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Verso l’Alto Polesine

Foto di Sandro Abruzzese, Ostiglia.

Oggi ho deciso di vagare per la pianura verso nord in cerca di idee per via dell’invito ricevuto a una tavola rotonda rodigina che si interrogherà sul futuro del Polesine. Dunque, per questa ragione ora me ne sto sull’ampia e dritta strada per Ostiglia, la via Eridania, e sono fermo nel piazzale d’asfalto davanti a un Motel tre stelle all’altezza di Bergantino, il paese delle giostre. Siamo nel cosiddetto Alto Polesine. Il Motel che ho davanti è composto da una torre e un caseggiato, all’ingresso c’è una loggia fatta di archi, sulla sinistra una palma e una statua di gesso con una specie di Gesù a braccia aperte. Sul ciglio l’orecchio di una lepre schiacciata dal passaggio di auto. 

Il cielo oggi è vasto e terso per via di un vento orientale tagliente che spazza via ogni cosa. La pianura, quasi sempre umida, dall’aria velata come da un filtro, nei giorni tersi diventa pulita, luminosa, visibile, e tutto appare più possibile. 

Vado dritto fino a Ostiglia e ci arrivo mentre i ragazzi escono dalle scuole. Nella piazza principale deserta, sulla statua intitolata a Cornelio Nepote, c’è una grossa donna bionda ossigenata che, riversa sul monumento, con una mano sugli occhi e la fronte, urla frasi in slavo, in vivavoce, dall’altra parte del telefono la voce di un uomo annuisce e poi tace. Sotto i portici verso il Palazzo comunale, due anziani si raccontano perché non entrano più nei bar del paese, che tutto costa troppo e loro non ne hanno mica da buttare di denari, lamentano.

Ostiglia dall’argine sembra un nido, o un piccolo alveare. Le sue strade intrecciate non si direbbero le stesse dei solchi pionieristici, ordinati e geometrici di Castelmassa o Ficarolo. Comunque sia, il vero monumento qui è la centrale elettrica, costruita negli anni ’60 a ridosso degli abitati, dove, a parte la suggestiva scenografia da film di Antonioni, la coabitazione fa pensare a una convivenza non proprio felice per la salute dei cittadini. 

Ostiglia è provincia di Mantova, dunque è il confine lombardo di questa giornata, i suoi portici la ascrivono di diritto alla civiltà emiliana del Grande fiume, e si capisce subito che qui la geografia, il controllo del fiume, e del passaggio nord-sud e est-ovest, che nei secoli l’hanno resa una terra contesa, è una delle ragioni storiche del luogo. 

Prima dell’argine, una cappella, all’interno un ingiallito Giovanni Nepomuceno, protettore dagli annegamenti, nel cuore di una pianura alluvionale, ci ricorda che siamo dove ogni cosa principia e fallisce in rapporto all’acqua. 

Sull’argine qualche anziano, due podisti e due magrebini che bevono birra in lattina. 

Non ho molto tempo, sono costretto a scegliere in fretta. Vado a Castelmassa. Anche qui svetta una centrale a ridosso del paese, ma dall’argine la visuale è armonica e si conclude con la bella facciata ad archi della Chiesa di Santo Stefano. Sembra che questo paesaggio sul Po abbia colpito Guareschi al punto da farne la copertina di un suo libro, almeno così dice la didascalia posta sull’argine. 

A Ficarolo verso il fiume c’è il vecchio teatro. Il campanile altissimo  pende verso ovest, mi pare. Dai portici della piazza si vedono i vecchi giocare a carte nei bar. Dopo poco un tizio prende a seguirmi ovunque vada e fissarmi ostinatamente. Chissà per chi mi avrà preso. Cerco di fuorviarlo, ma appare sospettoso e forse pervaso da qualche mania. Entro in un negozio finché non se ne va. La follia e la pianura paranoica. 

Mi perdo a Zampine, in viuzze sterrate di questa frazione senza un centro.

Verso casa, ancora in strada, dall’argine dappertutto c’è la campagna, i campi di colza, le tante case contadine abbandonate, gli alberi piantati sulla soglia, i gelsi, i pochi filari di vigna, la loro grazia e misura che, come tutte le cose distrutte dal tempo, infondono una nostalgia pericolosa. 

Anche questo del Polesine è il paesaggio di quell’importante affresco italiano che è ‘900 di Bertolucci. Ed è pure il confine di nomi, nella toponomastica delle vie, che testimonia delle lotte agrarie, dei comuni pian piano conquistati al socialismo italiano. Siamo poco distanti dalla frattura tra l’Emilia e il Polesine una volta rossi, col Veneto e la Lombardia bianchi, ed è anche in queste case, nelle assenze e nelle tracce lasciate che è possibile riviverlo.

Il paesaggio, al contrario degli esseri umani, non sa mentire, non mente Occhiobello con i suoi traffici loschi e quelli puliti, non mentono le autostrade, gli autovelox, le badanti. Ogni elemento configura il mondo così com’è diventato, ne tradisce le ragioni più profonde.

Oggi è lui a dirci del Polesine, di un mondo a tempo, certo, a termine, come tutte le cose umane, in parte spazzato via dalla rotta del ’51 e dall’emigrazione verso le industrie del boom economico e ricostituitosi con le nuove migrazioni e le industrie. Tuttavia per questa sua storia il Polesine, come Portella della Ginestra o il Vajont, come il Sulcis o il Belice, è uno dei luoghi cardine per comprendere il Paese, in grado com’è di narrare l’Italia otto e novecentesca, e quindi di offrire possibili risposte per il futuro. Solo dai luoghi come questo, dal sud, dalle isole, dalle montagne, dove il rapporto con la modernità è lacerato e distorto, e solo dalle ferite dei luoghi è possibile capire l’ingiustizia eteronoma dei centri verso le periferie, e ripensarsi per costruire una reale alterità, che non sia la proiezione di riflessi provenienti dall’altrove mediatico e urbano, fondato sulla consueta irrealtà, bensì una lenta presa di coscienza che ponga le basi per un autentico progresso generale, se possibile privo di noiosi identitarismi e rivalse, se possibile privo di grandezza, di potenza e orgoglio, ma che sappia guardare bene, in profondità, e magari prendere proprio dal debole e dal lento, dall’imitabile, per riproporre la lezione della democrazia.

L’Italia: il Paese delle emergenze

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, inserto culturale domenicale del Quotidiano del Sud

L’Italia, come ebbe a scrivere in un articolo del 1984 Alberto Asor Rosa, è un paese in emergenza, che ha fatto della mediazione e del trasformismo politico una vera e propria arte di sopravvivenza Un paese nato rocambolescamente durante il Risorgimento e ricostruito, dopo la Guerra civile della Resistenza, in situazione se possibile ancora più incerta, vista la Guerra fredda.

La letteratura spesso ha registrato questo aspetto: I Vicerè di De Roberto, a cui molto deve il più famoso Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, narra appunto la saga degli Uzeda e il loro passaggio strategico dai Borbone al parlamento dei Savoia, così come Il Bell’Antonio di Brancati narra del rapporto tra borghesia e fascismo. E sebbene la Sicilia sia un luogo nevralgico da cui si capiscono tante cose della storia d’Italia, anche in Veneto, come raccontano Ippolito Nievo o Alvise Zorzi, il voltafaccia dell’aristocrazia di terra giocò un ruolo non secondario nella fine della Repubblica di Venezia, schiacciata tra francesi e austriaci a fine ‘700. 

A far luce su Risorgimento e trasformismo delle classi dirigenti contribuisce  di recente lo storico Carmine Pinto nel suo La guerra per il Mezzogiorno, da cui emerge una storia d’Italia non riducibile alla semplice dicotomia Sud-Nord, bensì molto più sfaccettata, in cui le divisioni interne ai paesi e alle città della penisola, a volte in preda a vere e proprie annose faide, hanno svolto un ruolo di primo piano nel successo dei vari partiti in lotta. 

Che si tratti dell’Italia liberale di Giolitti o del dilagare del Fascismo, assistiamo all’assalto al carro dei vincitori da parte di classi dirigenti prima liberali o monarchiche, e qui valga per tutti l’indimenticabile Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni.

Andando ai tempi recenti, dunque tralasciando la grande letteratura dei gloriosi trenta: il trasformismo del Carlo Levi dell’Orologio, l’Ottieri di Donnarumma o la Morante, potremmo approdare fino all’apertura dei club di Forza Italia negli anni ’90, o a quelli della Lega al sud, o dei Cinque stelle. Lo schema non cambia e credo derivi in misura significativa dall’estrema disomogeneità territoriale. 

Sull’Italia del berlusconismo si interrogano due scrittori come Giorgio Vasta in Spaesamento e Giorgio Falco in Ipotesi di una sconfitta. All’antimeridionalismo della Lega rispondono due notevoli saggi: La razza maledetta di Vito Teti e Leghisti e sudisti di Isaia Sales. 

Spiegare l’Italia nei suoi fenomeni diventa il cruccio intellettuale di un ventennio e oltre. L’emergenza continua però non è dovuta a elementi contingenti: che sia la trattativa Stato-Mafia o lo sforamento dei parametri europei, che si tratti di terremoti o dello spread, il filo conduttore resta l’intrinseca debolezza politica italiana che, se nel passato repubblicano era legata al blocco dell’alternanza, dunque a fattori esterni, in seguito è diventata soprattutto debolezza culturale interna, fatta di assenza di strategie e visioni realmente nazionali di lungo periodo, oltreché di assenza di radicamento territoriale. L’Italia odierna della demagogia populista e delle piccole patrie regionali, per contrappasso ha visto l’emergere di una letteratura alla ricerca della realtà, del paesaggio e dei territori: il Veneto di Trevisan, la Calabria di Serazzi, la Roma di Pecoraro, la Napoli di Carmen Gallo e la Taranto di Modeo. 

Da qui i tentativi di raccontare l’Italia frammentata e le sue storture: il precariato e l’eversione stragista, la Gomorra di Roberto Saviano e lo spopolamento dell’Appennino: tutte facce della continua emergenza italiana.

Resta il fatto che una politica debole non solo non può cambiare la propria classe dirigente, e con essa la propria mentalità, come ricordava l’Asor Rosa dell’84, ma non può nemmeno riformare realmente il paese perché farlo vorrebbe dire riformare se stessa.

Il fiume bagna Pontelogascuro

Articolo pubblicato, con le foto di Marco Belli, nella rubrica Racconti Viandanti su La Nuova Ferrara del 18 ottobre 2022

Non so perché sia così difficile scrivere di Pontelagoscuro, forse perché la prima volta che ci sono stato non ne avevo capito poi molto del luogo. La prima volta mi era sembrato sì un paese del socialismo reale, un paese-periferia, costruito ai margini, per gli operai delle fabbriche attigue, per operai migranti come i marchigiani, o come i meridionali venuti a lavorare al nord, ma non certo un paese di fiume, una volta di dogane e pescatori, di portici e porti, lì in riva al Po. 

A Ponte, a differenza di Francolino o Ravalle, non c’è niente, venendo da Ferrara, che faccia pensare al fiume. Solo dall’argine, guardandolo con le ciminiere e i vapori del Petrolchimico come sfondo, si capisce il rapporto reciso, quella distanza artificiale creata tra paese e fiume. Da qui il rimorso per non aver inteso che Ponte non è solo un altro di quei quartieri nuovi a cui ci ha abituato l’Italia dei terremoti e delle alluvioni, bensì, avrei scoperto dopo, una delle tante vittime dell’ultima guerra mondiale. 

Fatto sta che per scrivere di Ponte devo vincere questa reticenza inconscia e, a un certo punto della giornata – per la precisione di un venerdì d’ottobre all’imbrunire – prendere l’auto per infilare la solita via Canapa. Dunque, come tante altre volte, superato Barco, attraverso le ordinate palazzine operaie che danno sempre l’aria di essere in un film di Ken Loach, arrivo ancora una volta in piazza, davanti alla chiesa in mattoncini dedicata a San Giovanni. 

Lì però, non sapendo bene che fare, abbastanza improvvisato e balzano, lo ammetto, insieme ad altri avventori dall’accento slavo che parlano di andare ad una festa non so dove, mi siedo sul muretto davanti al negozio di bibite di un pachistano. Gli slavi, divisi in due gruppi, uno di anziani a sinistra, uno di ragazzini a destra, mi guardano brevemente e senza interesse. La piccola figlia del gestore invece, davanti al negozio, gioca solitaria con dei cartoni vuoti. Sono solo, ho un ginocchio gonfio da giorni e, per giunta, non ho alcuna voglia di parlare con chicchessia, quindi, senza particolari risultati per il mio racconto, guardo i portici e la piazza vuota. 

Dopo un po’ decido di cambiare postazione, verso gli uffici della delegazione comunale. Da Barco a Ponte, mentre guidavo, ho contato almeno una dozzina di bar, il più affollato qui in piazza è il Bar Nuovo, gestito da una ragazza asiatica e frequentato un po’ da tutti, anziani locali, famiglie magrebine, qualche coppia. Intanto, in lontananza si intravede un signore brizzolato che orina addosso a un murales, nel cortile della delegazione. Mi fermo davanti a una targa commemorativa posta sul cemento armato dello stabile, leggo i nomi dei caduti della Grande Guerra: Saturno, Ferdiano, Artemio, Romolo, Vito, Alfonso, Sante, Cirillo. Lo faccio spesso. Mi piace leggere i nomi di un altro mondo, frutto di altri desideri e sogni che non sono più i nostri. Mi piace leggere i nomi di quando significavano qualcosa, nomi rizomatici che portano ad altri nomi e altre storie. Ma forse qualsiasi nome, anche il più artefatto, pur non volendo, finisce col significare sempre qualcosa. Così come qualsiasi luogo, anche il più anonimo, se possiede una piazza dove giocano dei bambini, è sempre un luogo riuscito. Ciò che determina la riuscita di un luogo non è tanto l’estetica o l’urbanistica, ma la vita che vi scorre, la vita che si rigenera, che crea continuità e senso fino a diventare valore. A lato del palazzo degli uffici, ancora una lapide e un nome, stavolta è di un carabiniere avellinese di nome Carmine, morto nel tentativo di sventare una rapina, nel ’73.

Ormai è sera e sulla piazza arriva la luce della luna piena e un’aria tiepida e umida di pianura ottobrina. Mi infilo tra questi due bambini della scuola calcio locale che sul muretto giocano con le figurine. Sulla panchina di fronte, davanti alla chiesa, un anziano stempiato con l’indice all’insù sta dicendo a un’infermiera che ha appena finito il turno che ormai ci dobbiamo abituare al modello americano, questa è la realtà, bisogna pagare per qualsiasi cosa, conclude concitato, e comunque lui va in Veneto, si trova meglio. 

Torno al parcheggio con l’idea sghemba di andare a vedere il fiume di notte, invece mi perdo in questo reticolo rettangolare, funzionale e geometrico, che è Pontelagoscuro di notte. Tra una palestra, un campo di calcio illuminato, il mulino, passo per la bocciofila e il teatro Cortazar. Di fronte al Teatro, nel buio della sera, rivedo il monumento alla memoria di Ponte, degli alberi in cerchio che racchiudono macerie, indicando il luogo preciso dov’era situato il paese vecchio. 

Decido di rientrare. Forse, mi dico, la verità è che Pontelagoscuro non l’avevo mai visto sotto questa luce, all’ora dell’aperitivo di un venerdì sera post-pandemico. Dunque, quello che mi era parso un paese-satellite, un paese-ripiego, anche se nell’Italia post-industriale e antisocialista di oggi è un po’ come se a Ponte si abitasse l’idea di qualcun altro, comunque l’ho trovato vivo. Da un lato, è come se Pontelagoscuro fosse spuntato dal nulla, da abbandonate idee novecentesche, lavoro e industria, come un paese orientale ormai votato al neo-liberismo più sfacciato. Dall’altro lato, Ponte è uno di quei luoghi dove, tra la fatica e gli sforzi delle istituzioni per far fronte ai bisogni di una comunità in continuo cambiamento, dal Dopoguerra a oggi, hanno trovato casa a buon mercato tante nuove famiglie venute da ogni dove. Ed è questo che, piaccia o meno, fa di Pontelagoscuro una frazione e un paese più riuscito di altri: l’essere nuova dimora che ricrea la vita. E se Ferrara non vorrà diventare solo la vuota vetrina per turisti che molti desiderano, è bene che trovi il modo per dialogare con i suoi  futuri cittadini.

sandro abruzzese

Nelle terre mosse

Foto di Marco Belli, tratta da Niente da vedere, Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino 2022)

*articolo comparso sulle pagine culturali della Nuova Ferrara di domenica 13 marzo

Ogni città esiste senza ricordare il perché, verrebbe da dire tra le strade di pianura che portano da Ferrara al Delta de Po. Bisognerebbe riuscire a immaginare Comacchio e Ravenna circondate dall’acqua, oppure pensare a quando le valli lambivano Ferrara, per capire le ragioni antiche di un luogo. Comunque ogni città, che sia Ravenna, Rovigo o Adria, è il risultato di svariate dimenticanze, a volte addirittura di calcoli e previsioni sbagliate, come fu per Mesola, il progetto estense di una nuova città portuale che contendesse la leadership a Venezia, affossata dalla Serenissima attraverso un’opera faraonica: il taglio del Porto Viro del 1600-604. Eppure, proprio come per le matrioske, ogni città sembra sempre ne nasconda un’altra dentro di sé, e oggi che siamo tutti un po’ stranieri residenti, ogni città è per i suoi stessi abitanti come una lingua in parte sconosciuta, o anche come una parola antica, che nel tempo ha assunto un altro significato, di cui ormai nessuno ricorda più l’origine. E allora in principio forse non era il verbo, come dice un libro sacro, bensì il luogo, la realtà esterna, da cui lo stupore e il tentativo susseguente del verbo, del dire ciò che si vede. O magari questa è un’impressione personale frutto del ripetitivo vagare nelle terre mosse del Polesine veneto e ferrarese. Infatti, non esiste un solo modo di guardare il mondo, e oggi che passiamo per la Fratta Polesine di Giacomo Matteotti, oppure visitiamo i resti della vecchia sede dell’Avanti di Magnolina, se ripensiamo al bracciantato locale, ai badilanti, ai grandi conflitti sociali tra padronato e lavoratori, da cui la nascita del sindacalismo, delle cooperative, ebbene, verrebbe da dire che in principio – almeno al principio dell’epoca contemporanea – era la coscienza di classe, dunque da trent’anni a questa parte, orfani come siamo, non ci resta che la coscienza dei luoghi.

In viaggio, invece, l’etimo delle parole e quello dei luoghi fanno davvero al caso nostro. In pochi posti come tra l’Adige e il Reno, di cui Ferrara è davvero un ultimo avamposto prima del caos acquatico, occorre prestare attenzione alle origini. Qui tutto parla del rapporto con l’acqua. Le origini sono le sorgenti, le fonti, sono il tutto. Se il delta del Po e il limite estremo della pianura restano, almeno idrogeologicamente, tra i luoghi più fragili d’Italia, il suo territorio si consolida se lo si considera, come ha insegnato Eugenio Turri, il palcoscenico di un teatro ben più grande, ovvero l’intera pianura padana, insieme all’arco appenninico e alpino, con tutti i boschi e i corsi d’acqua, le città e le campagne a essa collegate. Il delta del Po è il terminale di una civiltà interconnessa e interdipendente, e pagherà le conseguenze dello spopolamento degli Appennini, della fuga dalle Alpi, delle frane di montagna, della cementificazione pedemontana, dell’incedere del mare.

Di questo parliamo con Marco mentre passeggiamo lungo l’argine di una golena, a Villanova Marchesana, dove una vecchia fornace di laterizi giace abbandonata e sulla superficie del fiume scivolano placidamente detriti e qualche rifiuto. Parliamo di ciò che noi possiamo fare al fiume, dei danni che l’essere umano può fare al mondo. In pratica il rapporto tra natura e cultura si è capovolto, dunque persino il conte Leopardi sarebbe costretto a chiedere conto alla cultura, alla civiltà, della sua indifferenza verso le sorti del pianeta, degli esseri viventi, dei popoli, non più alla natura, come nel suo celebre dialogo.

Siamo verso Canalnovo, nella piazza centrale c’è tutta l’onestà del posto. Nessun orpello o volontà di apparire diversi dall’essenziale. Di fronte al viale che porta alla chiesa, sul muro scrostato di una rimessa in rovina, c’è scritto «w i spusi», poi un cuore disegnato e una freccia a trafiggere le iniziali «M. S.». Il ristorante Due cigni, fallito, mostra ancora in vetrina il volto di una certa cantante di piano bar. La foto della cantante è ingrandita e sgranata. Non resta che il Caffè Costarica. Di fronte al ristorante, da una delle due case sulla strada, fuoriesce una suora vestita di bianco, deposita il pattume, dall’altra una signora anziana alla finestra osserva incuriosita.

Torno a Ferrara dopo aver accompagnato Marco.

Oggi si può dire che è una giornata in cui non è successo nulla di particolare, lo so anch’io, una giornata astratta, di soli pensieri e immagini. Il paesaggio, la realtà circostante non avevano granché da dirci, eppure lo stesso non è stato male, se non altro ne è uscita questa pagina contro la dittatura degli accadimenti, delle fiction, che testimonia l’esistenza letteraria di momenti qualsiasi, anzi la loro piena dignità: Cesare Zavattini parlava di qualsiasità. Una pagina del genere potrebbe però benissimo significare che una democrazia si occupa allo stesso modo dei luoghi famosi e di quelli dove non c’è niente da vedere, che una democrazia è una rete di punti senza margini. Oppure significa che in certi posti, davvero non c’è niente, salvo gente balzana che se ne va zonzo sul fiume priva di scopo, come noialtri.

Per strada, di ritorno, attraverso muri di nebbia in grado di cancellare qualsiasi riferimento, ampiezza e orizzonte si chiudono o restringono improvvisamente. Viene in mente l’idea della lavagna. Forse tutta la giornata serviva per quest’unica idea, da cui nasceranno migliaia di altre idee e progetti. Chi può dirlo?

Nel frattempo, tutto, ancora una volta, come con l’acqua, scompare o si cancella: il Polesine diventa una lavagna, qualcosa da riscrivere ogni giorno, in ogni epoca. L’acqua cancella le tracce, ridiscute i confini, e noi, per capire il Paese, come scriveva Adorno, seguiamo le sue tracce verso i margini, andiamo verso il caos generato dalle acque, dove lo stato non arriva, e l’uniforme affronta la sua battaglia persa contro il limite della pianura.

Un certo tipo di voce

(prove per un racconto)mare e barche)

 

La tavola di mia madre non ha nulla a che vedere con la mia tavola. La tavola di mia madre è rizomatica, tentacolare, è profonda.
I pomodori della tavola di mia madre, per esempio, provengono da Pila ai Piani, li va a prendere da Pinuccia, mia madre. Sono i migliori, dice. Non ci sono diserbanti, pesticidi, non ci sono trattamenti.  I pomodori di Pinuccia sono più buoni per quello che non hanno, più che altro. Ciò che li fa migliori, in sintesi, è l’assenza, la sottrazione.

Pinuccia poi ha tre figli, uno in particolare ha la mia stessa età, ora fa il geometra a Roma. Sì, lo so, è un’altra storia, ma è solo per farvi capire fin dove può arrivare la tavola di mia madre.

E questi sono solo i pomodori. Non è che le cose cambino con il vino.

Il vino di mia madre, dunque, lo produce il bidello della sua ex scuola, è un vino dolcissimo o completamente d’aceto, perché non ci mette niente, dice mia madre. Il vino del bidello ricorda Orazio perché è buono per un raro e a volte impercettibile frangente, che va colto, altrimenti l’attimo è fuggito e resta il vino. Il vino d’aceto, intendo.
Ma il fatto è che, per il vino, il bidello non sempre vuole compensi e allora tocca contraccambiare, per cui entra in scena il dono, ovvero tutto un certo tipo di flora, di fauna specifica: conigli, polli, e storie di cacciagione, funghi, asparagi, formaggi, raccolti da qualcuno chissà quando e portati a casa del bidello.

Per non dire della carne, della lattuga, delle pere, della tavola di mia madre. Per non dire dell’olio e del pane. Ogni prodotto, ogni pietanza, hanno una storia.

Insomma, forse quello che volevo dire, è che la tavola di mia madre a volte è un mondo, altre un intero universo, in grado di produrre linee continue, arabeschi, cerchi, volute di ritorni, salti. La tavola di mia madre è Tiresia, è Penolepe, Ulisse, Euclide. E’ un luogo di intrecci e risalite, di legami e litigi, è un eterno racconto imbandito che, di contro, mi fa pensare alla mia di tavola.

E al cospetto la mia tavola è superficiale, monca, decapitata: le tracce si esauriscono alla Conad, alla Coop, nei grandi centri commerciali. E’ una tavola anonima e muta, la mia, e assomiglia più a un simulacro: imita il mondo e l’universo, sì, ma ne è solo un lontano e sbiadito riflesso. E non ha storie da raccontare, è silenziosa. E forse è per questo che la amo, la mia tavola, perché mi costringe a immaginare, a osservare di più e meglio, a costruire e imbastire come fossi su delle macerie, tutto daccapo.

Forse è il rapporto tra queste due tavole, la mia e quella di mia madre, che mi spinge a raccontare. Magari si narra perché dentro, dietro il silenzio, – da qualche parte, – si è abituati alla propria lingua madre e a un certo tipo di voce, che risuona, soprattutto quando manca.

Sandro Abruzzese

La città di Monica

Testo e foto di Sandro Abruzzese

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… E poteva andare a studiare in America, Monica, però non ci va in America, per tanti motivi, non se la sente. Per dirne una, quando i colleghi hanno respinto a maggioranza un alunno privo di aiuti familiari e con seri problemi, lei ha scritto e fatto tutto ciò che poteva, ma poi non le è restato che piangerne impotente: con te sarebbe stato diverso, mi ha detto con voce spenta. Allora il padre del ragazzo la rincuorava dicendole tu maestra Monica, ce la fai tu l’iscrizione a Roberto per l’anno prossimo? Faccela tu, ci sei l’anno prossimo, non scherzare mica te ne vai lo lasci solo a Roberto? Se ci stai tu è tutt’appost! Allora Monica ha detto che c’era, ma non è per questo che non se ne va in America.

Comunque, per dire com’è Monica, e con questo mi fermo, ebbene quando Michele, un pittore dotato e un po’ toccato, le ha chiesto di leggere brani di Dostoevskij mentre lui disegnava lì, in libreria, ebbene, che ha fatto Monica? Siccome l’idea le è piaciuta un casino, ha passato i due giorni successivi a selezionare i brani da leggere, e quando l’ha richiamato per dire che era pronta, che, sì, aveva accuratamente selezionato soprattutto da Memorie del sottosuolo; ebbene Michele dopo due giorni del progetto non ricordava praticamente più nulla: cancellato, perso, assorbito nei meandri di quella sua meravigliosa testa, dietro quel volto dagli occhi tagliati d’azzurro e dai lineamenti simmetrici, dentro quel corpo slanciato e proporzionato, tra le spalle larghe da nuotatore e le braccia da ragazzino. Il progetto era finito da qualche parte, sprofondato tra i suoi capelli lunghi e ormai bianchi, con quel portamento regale, sempre elegante, qualsiasi capo indossi. E allora Monica me l’ha raccontato e ha riso. Ha riso tanto come fa lei quando qualcosa la diverte. Ha riso rumorosamente di leggerezza e partecipazione alla follia di Michele, e la gente al tavolino di via Mazzini si destava e voltava curiosa di quella curiosità generata dall’allegria che fa un po’ invidia e un po’ contagio. Ha riso della follia di Michele e della nostra, che poi non è dissimile da tutte le follie di cui è costituito il Cosmo, così com’è costellato di lontani pianeti e stelle e possibilità infinite. Ha riso finché non è arrivato Paolo il fotografo che spesso è lì, al tavolo del bar, e ha detto: ciò, ma si può sapere, voi due scribacchin, che c’è da ridere così tanto? E allora noi ci siamo guardati negli occhi e abbiamo risposto: niente, però abbiamo continuato a ridere tanto e capita che ancora ne ridiamo.

 

Quante volte è morto Enzino Sandokan

Non so quanta gente ci fosse al funerale di Enzino Sandokan, non so che malattia avesse e nemmeno come è morto. Di Enzino posso dire che aveva un passo svelto, sincopato, questo sì! Posso dire che, nella vita, almeno per camminare aveva trovato il tempo giusto. Così percorreva le strade d’asfalto e cemento con il suo ritmo cadenzato, spingeva la punta del piede sinistro un po’ all’interno e sembrava andasse sempre da qualche parte. «A me mi piaceva», disse Maria la prima volta che seppe dei suoi problemi psicologici. E il parlare al passato, quell’espressione definitiva, voleva dire che Enzino sarebbe potuto essere come ognuno di noi, invece aveva finito col varcare una soglia oltre la quale l’esistenza resta sospesa. Oltre la quale nessuno è disposto a venirti a prendere né a trovare. E allora camminava e camminava, Enzo, sempre con lo stesso ritmo, e sempre camminando, una volta, dopo che si fu arrampicato sul cornicione di un palazzo di cemento, minacciò di buttarsi giù se non gli avessero dato un lavoro. Allora non accade la classica scena da film in cui i cittadini ti dissuadono dal farla finita, accadde l’esatto contrario, qualcuno, pensando che fosse debole e fragile, lo incitò addirittura a suicidarsi. Enzo lo era, ma ebbe il coraggio di scendere dal cornicione e riprendere a camminare nonostante gli inviti a uccidersi. Fu così che la sua vita sospesa perse l’ultimo lembo di consistenza, il suo corpo perse le ossa, la carne, finanche l’ultimo briciolo di materia. In effetti il solo gesto compiuto, la minaccia, avevano raggiunto lo scopo senza l’ultimo passo. Fu allora che Enzo morì, o meglio continuò a camminare e camminare col suo passo svelto e sincopato, col piede sinistro che dava leggermente verso l’interno, col tempo giusto e l’aria indaffarata, ma nessuno lo vide mai più per davvero e lui tenne la testa perennemente calata sull’asfalto.

L’ultima volta che è morto, Enzo, dicono urlasse dal dolore e dallo spavento. Nei mesi precedenti aveva avuto continui mal di testa e rivolgeva la parola a qualcuno solo per chiedere analgesici e antidolorifici. Venne l’ambulanza ma non ci fu niente da fare. Alcuni, sebbene lo vedessero di rado, furono contenti che morisse perché teneva lo stereo troppo alto. Le giovani coppie di disoccupati furono contente perché si era liberato l’appartamentino che occupava alle case popolari. Alcuni andarono subito al Comune per chiedere il suo posto e l’impiegato consigliò, per superare lungaggini burocratiche e code, di sfondare la porta e occupare l’abitazione.

S.

 

La mucca e Lazzaro

eterni ritorni
Eterni ritorni di Giovanna Iorio

Certe telefonate, ne sono sicura, arrivano da un altro pianeta. Il telefono a casa non ce l’ho, ma quando vado a trovare i miei genitori squilla in continuazione. Credetemi, quando quel telefono squilla, può accadere (o è già accaduto) di tutto.
Vi racconto due telefonate dell’assurdo, entrambe di una zia che non esce mai di casa per colpa di una grave allergia. Anche suo marito, mio zio, non sta molto bene. Tempo fa, per un problema cardiaco, ha subito un intervento delicatissimo al cuore di cui io non sapevo nulla: un mini defibrillatore. Per farvela semplice, quando il cuore di mio zio si ferma, una piccola scossa lo fa ripartire. Vi risparmio i dettagli tecnici dell’operazione di cui voleva mettermi al corrente mia cugina, più o meno con queste parole…”ma come non ne sai niente! Sette anni fa… lo hanno aperto con la motosega…”
E così la zia ogni tanto telefona e annuncia:
– E’ morto.
La prima volta a mia madre è preso un colpo.
– Poi… è ripartito.
Ultimamente mio zio ha la tendenza a morire spesso. Bisognerebbe chiedergli come mai, ma lui, come me, non ama il telefono.
A Natale ho preso io la telefonata:
– Auguri! Come va, zia! Tutto bene?
– Abbiamo passato una brutta nottata…
– E’ successo qualcosa?
– Tuo zio… è morto … di nuovo.
– Morto? Di nuovo?
– So’ già tre volte.
– E poi?
– Riparte.
E così scopro di avere uno zio “alieno”, una specie di Lazzaro che muore e risorge come niente fosse. La telefonata prosegue con dettagli minori (elenchi di medicine, termini tecnici, sbadigli) e io resto con gli occhi spalancati a immaginare la scena madre…
Un’altra storia incredibile e… soprannaturale? A settembre, racconta mia madre, sempre mia zia telefona per annunciare che il genero si è rotto una gamba:
– E com’è successo?
– Era andato a cercare funghi e gli è caduta addosso… Non ci crederai!
– Cosa? Una frana?
– No…
– Un albero?
– No…
– Un meteorite?
– Eh?
– Me lo vuoi dire o no?
– Una mucca.
– Una mucca?
– Si, gli è caduta addosso una mucca.

Lettere settentrionali 23 (Non è per sempre)

Caro Martino,

Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo trovati a questo punto?

La mia renault 5 e il Cilento non sono durati per sempre. Non c’è niente che sia per sempre, cantano gli Afterhours.

E non farmi diventare uno di quei nostalgici della memoria, coi lunghi flashback dalla giovinezza indimenticata.

Nelle giornate terse qualche volta penso a Postiglione, sotto la cresta dolomitica dei tuoi monti Alburni, dove si vede la piana di Paestum e all’orizzonte il resto del golfo fino a Capri, i monti Lattari, il Vesuvio.

Sempre a parlare del nostro meridione, e invece la tua bambina nascerà in Francia e i miei dopo Verona, da poco sono qui a Ferrara. Credo che pure ogni tanto senti che il tuo posto sarebbe da qualche altra parte. Tanto poi passa.

E i discorsi su Gramsci, Canfora, la classe dirigente, gli intellettuali organici e la pubblica amministrazione? E quanto eravamo scettici sull’unità d’Italia? Fenestrelle, i massacri di Pontelandolfo e Casalduni. Il generale Cialdini arriverà nei manuali di storia delle nostre scuole quando non servirà più a nulla.

La vita era su una strada dissestata tra Palinuro e Pisciotta, verso Castellabbate. Per gioco facevi il paragone col passato e ti chiedevi come fossimo arrivati da Parmenide di Elea a Giggino a’ purpetta, Luigi Cesaro.

Sai che ti dico? Non importa. Che loro passino, e che rimangano dentro di noi la baia di Trentova e porto Infreschi.  Oppure Teggiano con le sue chiese, dritta in mezzo al Vallo di Diano. Tanto non c’è niente che sia per sempre.

E gli scrittori russi? Tolstoj, Dostoevskij? Mi hai aperto al primo tomo di Guerra e pace, questo te lo devo. Io ti ho donato Lessico famigliare della Ginzburg quando hai raggiunto Torino.

Il meridione. Il ministro degli interni ha dichiarato che in Italia gli assassini prima o poi vengono assicurati alla giustizia. Nessuno gli ha ricordato di aggiungere un “quasi”. Tutti, tranne i morti per mano di mafia, camorra. La fanno franca nove su dieci. Tutti, tranne gli assassini di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore di Pollica, il comune che tanto ami.

Lo so, lo sapevo che sarei finito a contare i morti, a parlare di un Paese a cui servono ancora gli eroi. Tanto se la osservi dall’alto, la tua Francia o il mio Veneto, l’Emilia, sono sempre la stessa Terra, non lasciamoci ingannare dalla forma. Siamo noi a distinguere il tempo, i luoghi, il vento. Forse già quando si nasce, alla prima luce che si scorge, qualcosa spinge ad aggrapparsi all’erba, quando l’unica cosa di cui avremmo bisogno è un incedere deciso, sprezzante, dritto verso il niente. Ma il nostro problema è tutto dentro.

Niente è capace di fermare il tempo e allora, per fortuna, guardiamo dall’alto tutta la penisola e l’Europa unita. Il Sud, la Campania fino a Capo Miseno, oppure sconfiniamo al di là del Garigliano, verso Formia e le isole pontine. O, ancora, all’Argentario e l’isola d’Elba. Lasciamoci così, a Ventimiglia, però stando in alto, che quello che vedi arrivi da lontano, in qualche modo ci farà meno male: tanto non c’è niente che sia per sempre!

 

 

 

 

SANDRO ABRUZZESE