cinese di cui abbiamo detto prima, al suo allievo Baldoni, a Sofia, a Cristiano che, incontrato a Magnolina, dice cose bellissime su questa terra: “Il Polesine è palude, e della palude ha conservato l’attitudine a nascondere, la terra dei fuggitivi, di chi si sottrae. Il segreto dei fuggiaschi è il silenzio e, nel fango, nelle sabbie mobili, paludose, ci si sporca, se non si è attenti, si rimane dentro. Se vuoi sapere cos’è il Polesine pensa al fango: nel fango non puoi saltare a lungo né agevolmente, bisogna essere leggeri nel fango, avere poche pretese, nel fango. Questa è rimasta palude, qui le persone non amano svelarsi, sono abituate ai propri recessi, e non si può capire tutto questo essendo di passaggio. Devi tornare e ritornare, ma attento, nelle sue sabbie mobili rischi la vita. Devi muoverti lentamente, perché per uscire dalle sabbie, lo sai no, occorrono gesti lenti” (pag.27). Bellissima, direi. E magistrale la capacità di dare forma di scrittura a questo discorso, ovviamente orale in origine, di Cristiano.

Spesso si ha la sensazione, seguendo il filo delle riflessioni di Abruzzese, che questo suo testo abbia uno spessore di pensiero che sgorga anche dalla biografia dell’autore, “immigrato” in questa terra e quindi sensibile non solo al tema dell’accoglienza, dello spaesamento, ma anche portato ad indagare i luoghi, la loro essenza, la ricerca di senso che ci caratterizza quando li abitiamo e li viviamo. Citiamo: “[…] un luogo, qualsiasi luogo, è sempre un posto come un altro. E’ sempre importante o insignificante, privo di radici e fondante. Un luogo è il suo senso, annotavo, ma anche il senso che noi siamo in grado di attribuirgli attraverso la sua storia e il nostro attraversamento. Dunque, tutti i luoghi palesano, in maniera peculiare, un’esperienza. Solo che in alcuni è manifesta ed esteriore, in altri è complessa e stratificata” (pag 75).

Ma non vorrei aver dato l’impressione che questo testo sia tutto razionalità e niente cuore: di cuore, e di poesia, nel senso più pieno del termine, ce n’è molta, ed è perfettamente funzionale a descrivere l’umore di certi paesaggi, la loro bellezza, la loro forte carica di suggestione. Permettete un’altra citazione, tratta dal capitolo “Porto Garibaldi e il paese anfibio”, pag. 79, dove si parla di Comacchio: “Eppure i suoi dintorni sono ancora in prevalenza un unico mondo, completo e totale, in cui a guardarci è il nostro primordiale enigma. Le lagune e il Mezzano sono terre velate dall’assenza umana, di segretezze e mistero. E così spingono ad andare indietro, talmente indietro da arrivare alla nostra stessa assenza, per scoprire che il mondo c’era anche senza di noi, e che quindi l’essere umano non ha alcuna vera patria, per questo si aggrappa disperatamente a ciò che è familiare”. Anche quando Abruzzese pesta sul pedale della lirica, come si vede, è sempre pianamente lucido e profondo, e questa è una caratteristica costante del testo, che fa presa sul lettore e lo tiene sempre molto vicino alla voce dell’autore.

La pandemia interrompe le esplorazioni dei due amici e inizia l’isolamento. Ed inizia anche un altro libro, come dicevamo più sopra. A questo punto il testo ha uno scarto, vira, diventa stilisticamente qualcosa di diverso eppure, pur avvertendo lo stacco, si rimane attaccati al testo e si continua a leggere un libro di viaggio: non più in una pianura vasta costellata di paesi semi abbandonati, ma dentro se stessi, dentro l’incomprensibilità dell’isolamento, dentro le contraddizioni di una comunità o forse, in senso più ampio, di una civiltà. Questa seconda parte, delizioso scavo sulla società “pandemica”, è divisa in due sezioni che hanno, anche in questo caso, titoli scelti con molta attenzione: “Pastorali della quarantena” e “Fuori-luogo”. Vale la pena di ricordare che i “pastorali” sono un genere letterario specifico che ha avuto molto successo tra quattrocento e settecento, diventando anche un genere musicale di grande impatto in quelle società. Lo dico perché anche in questo caso, mi pare, la musica della prosa e la specificità letteraria del lavoro di Abruzzese sono il frutto di un lavoro molto attento e scrupoloso sulla parola, sulla sintassi, sulla strutturazione del testo. Il “mondo chiuso” (pag. 111) che ora l’autore si trova a descrivere, si contrappone al mondo aperto, agli spazi larghi della prima parte del libro: ma è un mondo chiuso che non si svuota di senso, o il cui senso non viene mai coperto dall’angoscia della situazione, perché la luce che viene dall’intuito indagatore dell’autore illumina ogni angolo buio, ogni spazio soffocato dalla chiusura: una chiusura che diventa un pretesto per indagare i muri che ci circondano, di qualsiasi materia siano costruiti, e che permette di pensare a tutto ciò che si muove oltre quei muri, cercando ragioni, senso, relazioni, mutazioni, traumi e speranze. Ecco una citazione significativa: “La vita ridotta a un fatto privato, privo di incontri, rimanda al coprifuoco delle dittature studiate sui libri. Per esempio, finalmente capisco l’eros morboso e decadente dei romanzi di Borgese e Alvaro. Essere isolati vuol dire imbrigliare i desideri, da cui la morbosità dei sentimenti, e vuol dire provare la spinta sovversiva a tramare per capovolgere tutto, fare della vita un fatto intimamente privato e politico. Una volta reclusi, il mondo si fa così piccolo da esserci spazio solo per gli amanti, per i rivoluzionari, per i risorgimenti e le resistenze, dunque per i loro avversari e aguzzini che richiamano all’acquiescenza” (pag. 114). Le ultime due righe di questa citazione sono bellissime: non solo per una questione di forma, ovviamente, ma perché leggono il nostro presente con un acume fuori del comune: di libri sulla pandemia ne sono usciti a decine: ma di quelli che ho letto questo mi pare capace davvero di dire qualcosa di nuovo su quello che è successo nei mesi scorsi e che ancora oggi sta succedendo. Costruire un libro così, facendo succedere ad un viaggio in movimento un viaggio da fermo, significa avere non solo una lucidità costruttiva fuori dal comune, ma anche possedere una forza di pensiero ed una capacità di lettura dei territori (di tutti i territori: fisici, interiori, delle comunità, della società e della cultura) non ordinaria e non certo diffusa: “Mi rifugio nel pensiero di luoghi inesistenti – scrive l’autore a pag. 115 – viaggi mai svolti, eppure appaiono più veri di qualsiasi realtà: ci sono strade, piazze, monumenti, edifici, con l’idea dell’ordine fondamentale, in cui giornali, tv, talk-show, fake news, shit storming, profili dormienti, sono agili strumenti di democrazie come dispositivo per ammansire la massa”. Una tendenza che, nel suo percorso di scrittore, Sandro Abruzzese ha sempre contrastato pienamente, trovando, in questo denso “Niente da vedere”, un approdo che, probabilmente, è solo attesa di altro da vedere.