Il fiume bagna Pontelogascuro

Articolo pubblicato, con le foto di Marco Belli, nella rubrica Racconti Viandanti su La Nuova Ferrara del 18 ottobre 2022

Non so perché sia così difficile scrivere di Pontelagoscuro, forse perché la prima volta che ci sono stato non ne avevo capito poi molto del luogo. La prima volta mi era sembrato sì un paese del socialismo reale, un paese-periferia, costruito ai margini, per gli operai delle fabbriche attigue, per operai migranti come i marchigiani, o come i meridionali venuti a lavorare al nord, ma non certo un paese di fiume, una volta di dogane e pescatori, di portici e porti, lì in riva al Po. 

A Ponte, a differenza di Francolino o Ravalle, non c’è niente, venendo da Ferrara, che faccia pensare al fiume. Solo dall’argine, guardandolo con le ciminiere e i vapori del Petrolchimico come sfondo, si capisce il rapporto reciso, quella distanza artificiale creata tra paese e fiume. Da qui il rimorso per non aver inteso che Ponte non è solo un altro di quei quartieri nuovi a cui ci ha abituato l’Italia dei terremoti e delle alluvioni, bensì, avrei scoperto dopo, una delle tante vittime dell’ultima guerra mondiale. 

Fatto sta che per scrivere di Ponte devo vincere questa reticenza inconscia e, a un certo punto della giornata – per la precisione di un venerdì d’ottobre all’imbrunire – prendere l’auto per infilare la solita via Canapa. Dunque, come tante altre volte, superato Barco, attraverso le ordinate palazzine operaie che danno sempre l’aria di essere in un film di Ken Loach, arrivo ancora una volta in piazza, davanti alla chiesa in mattoncini dedicata a San Giovanni. 

Lì però, non sapendo bene che fare, abbastanza improvvisato e balzano, lo ammetto, insieme ad altri avventori dall’accento slavo che parlano di andare ad una festa non so dove, mi siedo sul muretto davanti al negozio di bibite di un pachistano. Gli slavi, divisi in due gruppi, uno di anziani a sinistra, uno di ragazzini a destra, mi guardano brevemente e senza interesse. La piccola figlia del gestore invece, davanti al negozio, gioca solitaria con dei cartoni vuoti. Sono solo, ho un ginocchio gonfio da giorni e, per giunta, non ho alcuna voglia di parlare con chicchessia, quindi, senza particolari risultati per il mio racconto, guardo i portici e la piazza vuota. 

Dopo un po’ decido di cambiare postazione, verso gli uffici della delegazione comunale. Da Barco a Ponte, mentre guidavo, ho contato almeno una dozzina di bar, il più affollato qui in piazza è il Bar Nuovo, gestito da una ragazza asiatica e frequentato un po’ da tutti, anziani locali, famiglie magrebine, qualche coppia. Intanto, in lontananza si intravede un signore brizzolato che orina addosso a un murales, nel cortile della delegazione. Mi fermo davanti a una targa commemorativa posta sul cemento armato dello stabile, leggo i nomi dei caduti della Grande Guerra: Saturno, Ferdiano, Artemio, Romolo, Vito, Alfonso, Sante, Cirillo. Lo faccio spesso. Mi piace leggere i nomi di un altro mondo, frutto di altri desideri e sogni che non sono più i nostri. Mi piace leggere i nomi di quando significavano qualcosa, nomi rizomatici che portano ad altri nomi e altre storie. Ma forse qualsiasi nome, anche il più artefatto, pur non volendo, finisce col significare sempre qualcosa. Così come qualsiasi luogo, anche il più anonimo, se possiede una piazza dove giocano dei bambini, è sempre un luogo riuscito. Ciò che determina la riuscita di un luogo non è tanto l’estetica o l’urbanistica, ma la vita che vi scorre, la vita che si rigenera, che crea continuità e senso fino a diventare valore. A lato del palazzo degli uffici, ancora una lapide e un nome, stavolta è di un carabiniere avellinese di nome Carmine, morto nel tentativo di sventare una rapina, nel ’73.

Ormai è sera e sulla piazza arriva la luce della luna piena e un’aria tiepida e umida di pianura ottobrina. Mi infilo tra questi due bambini della scuola calcio locale che sul muretto giocano con le figurine. Sulla panchina di fronte, davanti alla chiesa, un anziano stempiato con l’indice all’insù sta dicendo a un’infermiera che ha appena finito il turno che ormai ci dobbiamo abituare al modello americano, questa è la realtà, bisogna pagare per qualsiasi cosa, conclude concitato, e comunque lui va in Veneto, si trova meglio. 

Torno al parcheggio con l’idea sghemba di andare a vedere il fiume di notte, invece mi perdo in questo reticolo rettangolare, funzionale e geometrico, che è Pontelagoscuro di notte. Tra una palestra, un campo di calcio illuminato, il mulino, passo per la bocciofila e il teatro Cortazar. Di fronte al Teatro, nel buio della sera, rivedo il monumento alla memoria di Ponte, degli alberi in cerchio che racchiudono macerie, indicando il luogo preciso dov’era situato il paese vecchio. 

Decido di rientrare. Forse, mi dico, la verità è che Pontelagoscuro non l’avevo mai visto sotto questa luce, all’ora dell’aperitivo di un venerdì sera post-pandemico. Dunque, quello che mi era parso un paese-satellite, un paese-ripiego, anche se nell’Italia post-industriale e antisocialista di oggi è un po’ come se a Ponte si abitasse l’idea di qualcun altro, comunque l’ho trovato vivo. Da un lato, è come se Pontelagoscuro fosse spuntato dal nulla, da abbandonate idee novecentesche, lavoro e industria, come un paese orientale ormai votato al neo-liberismo più sfacciato. Dall’altro lato, Ponte è uno di quei luoghi dove, tra la fatica e gli sforzi delle istituzioni per far fronte ai bisogni di una comunità in continuo cambiamento, dal Dopoguerra a oggi, hanno trovato casa a buon mercato tante nuove famiglie venute da ogni dove. Ed è questo che, piaccia o meno, fa di Pontelagoscuro una frazione e un paese più riuscito di altri: l’essere nuova dimora che ricrea la vita. E se Ferrara non vorrà diventare solo la vuota vetrina per turisti che molti desiderano, è bene che trovi il modo per dialogare con i suoi  futuri cittadini.

sandro abruzzese