Etichettato: pianura

I vaganti della pianura

di Sandro Marchioro

*Articolo uscito in precedenza sulla rivista Rem

Che non ci sia “niente da vedere” nel Polesine che Sandro Abruzzese percorre in lungo e in largo è ovviamente una provocazione che ogni pagina di questo libro accende. Titolo e sottotitolo (Niente da vedere. Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati – Con un racconto fotografico di Marco Belli, Rubbettino Editore, 2022) contengono in effetti molte indicazioni su quali siano le qualità di questo testo: il termine “vedere” è fondamentale, ad esempio, perché lo sguardo di Abruzzese mi pare sia una costante dei suoi libri, direi un desiderio di profondità che contrasta fortemente con il racconto superficiale a cui siamo abituati quotidianamente dal mondo dell’informazione, ad esempio, ma forse anche dal nostro stesso modo di guardare alle cose del mondo; Abruzzese invece “vede”, ma vede in fondo, non solo nel paesaggio che descrive e nelle suggestioni esistenziali che spesso questo paesaggio racconta (il vuoto, lo spazio aperto, il confine, il limite) ma anche e soprattutto nei meccanismi sociali di questo territorio, nella sua storia, nella sua vita piena delle contraddizioni del presente. E poi c’è quell’altra parola: “cronache”, che dà non solo un indizio di stile (perché in effetti la prima parte di questo libro è una cronaca di viaggio, o, meglio, di vagabondaggio) ma indica una precisa volontà di descrivere e di raccontare, come facevano i buoni cronisti di una volta, ma dico proprio di una volta, quelli del Trecento, i Dino Compagni, i Giovanni Villani, che osservavano, descrivevano, scavavano, raccontavano, e lo facevano con un occhio al mondo e con un altro alla scrittura, allo stile. Poi c’è la parola “Polesine”, che qui indica un territorio più ampio rispetto al Polesine di Rovigo a cui siamo solitamente abituati: e pure questa è una indicazione precisa, mi pare, perché questa visione estensiva del Polesine è corretta non solo dal punto di vista geografico, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, dato che chi conosce questa terra sa benissimo quanto il paesaggio sia unico e simile, e come siano uniche e simili le culture, le abitudini, le storie che in questo paesaggio si sono determinate. Ed è unica la trasformazione violenta che in queste terre hanno impresso i meccanismi economici che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento e i primi decenni del nuovo millennio: trasformazione che Abruzzese disegna benissimo con il suo linguaggio apparentemente cronachistico, in realtà profondamente letterario. E su questo mi fermo un attimo: Abruzzese aveva già dimostrato nei libri precedenti (Mezzogiorno Padano, Manifesto libri, 2015 e Casa per casa, Rubbettino, 2018) di possedere uno stile ben identificabile che ha la sua cifra più caratteristica nella fluidità con cui scrive, nell’abbondanza e nella precisione lessicale, nel saper incastonare perfettamente la riflessione dentro il narrato; mi sembra che in questo libro lo stile sia ancora più maturato, che sia estremamente nitido e che risulti chiaro anche al lettore più sprovveduto come lo stile (che poi è l’essenza della letteratura) sia lo strumento principale attraverso cui spiegare ciò che si vede, descrivere ciò che si osserva, comprendere la struttura profonda di quello che si muove davanti ai nostri occhi. Nella Prefazione, Angelo Ferracuti richiama, fin dalle prime righe, il nome di Gianni Celati, che il destino ha voluto morisse proprio quando il libro era in tipografia: certo, Celati è dentro questo libro, Celati ha fondato uno stile ed è stato maestro di molti, questo è innegabile, Celati è citato anche in esergo; ma a me pare che lo sforzo di Sandro Abruzzese di “dimenticare” Celati, mentre scrive, sia andato a buon fine, nel senso che il taglio, la costruzione del testo, la conduzione della scrittura sono pienamente di Sandro Abruzzese e, pur imparando dai maestri, non mimano nessuno e arrivano a dimostrare una personalità piena e pienamente autonoma. 

Restando ancora ad analizzare il titolo, c’è una specifica sotto di esso: “con un racconto fotografico di Marco Belli”. Vorrei dedicare qualche riga a questo: Marco Belli non è solo l’autore delle fotografie inserite nel testo e che accompagnano il racconto di Abruzzese. E’ molto di più. Marco e Sandro si conoscono e si frequentano da tempo, fanno tutti e due gli insegnanti, vivono entrambi in area ferrarese, hanno pubblicato entrambi dei libri che hanno avuto un buon riscontro. Marco entra spesso nel testo, ma non come l’autore delle fotografie soltanto: Abruzzese lo fa diventare un personaggio del suo racconto, forse il personaggio intimamente più importante perché è un supporto fondamentale allo sguardo sulla pianura, perché Marco in queste terre ci è nato e Sandro invece ci è arrivato da lontano, perché è il suggeritore di tante situazioni e perché, con l’umanità di Marco, Sandro si confronta continuamente. E se il Marco-personaggio ha una funzione in parte maieutica in determinate situazioni, il Marco-fotografo aggiunge una visione precisa e carica di suggestioni alle parole dell’autore. 

Ma entriamo adesso nel testo. Lo abbiamo detto: è una cronaca di vagabondaggio nelle terre del Polesine di Rovigo e di Ferrara. Ma non è solo questo. O meglio: è questo per tre quarti: perché ad un certo punto il viaggio si interrombe. O meglio: si interrompe il vagabondaggio ed inizia invece un viaggio. Ma ne parleremo più avanti. 

Il vagabondaggio, appunto, era iniziato dalla provincia di Rovigo, in particolare da quei piccoli borghi nei dintorni di Adria che oggi vivono uno spopolamento radicale, nei quali tuttavia si respira un’atmosfera assolutamente unica: ma è proprio in questo spopolamento, che spesso assomiglia alla desolazione, che Abruzzese infila descrizioni e analisi che raccontano questi ambienti con deliziosa capacità analitica. “La scala per il cielo di Villanova Marchesana”, “Le assenze di Adria”: sono i titoli dei primi capitoli che ci aiutano ad entrare nel testo con delicatezza ma senza incertezza alcuna. Perché nel raccontare questi territori l’autore va diretto al punto ed anche quando descrive nel modo più semplice una barista cinese che lavora in uno di questi piccoli borghi, è sempre chiaro e limpido il tema della trasformazione e del cambiamento traumatico di queste realtà da paesi agricoli con una propria identità ad agglomerati comunitari compositi, contraddittori e soprattutto desolati. Tuttavia, in queste descrizioni, Abruzzese non sembra attratto dalla sociologia, piuttosto la sua è una descrizione che porta con se una analisi schiettamente politica. E’ una delle chiavi del libro, questa: la presenza di un’analisi politica di quello che Sandro vede intorno a se: attenzione, non ideologica, ma veramente e profondamente politica, di quella politica di cui avremmo un gran bisogno oggi e che è la descrizione in chiave critica di quello che avviene in una comunità. Il vagabondare dei nostri due protagonisti (anche lo stesso Abruzzese, oltre a Belli, diventa pagina dopo pagina “personaggio” del libro) continua in altre località: Papozze, Ariano, Polesella, Bottrighe, Boccasette, e poi verso il ferrarese, Tresigallo, Massa Fiscaglia, Bondeno, Stellata, senza dimenticare di fermarsi a descrivere anche le strade (un capitolo è intitolato: “Sulla provinciale”) ed il rapporto complesso della pianura con le città e con le periferie e, soprattutto, di quella cultura dell’ ”essere qualcosa” che caratterizza, oggi, il rapporto città-borghi. Le persone che incontra diventano parte integrante del discorso politico di Abruzzese, sono pienamente funzionali alla descrizione di quel mondo, di quella comunità e delle sue contraddizioni: penso alla barista cinese di cui abbiamo detto prima, al suo allievo Baldoni, a Sofia, a Cristiano che, incontrato a Magnolina, dice cose bellissime su questa terra: “Il Polesine è palude, e della palude ha conservato l’attitudine a nascondere, la terra dei fuggitivi, di chi si sottrae. Il segreto dei fuggiaschi è il silenzio e, nel fango, nelle sabbie mobili, paludose, ci si sporca, se non si è attenti, si rimane dentro. Se vuoi sapere cos’è il Polesine pensa al fango: nel fango non puoi saltare a lungo né agevolmente, bisogna essere leggeri nel fango, avere poche pretese, nel fango. Questa è rimasta palude, qui le persone non amano svelarsi, sono abituate ai propri recessi, e non si può capire tutto questo essendo di passaggio. Devi tornare e ritornare, ma attento, nelle sue sabbie mobili rischi la vita. Devi muoverti lentamente, perché per uscire dalle sabbie, lo sai no, occorrono gesti lenti” (pag.27). Bellissima, direi. E magistrale la capacità di dare forma di scrittura a questo discorso, ovviamente orale in origine, di Cristiano.

Spesso si ha la sensazione, seguendo il filo delle riflessioni di Abruzzese, che questo suo testo abbia uno spessore di pensiero che sgorga anche dalla biografia dell’autore, “immigrato” in questa terra e quindi sensibile non solo al tema dell’accoglienza, dello spaesamento, ma anche portato ad indagare i luoghi, la loro essenza, la ricerca di senso che ci caratterizza quando li abitiamo e li viviamo. Citiamo: “[…] un luogo, qualsiasi luogo, è sempre un posto come un altro. E’ sempre importante o insignificante, privo di radici e fondante. Un luogo è il suo senso, annotavo, ma anche il senso che noi siamo in grado di attribuirgli attraverso la sua storia e il nostro attraversamento. Dunque, tutti i luoghi palesano, in maniera peculiare, un’esperienza. Solo che in alcuni è manifesta ed esteriore, in altri è complessa e stratificata” (pag 75).

Ma non vorrei aver dato l’impressione che questo testo sia tutto razionalità e niente cuore: di cuore, e di poesia, nel senso più pieno del termine, ce n’è molta, ed è perfettamente funzionale a descrivere l’umore di certi paesaggi, la loro bellezza, la loro forte carica di suggestione. Permettete un’altra citazione, tratta dal capitolo “Porto Garibaldi e il paese anfibio”, pag. 79, dove si parla di Comacchio: “Eppure i suoi dintorni sono ancora in prevalenza un unico mondo, completo e totale, in cui a guardarci è il nostro primordiale enigma. Le lagune e il Mezzano sono terre velate dall’assenza umana, di segretezze e mistero. E così spingono ad andare indietro, talmente indietro da arrivare alla nostra stessa assenza, per scoprire che il mondo c’era anche senza di noi, e che quindi l’essere umano non ha alcuna vera patria, per questo si aggrappa disperatamente a ciò che è familiare”. Anche quando Abruzzese pesta sul pedale della lirica, come si vede, è sempre pianamente lucido e profondo, e questa è una caratteristica costante del testo, che fa presa sul lettore e lo tiene sempre molto vicino alla voce dell’autore.

La pandemia interrompe le esplorazioni dei due amici e inizia l’isolamento. Ed inizia anche un altro libro, come dicevamo più sopra. A questo punto il testo ha uno scarto, vira, diventa stilisticamente qualcosa di diverso eppure, pur avvertendo lo stacco, si rimane attaccati al testo e si continua a leggere un libro di viaggio: non più in una pianura vasta costellata di paesi semi abbandonati, ma dentro se stessi, dentro l’incomprensibilità dell’isolamento, dentro le contraddizioni di una comunità o forse, in senso più ampio, di una civiltà. Questa seconda parte, delizioso scavo sulla società “pandemica”, è divisa in due sezioni che hanno, anche in questo caso, titoli scelti con molta attenzione: “Pastorali della quarantena” e “Fuori-luogo”. Vale la pena di ricordare che i “pastorali” sono un genere letterario specifico che ha avuto molto successo tra quattrocento e settecento, diventando anche un genere musicale di grande impatto in quelle società. Lo dico perché anche in questo caso, mi pare, la musica della prosa e la specificità letteraria del lavoro di Abruzzese sono il frutto di un lavoro molto attento e scrupoloso sulla parola, sulla sintassi, sulla strutturazione del testo. Il “mondo chiuso” (pag. 111) che ora l’autore si trova a descrivere, si contrappone al mondo aperto, agli spazi larghi della prima parte del libro: ma è un mondo chiuso che non si svuota di senso, o il cui senso non viene mai coperto dall’angoscia della situazione, perché la luce che viene dall’intuito indagatore dell’autore illumina ogni angolo buio, ogni spazio soffocato dalla chiusura: una chiusura che diventa un pretesto per indagare i muri che ci circondano, di qualsiasi materia siano costruiti, e che permette di pensare a tutto ciò che si muove oltre quei muri, cercando ragioni, senso, relazioni, mutazioni, traumi e speranze. Ecco una citazione significativa: “La vita ridotta a un fatto privato, privo di incontri, rimanda al coprifuoco delle dittature studiate sui libri. Per esempio, finalmente capisco l’eros morboso e decadente dei romanzi di Borgese e Alvaro. Essere isolati vuol dire imbrigliare i desideri, da cui la morbosità dei sentimenti, e vuol dire provare la spinta sovversiva a tramare per capovolgere tutto, fare della vita un fatto intimamente privato e politico. Una volta reclusi, il mondo si fa così piccolo da esserci spazio solo per gli amanti, per i rivoluzionari, per i risorgimenti e le resistenze, dunque per i loro avversari e aguzzini che richiamano all’acquiescenza” (pag. 114). Le ultime due righe di questa citazione sono bellissime: non solo per una questione di forma, ovviamente, ma perché leggono il nostro presente con un acume fuori del comune: di libri sulla pandemia ne sono usciti a decine: ma di quelli che ho letto questo mi pare capace davvero di dire qualcosa di nuovo su quello che è successo nei mesi scorsi e che ancora oggi sta succedendo. Costruire un libro così, facendo succedere ad un viaggio in movimento un viaggio da fermo, significa avere non solo una lucidità costruttiva fuori dal comune, ma anche possedere una forza di pensiero ed una capacità di lettura dei territori (di tutti i territori: fisici, interiori, delle comunità, della società e della cultura) non ordinaria e non certo diffusa: “Mi rifugio nel pensiero di luoghi inesistenti – scrive l’autore a pag. 115 – viaggi mai svolti, eppure appaiono più veri di qualsiasi realtà: ci sono strade, piazze, monumenti, edifici, con l’idea dell’ordine fondamentale, in cui giornali, tv, talk-show, fake news, shit storming, profili dormienti, sono agili strumenti di democrazie come dispositivo per ammansire la massa”. Una tendenza che, nel suo percorso di scrittore, Sandro Abruzzese ha sempre contrastato pienamente, trovando, in questo denso “Niente da vedere”, un approdo che, probabilmente, è solo attesa di altro da vedere.

Verso l’Alto Polesine

Foto di Sandro Abruzzese, Ostiglia.

Oggi ho deciso di vagare per la pianura verso nord in cerca di idee per via dell’invito ricevuto a una tavola rotonda rodigina che si interrogherà sul futuro del Polesine. Dunque, per questa ragione ora me ne sto sull’ampia e dritta strada per Ostiglia, la via Eridania, e sono fermo nel piazzale d’asfalto davanti a un Motel tre stelle all’altezza di Bergantino, il paese delle giostre. Siamo nel cosiddetto Alto Polesine. Il Motel che ho davanti è composto da una torre e un caseggiato, all’ingresso c’è una loggia fatta di archi, sulla sinistra una palma e una statua di gesso con una specie di Gesù a braccia aperte. Sul ciglio l’orecchio di una lepre schiacciata dal passaggio di auto. 

Il cielo oggi è vasto e terso per via di un vento orientale tagliente che spazza via ogni cosa. La pianura, quasi sempre umida, dall’aria velata come da un filtro, nei giorni tersi diventa pulita, luminosa, visibile, e tutto appare più possibile. 

Vado dritto fino a Ostiglia e ci arrivo mentre i ragazzi escono dalle scuole. Nella piazza principale deserta, sulla statua intitolata a Cornelio Nepote, c’è una grossa donna bionda ossigenata che, riversa sul monumento, con una mano sugli occhi e la fronte, urla frasi in slavo, in vivavoce, dall’altra parte del telefono la voce di un uomo annuisce e poi tace. Sotto i portici verso il Palazzo comunale, due anziani si raccontano perché non entrano più nei bar del paese, che tutto costa troppo e loro non ne hanno mica da buttare di denari, lamentano.

Ostiglia dall’argine sembra un nido, o un piccolo alveare. Le sue strade intrecciate non si direbbero le stesse dei solchi pionieristici, ordinati e geometrici di Castelmassa o Ficarolo. Comunque sia, il vero monumento qui è la centrale elettrica, costruita negli anni ’60 a ridosso degli abitati, dove, a parte la suggestiva scenografia da film di Antonioni, la coabitazione fa pensare a una convivenza non proprio felice per la salute dei cittadini. 

Ostiglia è provincia di Mantova, dunque è il confine lombardo di questa giornata, i suoi portici la ascrivono di diritto alla civiltà emiliana del Grande fiume, e si capisce subito che qui la geografia, il controllo del fiume, e del passaggio nord-sud e est-ovest, che nei secoli l’hanno resa una terra contesa, è una delle ragioni storiche del luogo. 

Prima dell’argine, una cappella, all’interno un ingiallito Giovanni Nepomuceno, protettore dagli annegamenti, nel cuore di una pianura alluvionale, ci ricorda che siamo dove ogni cosa principia e fallisce in rapporto all’acqua. 

Sull’argine qualche anziano, due podisti e due magrebini che bevono birra in lattina. 

Non ho molto tempo, sono costretto a scegliere in fretta. Vado a Castelmassa. Anche qui svetta una centrale a ridosso del paese, ma dall’argine la visuale è armonica e si conclude con la bella facciata ad archi della Chiesa di Santo Stefano. Sembra che questo paesaggio sul Po abbia colpito Guareschi al punto da farne la copertina di un suo libro, almeno così dice la didascalia posta sull’argine. 

A Ficarolo verso il fiume c’è il vecchio teatro. Il campanile altissimo  pende verso ovest, mi pare. Dai portici della piazza si vedono i vecchi giocare a carte nei bar. Dopo poco un tizio prende a seguirmi ovunque vada e fissarmi ostinatamente. Chissà per chi mi avrà preso. Cerco di fuorviarlo, ma appare sospettoso e forse pervaso da qualche mania. Entro in un negozio finché non se ne va. La follia e la pianura paranoica. 

Mi perdo a Zampine, in viuzze sterrate di questa frazione senza un centro.

Verso casa, ancora in strada, dall’argine dappertutto c’è la campagna, i campi di colza, le tante case contadine abbandonate, gli alberi piantati sulla soglia, i gelsi, i pochi filari di vigna, la loro grazia e misura che, come tutte le cose distrutte dal tempo, infondono una nostalgia pericolosa. 

Anche questo del Polesine è il paesaggio di quell’importante affresco italiano che è ‘900 di Bertolucci. Ed è pure il confine di nomi, nella toponomastica delle vie, che testimonia delle lotte agrarie, dei comuni pian piano conquistati al socialismo italiano. Siamo poco distanti dalla frattura tra l’Emilia e il Polesine una volta rossi, col Veneto e la Lombardia bianchi, ed è anche in queste case, nelle assenze e nelle tracce lasciate che è possibile riviverlo.

Il paesaggio, al contrario degli esseri umani, non sa mentire, non mente Occhiobello con i suoi traffici loschi e quelli puliti, non mentono le autostrade, gli autovelox, le badanti. Ogni elemento configura il mondo così com’è diventato, ne tradisce le ragioni più profonde.

Oggi è lui a dirci del Polesine, di un mondo a tempo, certo, a termine, come tutte le cose umane, in parte spazzato via dalla rotta del ’51 e dall’emigrazione verso le industrie del boom economico e ricostituitosi con le nuove migrazioni e le industrie. Tuttavia per questa sua storia il Polesine, come Portella della Ginestra o il Vajont, come il Sulcis o il Belice, è uno dei luoghi cardine per comprendere il Paese, in grado com’è di narrare l’Italia otto e novecentesca, e quindi di offrire possibili risposte per il futuro. Solo dai luoghi come questo, dal sud, dalle isole, dalle montagne, dove il rapporto con la modernità è lacerato e distorto, e solo dalle ferite dei luoghi è possibile capire l’ingiustizia eteronoma dei centri verso le periferie, e ripensarsi per costruire una reale alterità, che non sia la proiezione di riflessi provenienti dall’altrove mediatico e urbano, fondato sulla consueta irrealtà, bensì una lenta presa di coscienza che ponga le basi per un autentico progresso generale, se possibile privo di noiosi identitarismi e rivalse, se possibile privo di grandezza, di potenza e orgoglio, ma che sappia guardare bene, in profondità, e magari prendere proprio dal debole e dal lento, dall’imitabile, per riproporre la lezione della democrazia.

Celati: in fuga verso la foce

*Articolo comparso in precedenza sulla rivista “Laboratori critici” (Samuele editore)

Gianni Celati è stato un intellettuale originale per tanti, troppi motivi, che evidentemente non è possibile affrontare esaustivamente in questa sede. Tenterò dunque qui di indicarne alcuni, rifacendomi in particolare a un libro, Verso la foce (Feltrinelli 1989), che ritengo in grado di condurci a comprendere diversi aspetti importanti del mondo poetico dell’autore. Libri come Verso la foce e Narratori delle pianure non hanno fornito solo nuove prospettive critiche e letterarie nel panorama culturale italiano, ma hanno aiutato generazioni di scrittori e lettori a comprendere il ruolo della realtà circostante nella lotta contro l’omologazione dell’immaginario mediato dalle tv e dall’industria culturale. Quello di Celati, inoltre, è un corpo a corpo con se stesso per ridare intensità alla vita attraverso la letteratura. Un discorso a più piani e livelli, complesso, stratificato, che parte dall’enigma primordiale per arrivare a interrogarsi su cosa ci facciamo noi tutti al mondo, come quando ricorda: “Noi siamo guidati da ciò che ci chiama e capiamo solo quello; lo spazio che accoglie le cose non possiamo capirlo se non confusamente” (Verso la foce, pag 55). 

Sebbene l’autore ferrarese sottolinei spesso la finzione, l’artificio e l’impostura di qualsiasi letteratura, al contempo egli lavora alla riscoperta del racconto orale, della lingua viva che viene dal mondo circostante, e lo fa, lo ricordiamo con le sue stesse parole, anche perché “Ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando stai in casa credendo di aver capito qualcosa in generale” (Verso la foce, pag. 57). Non è solo una fuga dalla letteratura, come l’ha felicemente definita Marco Belpoliti, o una postura antiaccademica che fa pensare per certi aspetti all’antilirismo di Pasolini. È pure un rammentare che le cose vengono dal mondo, dall’aria, e dal corpo. Dunque Celati, come fosse un Lukacs o un francofortese, ma  a modo suo, col suo stile, contesta e ridiscute l’uso distorto che la nostra civiltà fa della ragione e dell’intelletto. Ecco perché ama e traduce London e Swift, ecco perché propugna una letteratura che fa accadere le cose, che muove alla meraviglia e allo stupore, al viaggio e alla scoperta. In fin dei conti, nell’uso del corpo e nella riscoperta del mondo, Celati tenta di  ripristinare delle funzioni vitali e così risolvere la nostra moderna inadeguatezza alla vita: “Non si è mai estranei a niente di ciò che accade intorno, e quando si è soli ancora meno. Il corpo è un organo per affondare nell’esterno, come pietra, lichene, foglia”. 

Intendiamoci, egli è, come qualsiasi intellettuale, uno sradicato che combatte col fatto che “in fondo là fuori non c’è niente di speciale da vedere o registrare, c’è solo tempo che passa. Lo spazio è una specie di grande galera dove si sta ad aspettare qualcosa: nessuno sa cosa, ci si fa delle idee, e c’è solo tempo che passa” (p 77). Per questo, proprio mentre sembra tendere verso l’origine, in qualche modo sente il bisogno opposto, quello di rifiutarla; appare cioè attratto, partecipe, e a un tempo distante dall’appartenenza degli altri, dal radicamento e dal bisogno d’identità scaturito dal rapporto dei luoghi col moderno. 

In questa prospettiva, la scrittura di Verso la foce si pone prima di tutto come una felice cura per chi scrive, è in grado cioè di dare un nuovo ritmo a chi lo ha smarrito, dunque fa respirare, al punto che non è difficile immaginare un’ansia che si placa accogliendo lo spazio e il tempo, accettando le incognite, l’indeterminato e il provvisorio, come fa Celati immerso nella pianura lungo il Po. Questa necessità dell’autore lo porterà a promuovere in un’antologia, Narratori delle riserve, una serie di nuovi autori che scrivono per i suoi stessi motivi, che scrivono per necessità quasi fisica, e per sfuggire alla dittatura e alla malattia della ragione. 

In fondo, che ci si trovi in una grande metropoli o in un luogo sperduto, che sia il capriccio della mondanità o una calamità come la solitudine, ogni volta l’autore ferrarese ricorda che si tratta di tempo che passa. E allora narrare la qualsiasità Zavattiniana, o il mondo com’è e come accade, per dirla col suo amato Wittgenstein, lo porta verso i luoghi marginali e reticenti, dove non c’è niente da vedere, e dove le disfunzioni, i tic, le contro-condotte trovano terreno fertile contro il mondo dei progetti calati dall’alto. 

Certo, negli itinerari di Verso la foce non c’è solo il mondo fatto di immagini, come recita il verso di Holderlin scelto in esergo, ma anche la volontà di ri-vedere e ri-conoscere quei luoghi per motivi affettivi. La famiglia di Celati è nativa dell’est ferrarese, dunque il suo è un ritorno che apre a una ri-scoperta, la quale a sua volta conduce a un processo di razionalizzazione e comprensione nuova, sia della propria storia familiare, in cui ognuno è sempre invischiato, che dell’epoca in cui viviamo. La vita è un fatto personale, verrebbe da dire ancora col Pasolini degli Scritti corsari, e Celati in questo viaggio fonde intimità e  sensibilità storico-sociale. Egli ritrova nella sussistenza e nella parsimonia che rimandano alla passata miseria, come pure nei gesti e nelle parole della gente di pianura da cui proviene, parte delle sua famiglia. Gesti che sembrano nascere dallo spazio circostante, come se lo spazio infondesse movenze, forme, pensieri, in chi vi abita, e che ritornano all’autore sotto nuova luce. A questo Celati si potrebbe, certo, rimproverare di trascurare il politico, di guardare la forma delle cose, dei luoghi e delle persone, senza voler arrivare esplicitamente alla natura politica di tanti fenomeni, ma un autore attraverso le sue intuizioni deve suscitare delle domande, non fornire risposte.

Insomma, se da un lato per Gianni Celati ogni discorso è un’illazione, e quello che sappiamo del mondo è sempre approssimativo, allora il mondo è qualcosa di troppo complesso per volerlo spiegare agli altri. A questo punto guardare diventa la finzione più onesta, perché comunque abbiamo bisogno ogni giorno di riempire un vuoto, di “arginare” il fatto che ogni epoca, come una marea, ci dirige verso gli accadimenti, ed è puerile tentare di fermarla con l’ipocrisia della letteratura, anche perché, dice l’autore, le parole “sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”.

Infine, Celati ha dimostrato che saper guardare è sempre un’avventura, perché può voler dire mettersi da parte per ritrovare l’altrove, occupandosene, ovunque esso sia. Per farlo, occorre restituire al tutto almeno una parte della sua indeterminatezza. Non meno importante è la sua lezione sull’assenza di radici. Se l’intellettuale deve avere vicinanza e lontananza col mondo, con Celati, come con Heidegger, è chiaro che l’intellettuale lotta con le origini fino a scoprirsi essere senza origini, fino a scoprire che l’umanità è un fenomeno tra gli altri, in grado però di creare con la letteratura nuove e inedite ramificazioni, che nutrono “il tempo che passa”, e che sono importanti per un rapporto autentico con la vita. 

Con Celati riscopriamo che si può raccontare il vuoto, l’assenza, l’inezia, senza mai ammiccare al lettore o all’editore. Narrare magari come atto sempre nuovo eppure antichissimo, sempre gravido delle voci narranti dei senza voce, ai margini, sempre in bilico tra moderno e pre-moderno.

È questo coraggio di scrivere, questo fuggire dall’irrealtà attraverso una lingua che vivifichi, che dobbiamo a Gianni Celati, il quale ha saputo rincorrere il mito, riportando però il fantastico alla terrestrità. Con lui abbiamo capito che essere “umani” vuol dire fallire onestamente, con tutto il coraggio che ci vuole per ammettere con se stessi e con gli altri tutta la propria fragilità.

sandro abruzzese

Mattinata a Santa Maria Maddalena 

*Articolo uscito in aprile sulla nuova ferrara

Sono passato per Santa Maria Maddalena centinaia di volte, al punto che pensavo di conoscerlo bene, il paese. Quando poi in un giorno soleggiato e secco di marzo, quasi per caso, ho infilato la stradina che porta dalla statale alla piazza centrale, mi sono accorto che quei luoghi in realtà non li avevo mai visti prima. Non avevo visto la chiesa, il portico, le facciate in rovina dell’INA casa, il viale che porta dritto all’argine del Po. 

Ora che ci penso, il paese, cinto com’è dalla statale e dalla strada regionale che finiscono per dargli la forma di un nido, forse in passato l’avevo osservato solo dall’alto, venendo da Ponte. Dall’alto infatti si vede un nido che poi si è sfaldato e ha preso a crescere lungo le strade fino a disperdere il suo nucleo principale e dimenticare la sua originaria ragione di fondo: il rapporto col fiume. Non per giustificare Santa Maria, ma ai paesi sulle statali, o vicino agli snodi, ai ponti, fatti di attraversamenti e servizi, succedono cose del genere. Si spostano verso l’autostrada, verso la stazione dei treni, verso le città, insomma, le città e i paesi scivolano, ecco, e così il loro corpo cambia, si fonde a Occhiobello, si protrae verso Pontelagoscuro e Rovigo, divenendo qualcos’altro da ciò che era. Accade soprattutto quando non hanno più idea di se stessi.

Comunque Santa Maria, oggi, vista dalla piazza principale sembra un paese ricostruito, voglio dire un paese invecchiato ma non per questo antico, anzi paradossalmente nuovo, come fosse rinato dopo chissà quale catastrofe. E ogni paese nuovo qui in pianura appare come una colonia di vecchi pionieri e cercatori d’oro, o magari un luogo di nomadi, fuggiaschi, pirati pian piano sedentarizzatisi per dimenticanza o disperazione. Sono le impressioni avute a Jolanda di Savoia, a Lido delle Nazioni, a Ariano ferrarese, per esempio. 

È un tratto comune a molti abitati della pianura alluvionale quello di essere spostati e ricostruiti. Il paesaggio urbano della pianura parla di questa provvisorietà e fragilità, questa sì antichissima, che spesso mi riporta indietro ai paesi dove sono cresciuto, in Irpinia, anch’essi nuovi, frutto dell’avvento del cemento armato e del ferro, soprattutto dopo il devastante sisma del 1980. Alluvione e terremoto, forse è questa associazione una delle chiavi politiche per unire l’Italia delle pianure e degli Appennini, delle isole e delle Alpi. La vera parola o immagine eloquente di questo paese, quella che rende giustizia alla provincia, sta nel porre attenzione alla fragilità, piuttosto che alla forza. La forza, lo sviluppo eccessivo, è come l’alluvione, travolge tutto irrimediabilmente, le sue ragioni diventano indiscutibili. Mentre partire dalla fragilità consente di avere come meta l’equilibrio, fatto di misura e responsabilità collettiva.

Forse è per questo che stamane Santa Maria, fatta di case popolari, frutto di grandi stagioni di politiche abitative nazionali, acquista tutto questo interesse ai miei occhi. Gli occhi, vogliono ri-vedere e ri-conoscere. È un ritorno sulle cose e sulle persone per acquisire elementi e per poter comprendere. E Santa Maria a suo modo, con discrezione e reticenza, parla dell’Italia intera, della sua direzione, in maniera sincera. 

Percorro il viale in direzione dell’argine e vado verso il fiume. Arrivato alla zattera che ospita il ristorante, sul lato destro, dove fa colpino una grande spiaggia sabbiosa nata dalla terribile siccità di questi mesi, ritrovo un Po debole e lento coma mai prima. È possibile camminarci dentro, camminare nel suo letto rinsecchito fin quasi a raggiungere il suo centro. 

Sulla sinistra, dal pontile sottostante, a fianco alla baracca del ristorante, tre persone attempate, calando una rete sul fondale per poi ritirarla su, tentano di pescare qualcosa. Guardo la scena insieme a due passanti, i quali si lanciano in una discussione accesa sul fatto che per via della siccità non c’è ossigeno, né pesci da pescare, ma veniamo interrotti subito dal trio di pescatori che tirano su un cefalo di sei etti, ci dicono da lontano.

In spiaggia, dopo essere sprofondato nel fango fino alle caviglie, tento di raggiungere il centro del fiume. Sulla battigia, quasi a pelo d’acqua qualcuno, solcando la sabbia, ha scritto dei nome: Natalia, Bea, Rosy. Intorno, resti di falò, piccoli arbusti, tracce di pneumatici da motocross. Tra le siepi del piccolo boschetto adiacente, che raggiungo per evitare ulteriore fango, fazzoletti e preservativi, piccole capanne di rami. Anche questa è la vita del fiume. Sul fiume ci si va per gioco o per l’amore, ci si va per i misfatti e il proibito, proprio come fossimo in una canzone di Bruce Springsteen.

Il passaggio del treno d’un tratto, producendo un frastuono improvviso, mi riporta alla realtà. Nel frattempo raggiungo l’obiettivo prefissatomi. Dal cuore del Po, ora tutto sembra diverso. Sembra di guardare il mondo con gli occhi di qualcun altro, o forse nei panni di qualcun altro. È come se da qui il fiume fosse in grado di vederci e giudicarci, proprio come quando era una temibile divinità. Per un attimo, viene voglia di chiedergli perdono. Di chiedergli scusa anche per questa idea balzana di mettermi sul limite tra l’Emilia e il Veneto, di fuggire le classificazioni, i paralleli, e di fare proprio come fa l’acqua, che ovunque arrivi ridiscute e mette in crisi la proprietà, il controllo, portando il caos dappertutto. 

Di ritorno, ritrovo il paese visto dalla sommità dell’argine, è di nuovo un nido col campanile sovrastante i tetti a dettare le coordinate. Mentre scrivo, penso a queste immagini inedite, vive, intense, nella mente, dovuta a una mattina a Santa Maria Maddalena. Mi chiedo come sia possibile rinunciarvi. Come sia possibile lasciare che le telecamere guardino per noi il mondo, e finire per accontentarci del suo adulterato riflesso, della versione falsa, ancorché avvincente, dello stesso mondo che intanto si concede tutti i giorni davanti ai nostri occhi.

sandro abruzzese

La via Romea come frontiera

Il nostro itinerario all’interno di questo vasto spazio, uno degli ultimi grandi vuoti della pianura padana, non ha particolari mete. Ci aggiriamo a caso con la convinzione che il mondo circostante sia comunque incapace di mentire allo sguardo, per cui nei dintorni c’è sempre qualcosa da vedere che parli di noi e di come effettivamente funziona il mondo. Certo, viaggiare nella pianura, decifrarne i segni, vuol dire innanzitutto attenersi alla realtà concreta. Per cui passare alla rinfusa da Contane, ignorando che si tratti del luogo più basso d’Italia, o veleggiare di soppiatto a Jolanda di Savoia e Mezzogoro, ebbene fa sempre un certo effetto. Da Contane, dove oggi non c’è un filo di vento e il cielo opaco rende la terra ancora più bruna, per strade secondarie, stavolta ci dirigiamo verso il litorale. Sbuchiamo sulla Romea che è una strada particolarmente amata perché vi si costeggiano limiti non solo geografici, ma di un confine invisibile, in cui si sovrappongono elementi, e dove il mondo progettato e studiato dallo stato, dalla regione e da chi per loro, si affievolisce del tutto. 

La Romea è un confessionale ibrido, ribadisce il divano blu elettrico abbandonato sotto la pensilina di un distributore di metano. Un luogo dove la pianura, anche la più reticente, si confessa, e dove l’omogeneo e l’uniforme vi si compiono e falliscono a un tempo, oppure dove le illusioni cittadine, mondane, lasciano il posto a una buona dose di franchezza, per cui nel paesaggio inerme, spuntano trame sotto traccia e disfunzioni, come la discarica clandestina appena sequestrata qui di fianco, a Lagosanto. Non sono solo gli incidenti, la pericolosità di questa arteria, bensì le variabili e le intenzioni che si incrociano in questo punto-limite a raccontare l’Italia. È un posto per i segreti, per i rifiuti, per il proibito, la Romea. È il posto giusto per far perdere le proprie tracce, per pentiti di mafia, traffici o amori clandestini. Vi si può mangiare e dormire facilmente, anzi la vita vi prende come un sapore di accessibilità, per inciso dequalificata, tirata all’osso, flessibile, ma è pur sempre sopravvivenza ed espletamento di bisogni fisiologici primari. Motel a basso costo, camere a ore, cibo a basso costo, cibo a tutte le ore. Sesso a basso costo. Droga, supermercati. Tutto il mondo com’è e come accade, passa per la frontiera che è la Romea e vi si fonde. E tutto ciò che si trova oltre questa strada, verso il mare, a Boccasette, Scardovari, fino all’Isola dell’Amore o alle Vene di Bellocchio, rappresenta un’altra storia, fatta di cieli ancora più ampi, di campi se possibile ancora più sconfinati, di geometrie e forme che rimandano a un continuo altrove. 

Di questo e altro, dopo una mattinata di osservazione disordinata, mentre a fianco al nostro tavolo due amanti litigano e due vecchi migranti partenopei conversano col loro nipotino alternando il tedesco e il napoletano, discutiamo in osteria con Marco. Guardiamo le foto, decidiamo il da farsi, e dopo un po’ litighiamo pure noi, e sul Sessantotto, per giunta. Lui difende le forme libertarie e anarchiche, rimpiange un’Italia d’avanguardia. Io invece in quella divisione, nella velocità dell’avanguardia urbana, ritrovo l’abbandono delle retroguardie e delle province, e l’incapacità di camminare insieme, di radicarsi per non lasciare nessuno indietro, anzi di essere compatti e solidali fin nelle lande più remote del paese, proprio come questi luoghi. Anche in questo diverbio conta l’esperienza e la provenienza, è il dialogo tra un cittadino e un paesano, tra un settentrionale e un meridionale, e prova ancora una volta l’importanza e la necessità di incrociare le prospettive secondo una reciprocità essenziale alla comprensione delle parti come tutto. Una subcultura della frammentazione, invece, un’analisi continua e univoca delle parti, senza più sintesi, è questa la morsa che non lascia scampo all’Italia di oggi. Ed è per questo che il vuoto della pianura, la sua parte più debole e eterogenea, può aiutare a comprendere la realtà nazionale. È una prospettiva senza voce, o al limite con una voce letteraria, ma senza il politico e sociale.

È già ora di rientrare. Lungo la strada ripensiamo alla giornata. Nella mente ormai la Romea è un grumo in cui si addensano scarti e resti: venditori ambulanti, canali, rimesse, veicoli in panne, zucche e sacchi di patate, pattume. È un confine di cui resta questo suo essere sintesi, quasi una cerniera meticcia di campi agricoli e spiagge adriatiche. La ripetitività desolata della monocoltura del Mezzano e quel pieno stagionale dei vacanzieri ai Lidi, appaiono comunque due mondi a loro modo reificati, a senso unico, e quindi in grado di smarrire qualsiasi reale senso. La Romea separa e attraversa questa riduzione bipolare del mondo, in cui la modernità è a un tempo applicata e sospesa, così da generare attraversamento e vuoto. Se il Mezzano è privo di vita umana e insediamenti, i Lidi sono semi vuoti in inverno.

Di rientro, dopo aver camminato per qualche chilometro su una striscia di terra in mezzo alla laguna comacchiese, attraversiamo il Mezzano all’imbrunire, tra nutrie e fagiani, tra strade sconfinate degne di una canzone di Springsteen. Qualcuno, su una casupola grigia, con dello spray nero, ha scritto “Duce idiota”. Ci lasciamo alle spalle la laguna grigia, sempre più scura per via del sole calante dietro l’arco appenninico. 

La sensazione è che chiunque, in questi luoghi, per come sono stati concepiti, possa essere solo un ospite, e che il provvisorio, sotto forma enigmatica e misteriosa, regni incontrastato, anzi, addirittura incomba. Il resto lo farà il mare, con la sua avanzata lenta, impercettibile quanto incontrastabile, sarà lui a riprendersi definitivamente l’estremo limite della pianura.

sandro abruzzese

AUTOBIOGRAFIA di un viandante precario

L’INSICUREZZA DEL DISORDINE
Qui si narra di un viandante che nella mente stanca, soddisfa il bisogno di riandare e immaginare a quanto bella doveva essere la sua vita in quel malessere.

Cresciuto e pasciuto da una mamma gravida nella sua esistenza, tra gli agi di una povertà controllata e limitata da migliaia di parenti serpenti e solidali, dopo quasi trent’anni avverte il bisogno dirompente di evadere, di emigrare, di andare altrove per sfuggire ad un disordine tutto meridionale che diventa, poi, parte integrante della sua struttura fisico-intellettuale.

Il disordine meridionale é un fattore che fa parte della terra a mezzogiorno, lo si ritrova ovunque: tra le case e nelle case, tra le strade e sulle strade, tra gli uffici e negli uffici, tra i silenzi e nei silenzi. Diventa una figura d’Intelletto, uno spunto per l’ingegno, una piaga sempre aperta, dolorosa e sempre inferta.
Il viandante, quasi sempre, stanco del disordine, emigra per trovare ordine, e in quell’ordine magari anche un lavoro e la tanto agognata sicurezza:
la sicurezza nell’ordine.

Ecco appare quasi magicamente il rapporto della costante di questo binomio che logicamente e, in diretta proporzione, esige convenzionalmente di trovare il soddisfacimento ai bisogni essenziali nella sicurezza che deriva dall’ordine, dalla compostezza, dalla pulizia, dal rispetto, dai diritti, dai doveri, dalla presenza di un apparato.

Trovato l’ordine il viandante ne resta affascinato e trascinato-risucchiato nella sua contingenza, ne afferra il senso, lo reintegra nel suo apparato, intellettualmente strutturato nel disordine, e si riordina. Magicamente quella formazione confusa, senza punti di riferimento si ancora ad un peso fisso, presente ogni momento, lo si avverte iconograficamente e fisicamente…il peso…

Percorre quotidianamente le strade di quella pianura del nord, tra canali attigui di irrigazione, dove puntualmente c’é un pescatore di siluri; attraversa indefesso i paesi rannichiatisi sul fianco destro e sinistro dell’arteria stradale, il viandante li chiama “i paesi placca”; affianca marginalmente risaie da dove in volo, dispiegando le sue grandi ali, un airone taglia la barriera della nebbia che, solo a lui, non nasconde le cose lontane delle quali, a differenza del viandante, non ha paura; osserva attonito l’immobilismo delle ruote di paglia che lo accompagnano irrinunciabilmente all’altro paese placca ordinato ai lati dell’arteria.
Ora é solo il viandante, sono passati molti anni, traduce i suoi sentimenti in grafici poco decifrabili, avverte in sé la pazzia di quell’ordine e la follia della sicurezza, si rende conto, forse, che in quel binomio si identifica la miglior parte delle sue insicurezze, dei suoi dubbi, delle sue incertezze.

Chiude gli occhi e rivede i rumori, i colori, le folle in strada, le liti furibonde e i grandi amori… e pensa a quanto bella fosse l’insicurezza del disordine…

Vincenzo Gragnaniello
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