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I vaganti della pianura

di Sandro Marchioro

*Articolo uscito in precedenza sulla rivista Rem

Che non ci sia “niente da vedere” nel Polesine che Sandro Abruzzese percorre in lungo e in largo è ovviamente una provocazione che ogni pagina di questo libro accende. Titolo e sottotitolo (Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati – Con un racconto fotografico di Marco Belli, Rubbettino Editore, 2022) contengono in effetti molte indicazioni su quali siano le qualità di questo testo: il termine “vedere” è fondamentale, ad esempio, perché lo sguardo di Abruzzese mi pare sia una costante dei suoi libri, direi un desiderio di profondità che contrasta fortemente con il racconto superficiale a cui siamo abituati quotidianamente dal mondo dell’informazione, ad esempio, ma forse anche dal nostro stesso modo di guardare alle cose del mondo; Abruzzese invece “vede”, ma vede in fondo, non solo nel paesaggio che descrive e nelle suggestioni esistenziali che spesso questo paesaggio racconta (il vuoto, lo spazio aperto, il confine, il limite) ma anche e soprattutto nei meccanismi sociali di questo territorio, nella sua storia, nella sua vita piena delle contraddizioni del presente. E poi c’è quell’altra parola: “cronache”, che dà non solo un indizio di stile (perché in effetti la prima parte di questo libro è una cronaca di viaggio, o, meglio, di vagabondaggio) ma indica una precisa volontà di descrivere e di raccontare, come facevano i buoni cronisti di una volta, ma dico proprio di una volta, quelli del Trecento, i Dino Compagni, i Giovanni Villani, che osservavano, descrivevano, scavavano, raccontavano, e lo facevano con un occhio al mondo e con un altro alla scrittura, allo stile. Poi c’è la parola “Polesine”, che qui indica un territorio più ampio rispetto al Polesine di Rovigo a cui siamo solitamente abituati: e pure questa è una indicazione precisa, mi pare, perché questa visione estensiva del Polesine è corretta non solo dal punto di vista geografico, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, dato che chi conosce questa terra sa benissimo quanto il paesaggio sia unico e simile, e come siano uniche e simili le culture, le abitudini, le storie che in questo paesaggio si sono determinate. Ed è unica la trasformazione violenta che in queste terre hanno impresso i meccanismi economici che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento e i primi decenni del nuovo millennio: trasformazione che Abruzzese disegna benissimo con il suo linguaggio apparentemente cronachistico, in realtà profondamente letterario. E su questo mi fermo un attimo: Abruzzese aveva già dimostrato nei libri precedenti (Mezzogiorno Padano, Manifesto libri, 2015 e Casa per casa, Rubbettino, 2018) di possedere uno stile ben identificabile che ha la sua cifra più caratteristica nella fluidità con cui scrive, nell’abbondanza e nella precisione lessicale, nel saper incastonare perfettamente la riflessione dentro il narrato; mi sembra che in questo libro lo stile sia ancora più maturato, che sia estremamente nitido e che risulti chiaro anche al lettore più sprovveduto come lo stile (che poi è l’essenza della letteratura) sia lo strumento principale attraverso cui spiegare ciò che si vede, descrivere ciò che si osserva, comprendere la struttura profonda di quello che si muove davanti ai nostri occhi. Nella Prefazione, Angelo Ferracuti richiama, fin dalle prime righe, il nome di Gianni Celati, che il destino ha voluto morisse proprio quando il libro era in tipografia: certo, Celati è dentro questo libro, Celati ha fondato uno stile ed è stato maestro di molti, questo è innegabile, Celati è citato anche in esergo; ma a me pare che lo sforzo di Sandro Abruzzese di “dimenticare” Celati, mentre scrive, sia andato a buon fine, nel senso che il taglio, la costruzione del testo, la conduzione della scrittura sono pienamente di Sandro Abruzzese e, pur imparando dai maestri, non mimano nessuno e arrivano a dimostrare una personalità piena e pienamente autonoma. 

Restando ancora ad analizzare il titolo, c’è una specifica sotto di esso: “con un racconto fotografico di Marco Belli”. Vorrei dedicare qualche riga a questo: Marco Belli non è solo l’autore delle fotografie inserite nel testo e che accompagnano il racconto di Abruzzese. E’ molto di più. Marco e Sandro si conoscono e si frequentano da tempo, fanno tutti e due gli insegnanti, vivono entrambi in area ferrarese, hanno pubblicato entrambi dei libri che hanno avuto un buon riscontro. Marco entra spesso nel testo, ma non come l’autore delle fotografie soltanto: Abruzzese lo fa diventare un personaggio del suo racconto, forse il personaggio intimamente più importante perché è un supporto fondamentale allo sguardo sulla pianura, perché Marco in queste terre ci è nato e Sandro invece ci è arrivato da lontano, perché è il suggeritore di tante situazioni e perché, con l’umanità di Marco, Sandro si confronta continuamente. E se il Marco-personaggio ha una funzione in parte maieutica in determinate situazioni, il Marco-fotografo aggiunge una visione precisa e carica di suggestioni alle parole dell’autore. 

Ma entriamo adesso nel testo. Lo abbiamo detto: è una cronaca di vagabondaggio nelle terre del Polesine di Rovigo e di Ferrara. Ma non è solo questo. O meglio: è questo per tre quarti: perché ad un certo punto il viaggio si interrombe. O meglio: si interrompe il vagabondaggio ed inizia invece un viaggio. Ma ne parleremo più avanti. 

Il vagabondaggio, appunto, era iniziato dalla provincia di Rovigo, in particolare da quei piccoli borghi nei dintorni di Adria che oggi vivono uno spopolamento radicale, nei quali tuttavia si respira un’atmosfera assolutamente unica: ma è proprio in questo spopolamento, che spesso assomiglia alla desolazione, che Abruzzese infila descrizioni e analisi che raccontano questi ambienti con deliziosa capacità analitica. “La scala per il cielo di Villanova Marchesana”, “Le assenze di Adria”: sono i titoli dei primi capitoli che ci aiutano ad entrare nel testo con delicatezza ma senza incertezza alcuna. Perché nel raccontare questi territori l’autore va diretto al punto ed anche quando descrive nel modo più semplice una barista cinese che lavora in uno di questi piccoli borghi, è sempre chiaro e limpido il tema della trasformazione e del cambiamento traumatico di queste realtà da paesi agricoli con una propria identità ad agglomerati comunitari compositi, contraddittori e soprattutto desolati. Tuttavia, in queste descrizioni, Abruzzese non sembra attratto dalla sociologia, piuttosto la sua è una descrizione che porta con se una analisi schiettamente politica. E’ una delle chiavi del libro, questa: la presenza di un’analisi politica di quello che Sandro vede intorno a se: attenzione, non ideologica, ma veramente e profondamente politica, di quella politica di cui avremmo un gran bisogno oggi e che è la descrizione in chiave critica di quello che avviene in una comunità. Il vagabondare dei nostri due protagonisti (anche lo stesso Abruzzese, oltre a Belli, diventa pagina dopo pagina “personaggio” del libro) continua in altre località: Papozze, Ariano, Polesella, Bottrighe, Boccasette, e poi verso il ferrarese, Tresigallo, Massa Fiscaglia, Bondeno, Stellata, senza dimenticare di fermarsi a descrivere anche le strade (un capitolo è intitolato: “Sulla provinciale”) ed il rapporto complesso della pianura con le città e con le periferie e, soprattutto, di quella cultura dell’ ”essere qualcosa” che caratterizza, oggi, il rapporto città-borghi. Le persone che incontra diventano parte integrante del discorso politico di Abruzzese, sono pienamente funzionali alla descrizione di quel mondo, di quella comunità e delle sue contraddizioni: penso alla barista cinese di cui abbiamo detto prima, al suo allievo Baldoni, a Sofia, a Cristiano che, incontrato a Magnolina, dice cose bellissime su questa terra: “Il Polesine è palude, e della palude ha conservato l’attitudine a nascondere, la terra dei fuggitivi, di chi si sottrae. Il segreto dei fuggiaschi è il silenzio e, nel fango, nelle sabbie mobili, paludose, ci si sporca, se non si è attenti, si rimane dentro. Se vuoi sapere cos’è il Polesine pensa al fango: nel fango non puoi saltare a lungo né agevolmente, bisogna essere leggeri nel fango, avere poche pretese, nel fango. Questa è rimasta palude, qui le persone non amano svelarsi, sono abituate ai propri recessi, e non si può capire tutto questo essendo di passaggio. Devi tornare e ritornare, ma attento, nelle sue sabbie mobili rischi la vita. Devi muoverti lentamente, perché per uscire dalle sabbie, lo sai no, occorrono gesti lenti” (pag.27). Bellissima, direi. E magistrale la capacità di dare forma di scrittura a questo discorso, ovviamente orale in origine, di Cristiano.

Spesso si ha la sensazione, seguendo il filo delle riflessioni di Abruzzese, che questo suo testo abbia uno spessore di pensiero che sgorga anche dalla biografia dell’autore, “immigrato” in questa terra e quindi sensibile non solo al tema dell’accoglienza, dello spaesamento, ma anche portato ad indagare i luoghi, la loro essenza, la ricerca di senso che ci caratterizza quando li abitiamo e li viviamo. Citiamo: “[…] un luogo, qualsiasi luogo, è sempre un posto come un altro. E’ sempre importante o insignificante, privo di radici e fondante. Un luogo è il suo senso, annotavo, ma anche il senso che noi siamo in grado di attribuirgli attraverso la sua storia e il nostro attraversamento. Dunque, tutti i luoghi palesano, in maniera peculiare, un’esperienza. Solo che in alcuni è manifesta ed esteriore, in altri è complessa e stratificata” (pag 75).

Ma non vorrei aver dato l’impressione che questo testo sia tutto razionalità e niente cuore: di cuore, e di poesia, nel senso più pieno del termine, ce n’è molta, ed è perfettamente funzionale a descrivere l’umore di certi paesaggi, la loro bellezza, la loro forte carica di suggestione. Permettete un’altra citazione, tratta dal capitolo “Porto Garibaldi e il paese anfibio”, pag. 79, dove si parla di Comacchio: “Eppure i suoi dintorni sono ancora in prevalenza un unico mondo, completo e totale, in cui a guardarci è il nostro primordiale enigma. Le lagune e il Mezzano sono terre velate dall’assenza umana, di segretezze e mistero. E così spingono ad andare indietro, talmente indietro da arrivare alla nostra stessa assenza, per scoprire che il mondo c’era anche senza di noi, e che quindi l’essere umano non ha alcuna vera patria, per questo si aggrappa disperatamente a ciò che è familiare”. Anche quando Abruzzese pesta sul pedale della lirica, come si vede, è sempre pianamente lucido e profondo, e questa è una caratteristica costante del testo, che fa presa sul lettore e lo tiene sempre molto vicino alla voce dell’autore.

La pandemia interrompe le esplorazioni dei due amici e inizia l’isolamento. Ed inizia anche un altro libro, come dicevamo più sopra. A questo punto il testo ha uno scarto, vira, diventa stilisticamente qualcosa di diverso eppure, pur avvertendo lo stacco, si rimane attaccati al testo e si continua a leggere un libro di viaggio: non più in una pianura vasta costellata di paesi semi abbandonati, ma dentro se stessi, dentro l’incomprensibilità dell’isolamento, dentro le contraddizioni di una comunità o forse, in senso più ampio, di una civiltà. Questa seconda parte, delizioso scavo sulla società “pandemica”, è divisa in due sezioni che hanno, anche in questo caso, titoli scelti con molta attenzione: “Pastorali della quarantena” e “Fuori-luogo”. Vale la pena di ricordare che i “pastorali” sono un genere letterario specifico che ha avuto molto successo tra quattrocento e settecento, diventando anche un genere musicale di grande impatto in quelle società. Lo dico perché anche in questo caso, mi pare, la musica della prosa e la specificità letteraria del lavoro di Abruzzese sono il frutto di un lavoro molto attento e scrupoloso sulla parola, sulla sintassi, sulla strutturazione del testo. Il “mondo chiuso” (pag. 111) che ora l’autore si trova a descrivere, si contrappone al mondo aperto, agli spazi larghi della prima parte del libro: ma è un mondo chiuso che non si svuota di senso, o il cui senso non viene mai coperto dall’angoscia della situazione, perché la luce che viene dall’intuito indagatore dell’autore illumina ogni angolo buio, ogni spazio soffocato dalla chiusura: una chiusura che diventa un pretesto per indagare i muri che ci circondano, di qualsiasi materia siano costruiti, e che permette di pensare a tutto ciò che si muove oltre quei muri, cercando ragioni, senso, relazioni, mutazioni, traumi e speranze. Ecco una citazione significativa: “La vita ridotta a un fatto privato, privo di incontri, rimanda al coprifuoco delle dittature studiate sui libri. Per esempio, finalmente capisco l’eros morboso e decadente dei romanzi di Borgese e Alvaro. Essere isolati vuol dire imbrigliare i desideri, da cui la morbosità dei sentimenti, e vuol dire provare la spinta sovversiva a tramare per capovolgere tutto, fare della vita un fatto intimamente privato e politico. Una volta reclusi, il mondo si fa così piccolo da esserci spazio solo per gli amanti, per i rivoluzionari, per i risorgimenti e le resistenze, dunque per i loro avversari e aguzzini che richiamano all’acquiescenza” (pag. 114). Le ultime due righe di questa citazione sono bellissime: non solo per una questione di forma, ovviamente, ma perché leggono il nostro presente con un acume fuori del comune: di libri sulla pandemia ne sono usciti a decine: ma di quelli che ho letto questo mi pare capace davvero di dire qualcosa di nuovo su quello che è successo nei mesi scorsi e che ancora oggi sta succedendo. Costruire un libro così, facendo succedere ad un viaggio in movimento un viaggio da fermo, significa avere non solo una lucidità costruttiva fuori dal comune, ma anche possedere una forza di pensiero ed una capacità di lettura dei territori (di tutti i territori: fisici, interiori, delle comunità, della società e della cultura) non ordinaria e non certo diffusa: “Mi rifugio nel pensiero di luoghi inesistenti – scrive l’autore a pag. 115 – viaggi mai svolti, eppure appaiono più veri di qualsiasi realtà: ci sono strade, piazze, monumenti, edifici, con l’idea dell’ordine fondamentale, in cui giornali, tv, talk-show, fake news, shit storming, profili dormienti, sono agili strumenti di democrazie come dispositivo per ammansire la massa”. Una tendenza che, nel suo percorso di scrittore, Sandro Abruzzese ha sempre contrastato pienamente, trovando, in questo denso “Niente da vedere”, un approdo che, probabilmente, è solo attesa di altro da vedere.

La via Romea come frontiera

Il nostro itinerario all’interno di questo vasto spazio, uno degli ultimi grandi vuoti della pianura padana, non ha particolari mete. Ci aggiriamo a caso con la convinzione che il mondo circostante sia comunque incapace di mentire allo sguardo, per cui nei dintorni c’è sempre qualcosa da vedere che parli di noi e di come effettivamente funziona il mondo. Certo, viaggiare nella pianura, decifrarne i segni, vuol dire innanzitutto attenersi alla realtà concreta. Per cui passare alla rinfusa da Contane, ignorando che si tratti del luogo più basso d’Italia, o veleggiare di soppiatto a Jolanda di Savoia e Mezzogoro, ebbene fa sempre un certo effetto. Da Contane, dove oggi non c’è un filo di vento e il cielo opaco rende la terra ancora più bruna, per strade secondarie, stavolta ci dirigiamo verso il litorale. Sbuchiamo sulla Romea che è una strada particolarmente amata perché vi si costeggiano limiti non solo geografici, ma di un confine invisibile, in cui si sovrappongono elementi, e dove il mondo progettato e studiato dallo stato, dalla regione e da chi per loro, si affievolisce del tutto. 

La Romea è un confessionale ibrido, ribadisce il divano blu elettrico abbandonato sotto la pensilina di un distributore di metano. Un luogo dove la pianura, anche la più reticente, si confessa, e dove l’omogeneo e l’uniforme vi si compiono e falliscono a un tempo, oppure dove le illusioni cittadine, mondane, lasciano il posto a una buona dose di franchezza, per cui nel paesaggio inerme, spuntano trame sotto traccia e disfunzioni, come la discarica clandestina appena sequestrata qui di fianco, a Lagosanto. Non sono solo gli incidenti, la pericolosità di questa arteria, bensì le variabili e le intenzioni che si incrociano in questo punto-limite a raccontare l’Italia. È un posto per i segreti, per i rifiuti, per il proibito, la Romea. È il posto giusto per far perdere le proprie tracce, per pentiti di mafia, traffici o amori clandestini. Vi si può mangiare e dormire facilmente, anzi la vita vi prende come un sapore di accessibilità, per inciso dequalificata, tirata all’osso, flessibile, ma è pur sempre sopravvivenza ed espletamento di bisogni fisiologici primari. Motel a basso costo, camere a ore, cibo a basso costo, cibo a tutte le ore. Sesso a basso costo. Droga, supermercati. Tutto il mondo com’è e come accade, passa per la frontiera che è la Romea e vi si fonde. E tutto ciò che si trova oltre questa strada, verso il mare, a Boccasette, Scardovari, fino all’Isola dell’Amore o alle Vene di Bellocchio, rappresenta un’altra storia, fatta di cieli ancora più ampi, di campi se possibile ancora più sconfinati, di geometrie e forme che rimandano a un continuo altrove. 

Di questo e altro, dopo una mattinata di osservazione disordinata, mentre a fianco al nostro tavolo due amanti litigano e due vecchi migranti partenopei conversano col loro nipotino alternando il tedesco e il napoletano, discutiamo in osteria con Marco. Guardiamo le foto, decidiamo il da farsi, e dopo un po’ litighiamo pure noi, e sul Sessantotto, per giunta. Lui difende le forme libertarie e anarchiche, rimpiange un’Italia d’avanguardia. Io invece in quella divisione, nella velocità dell’avanguardia urbana, ritrovo l’abbandono delle retroguardie e delle province, e l’incapacità di camminare insieme, di radicarsi per non lasciare nessuno indietro, anzi di essere compatti e solidali fin nelle lande più remote del paese, proprio come questi luoghi. Anche in questo diverbio conta l’esperienza e la provenienza, è il dialogo tra un cittadino e un paesano, tra un settentrionale e un meridionale, e prova ancora una volta l’importanza e la necessità di incrociare le prospettive secondo una reciprocità essenziale alla comprensione delle parti come tutto. Una subcultura della frammentazione, invece, un’analisi continua e univoca delle parti, senza più sintesi, è questa la morsa che non lascia scampo all’Italia di oggi. Ed è per questo che il vuoto della pianura, la sua parte più debole e eterogenea, può aiutare a comprendere la realtà nazionale. È una prospettiva senza voce, o al limite con una voce letteraria, ma senza il politico e sociale.

È già ora di rientrare. Lungo la strada ripensiamo alla giornata. Nella mente ormai la Romea è un grumo in cui si addensano scarti e resti: venditori ambulanti, canali, rimesse, veicoli in panne, zucche e sacchi di patate, pattume. È un confine di cui resta questo suo essere sintesi, quasi una cerniera meticcia di campi agricoli e spiagge adriatiche. La ripetitività desolata della monocoltura del Mezzano e quel pieno stagionale dei vacanzieri ai Lidi, appaiono comunque due mondi a loro modo reificati, a senso unico, e quindi in grado di smarrire qualsiasi reale senso. La Romea separa e attraversa questa riduzione bipolare del mondo, in cui la modernità è a un tempo applicata e sospesa, così da generare attraversamento e vuoto. Se il Mezzano è privo di vita umana e insediamenti, i Lidi sono semi vuoti in inverno.

Di rientro, dopo aver camminato per qualche chilometro su una striscia di terra in mezzo alla laguna comacchiese, attraversiamo il Mezzano all’imbrunire, tra nutrie e fagiani, tra strade sconfinate degne di una canzone di Springsteen. Qualcuno, su una casupola grigia, con dello spray nero, ha scritto “Duce idiota”. Ci lasciamo alle spalle la laguna grigia, sempre più scura per via del sole calante dietro l’arco appenninico. 

La sensazione è che chiunque, in questi luoghi, per come sono stati concepiti, possa essere solo un ospite, e che il provvisorio, sotto forma enigmatica e misteriosa, regni incontrastato, anzi, addirittura incomba. Il resto lo farà il mare, con la sua avanzata lenta, impercettibile quanto incontrastabile, sarà lui a riprendersi definitivamente l’estremo limite della pianura.

sandro abruzzese

Viaggio a Serravalle

Il paesaggio padano, quello della locomotiva economica del Belpaese, verso il limite estremo della pianura finisce per tradire quella sua aura protestante dovuta all’esasperato funzionalismo produttivo, per lasciare spazio ai resti, all’ibrido, alle deviazioni verso il particolare. E i particolari, dando luogo alle contro-condotte più esasperate, svelano i recessi e il recondito dei luoghi. Ecco perché da Francolino, da Copparo o Argenta, andare verso oriente significa varcare soglie invisibili che parlano dell’Italia tutta, non solo della parte più ricca e efficiente, di solito gremita di capannoni industriali. Qui la pianura, proprio perché molteplice, si mostra più fragile e sincera. 

La golena di Serravalle, per esempio, stretta com’è tra Santa Maria in Punta e Papozze, laddove il Po si ramifica in due tronconi, quello di Venezia e di Goro, è uno dei tratti più suggestivi del Parco del Delta. La golena è fitta di boschi e, anche qui, come a Borgo Santa Maura a Polesella, chiuso il ristorante che molti rimpiangono, a gestire i bungalow e il molo delle barche è un signore tedesco che vive sul fiume tutto l’anno. Lo cerchiamo ma stavolta siamo sfortunati.

Sul molo ci accompagnano Sergio e Elisabeth. Sergio fa cenno di guardare in alto, in cima a un palo che funge da padimetro svetta il livello spaventoso della piena del Po del 2000. 

Sergio, orafo e ceramista, uruguaiano trapiantato per amore di Elisabeth sulla riva destra del Po sedici anni fa, ci dice che i vecchi qui vivono in maniera essenziale, acquistando il poco che non sono in grado di produrre. Si accontentano di sopravvivere, a volte. Non rinunciano al lavoro. Per loro non è un problema. È vita, il lavoro. Anche la fatica, il sudore, è vita. Quello che ti restituisce qualcosa, però. C’è una cesura generazionale tra il mondo agricolo, artigianale e i ragazzi di oggi che, invece, sono simili a quelli di qualsiasi altro posto: hanno il profilo Instagram, il corpo tatuato, lo stesso taglio di capelli dei milanesi o dei romani, affollano le bacheche con i selfie e le foto delle sere passate in discoteca. È a loro che occorre rispondere, alle loro legittime aspirazioni. Così a volte viene meno la continuità, anche se il lavoro ci sarebbe, non sempre c’è chi vuole portarlo avanti, soprattutto nelle aziende agricole dei dintorni.

Ho raccontato altrove (CasaperCasa, Rubbettino 2018) la storia di Sergio, l’emigrazione dall’Uruguay all’Argentina, i difficili anni dell’Argentina, l’approdo a Bologna. Con Elisabeth, che a Serravalle è nata e cresciuta, hanno scelto di crescere qui i propri figli. Sergio ha rinunciato a fare l’orafo, la filiera della ceramica moralmente gli restituisce sonni più tranquilli, dice, e ricorda la frase di Gandhi che ama: “Dobbiamo essere noi il cambiamento”. 

Inoltre, a Serravalle ha imparato, dal padre di Elisabeth, agricoltore, a fare un po’ di tutto, e a sua volta lui ha portato i suoi valori ecologisti nella campagna ferrarese. Da qui, per ridare fiato alla terra, il progetto di un bosco di bambù, una pianta che risana l’ambiente. 

Andiamo in piazza. Marco fotografa il campanile, in cima alla guglia c’è una palla che sta per cadere, indica. Io invece mi soffermo sull’edificio in cemento armato, una sorta di architettura da socialismo ferrarese piena di pilastri. 

Riprendiamo a girare, con lo sguardo cerco uno scivolo, un parco, qualcosa di costruito e pensato per ragazzi e bambini, niente. O meglio, ci sono i bar, ne ho contati almeno cinque, i tabacchi, bed and breakfast, insomma c’è tutto ciò che si trova o che manca nei paesi di oggi. 

Ma forse più che dall’interno, è da fuori che si può dire qualcosa di più su Serravalle. Dall’esterno si nota che l’area artigianale e industriale, del cui tessuto fanno parte aziende importanti anche a livello internazionale, si sposa quasi senza soluzione di continuità con i campi coltivati. Da fuori si notano poi i ponti sui canali, ne attraversiamo uno in ristrutturazione da tempo e ad accesso limitato. 

Serravalle dunque si fa più lontana anche per via di una viabilità non sempre adeguata. A risentirne è il suo comparto industriale, sono i cittadini che percorrono strade non sempre sicure. In fondo, Serravalle mostra questo suo doppio volto: l’incontro tra una civiltà agricola e artigiana, autosufficiente; e l’industria, anche a carattere internazionale, per cui occorrerebbe competere, avere istituzioni e politiche adeguate alle continue sfide del mercato. Il paesaggio rurale poi, qui, come dappertutto, non deve ingannare: all’inquinamento dell’aria, delle acque, dei terreni, ai danni subiti dalla pianura più industrializzata d’Europa, non si sfugge. Il paradosso venuto a crearsi è che i paesi della pianura patiscono gli stessi problemi di inquinamento delle aree urbane, senza averne in cambio i servizi. 

C’è il tempo per parlare della Pro Loco, che è vivace, attiva, per una visita alla diroccata Villa Giglioli, un luogo evocativo della storia agraria padana, dove conosciamo un conte senza più contea, che subito ci corregge: “In Italia i titoli sono stati aboliti”. 

Di nuovo in cammino, ripensiamo alla giornata trascorsa: se da una parte in provincia ci sarebbe la possibilità di applicare una nuova cultura ecologista, di essere e fare altro, più liberi e autonomi, più giusti e solidali, dall’altra questo trovarsi nell’interdipendenza eterodiretta dai centri di potere la rendono inerme ingranaggio di una macchina burocratica lontana e indifferente. Anche così la provincia finisce per sognare gli stessi sogni di grandezza delle città e delle tv, dunque è nell’immaginario che si smarrisce. I paesi, senza servizi, senza lavori che rispondano alle aspirazioni giovanili, diventano località smunte. Se i giovani se ne vanno, nessuno può cambiare più nulla. All’orizzonte, nessuna emancipazione. In questo modo, la provincia italiana finisce per diventare retroguardia e Vandea, ovvero il bacino della reazione, in cui ci si aggrappa alla xenofobia, ai discorsi identitari o territoriali, se ne strumentalizzano i disagi fino ad arrivare – è il caso dei fatti della vicina Goro del 2016 – a respingere con le barricate e i sit-in un gruppo di profughi destinati all’ostello del paese.

Il fatto è che vedere che cos’è diventata la provincia oggi è molto più facile che comprenderne le cause e i vari livelli di responsabilità. Forse la domanda vera è: chi e cosa produce la provincia com’è oggi?