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Sulla scuola, la società, le istituzioni

*Articolo comparso su La nuova Ferrara del 13 dicembre 2023

La scuola italiana nel dibattito pubblico viene costantemente, e in modo schizofrenico, investita del ruolo di formatrice delle nuove generazioni. Prova ne è l’inserimento ridondante dell’Educazione civica in una programmazione già oberata da decine di progetti, l’alternanza scuola-lavoro, e ora la recente richiesta di introdurre l’Educazione affettiva per combattere la piaga del femminicidio. Si procede dunque per addizioni, in assenza di visioni organiche, come se l’individuo fosse il frutto di un’operazione aritmetica. E invece la letteratura scientifica insegna che l’individuo è il frutto di un’epoca, alla sua formazione concorrono la famiglia, le istituzioni, e la società in cui si vive. 

Se una società si basa sulla competizione, se questa società ha come regola non scritta lo sfruttamento della sua parte fragile; se quello stesso Stato si fonda su un’economia predatoria nei confronti dei popoli in via di sviluppo e delle risorse del pianeta, sul militarismo e la guerra in politica estera; allora, e nonostante la scuola italiana, questa configurazione del globo e della società incideranno profondamente sulle nuove generazioni. La realtà concreta è configurante e più forte di qualsiasi buon comandamento.

La domande dunque è se è possibile formare generazioni migliori della propria epoca in vitro, nonostante le contraddizioni sopra riportate. Ne La grande trasformazione Karl Polanyi rispose che questa configurazione è la causa principale delle sofferenze della società, incluse famiglie e individui. E nella tradizione culturale italiana Francesco d’Assisi e Giacomo Leopardi, partendo da assunti opposti, ovvero presupponendo il primo la bontà del creato e il secondo la natura matrigna, approdano all’unica soluzione della solidarietà umana quale antidoto al male nel mondo. Si cresce desiderando un mondo buono e giusto per tutti, ma da adulti la realtà riproduce inesorabilmente il suo adattamento realista. 

La scuola poi, soprattutto alle superiori, resta tristemente complice della riproduzione sociale. I figli dei laureati, della borghesia colta, vedono un successo scolastico e universitario preponderante, mentre ancora una volta si indirizza la parte linguisticamente e culturalmente più fragile verso scuole tecniche o professionali. 

E che dire delle contraddizioni in merito all’applicazione della Costituzione? L’imposizione fiscale, le varie flat tax, derogano al principio della progressività. Il diritto al lavoro vede i giovani calabresi e siciliani subire una disoccupazione giovanile con punte del 65 per cento. La Costituzione antepone poi la dignità umana e la vita ad ogni altra legge, ma da decenni migliaia di esseri umani continuano a morire nel mar Mediterraneo. 

E ora il femminicidio: non solo viene uccisa una donna ogni tre giorni, ma i morti sul lavoro, spesso operai migranti, muoiono di lavoro quotidianamente. Il diritto alla salute soccombe davanti al collasso della sanità pubblica. E l’attuale sistema demagogico populista, che produce fantocci della cultura utili a condire talk show indegni e manipolare la realtà, nutrono questa società dello spettacolo, trasformando in merce e commercio qualsiasi accadimento, comprese i drammi e le tragedie. Davvero nessuno si accorge quale sia la parte di società che paga tutto questo? 

Riabitare: intervista sull’Irpinia

*Intervista a cura di Maria Fioretti pubblicata qui su Orticalab

«In Irpinia lo spazio è stato violentato e la mentalità clientelare ha fatto il resto, negando ai giovani la libertà»: lo sguardo di Sandro Abruzzese sui nostri luoghi interni

foto di Marco Belli

È nato e cresciuto nella Valle dell’Ufita, Sandro Abruzzese. Narratore di talento, oggi vive a Ferrara dove insegna materie letterarie in un Istituto d’Istruzione Superiore. Su queste colonne digitali abbiamo imparato a conoscere il suo pensiero, espresso in parole: l’ultimo regalo che ci ha fatto – lo trovate QUI – è una lettura, emblematica fin dal titolo Avere un posto nel mondo .

Un contributo tratto dal volume di prossima pubblicazione  Aree interne, sperimentare per ri/abitare , con sperimentazioni progettuali nei comuni molisani di Riccia, Jelsi e Gambatesa, a cura di Nicola Flora e Francesca Iarruso. La pubblicazione è divisa in tre parti: Saggi, Sperimentare col progetto, Sperimentazioni e prospettive nell’Alto Fortore: Riccia, Jelsi, Gambatesa.

«Si tratta di un elaborato curato dalla Facoltà di Architettura dell’Università Federico II di Napoli, su impulso del Professor Nicola Flora, coadiuvato da Francesca Iarruso. Grazie a loro ha trovato spazio – in un volume tecnico – anche una riflessione di carattere più letterario-filosofico, proprio perché è stato scelto un approccio multidisciplinare. Nel mio contributo ho provato a mostrare lo spazio e i legami dell’abitare, stando su un fronte diverso rispetto ad un architetto che intende costruire, provando a mostrare l’atto del costruire come una possibile violenza».

E l’Irpinia del post terremoto questa brutalità di una nuova fondazione l’ha subita: «Uno scritto in controtendenza, opposto al modo di pensare a questi luoghi, di raccontarli. Sono passati quarant’anni ormai, è tempo di occuparsi dei giovani, di chi abiterà la nostra terra tra vent’anni. Questa è una provincia in cui lo spazio è stato particolarmente abusato e continua ad esserlo, e paradossalmente mancano infrastrutture essenziali. Così a poco a poco si è finito per alimentare l’inabitabile, si crea una frattura insanabilecon l’unica ricchezza che abbiamo negli Appennini: il paesaggio, inteso come rapporto di cura dei luoghi e dimora. Inoltre costruendo male, oltre allo scollamento con la campagna, si sono create le condizioni per cui i grandi paesi irpini come Ariano, Grottaminarda, Solofra, hanno tutti i problemi di una città, senza averne i pregi, mentre i paesi più piccoli muoiono del tutto».

Le chiamiamo aree interne, ma secondo Sandro Abruzzese questa è una definizione che toglie molto al nostro essere: «La trovo imprecisa, personalmente non la apprezzo perché attiene a un lessico tecnico, freddo, distante. La distinzione di questi tempi non è fondamentale, certo, ma anche nel lessico si avverte la tendenza verso parcellizzazioni, una visione settoriale. Intendiamoci, chi si occupa di aree interne è nel giusto, ma non deve dimenticare che sta colmando il vuoto di “cultura nazionale” del Paese. Un’Italiache ha nella conoscenza profonda della sua storica frammentarietà, della sua molteplicità, è la vera soluzione per aver cura e attuare la Costituzione. Ho paura che, col termine aree interne, si finisca per parlare il linguaggio tecnico, e lo specialismo tende a restringere il campo, a vedere una parte del tutto. Accade lo stesso quando si parla di Sud in maniera troppo unitaria e indistinta».

Il vero nodo però non sta nel linguaggio. Noi ci specchiamo nelle istituzioni che ci governano: «Quella con cui in Irpinia abbiamo modo di confrontarci è un’istituzione, lo sappiamo, spesso clientelare. Ora questo tipo di politica non è solo antipatica o ingiusta eticamente, ma è soprattutto improduttiva economicamente e socialmente lesiva. Non spinge a intraprendere, non garantisce chi vuole rischiare qualcosa e, alla lunga, finisce col danneggiare irrimediabilmente il territorio. Ancora però mi pare non ci sia questa autocoscienza, questa ammissione, per cui forse siamo ancora incapaci di riconoscere che nel lungo periodo una mentalità politico-clientelare ottiene risultati molto limitati, pregiudicando l’interesse generale e con esso il futuro che fatichiamo a costruire. Le nostre case vuote e non finite, i figli lontani, ci dicono questo».

Ma come si sostituisce qualcosa di così radicato? «Innanzitutto prendendone atto. Non cercando di trasformare in statisti i vecchi notabili della Dc (in altri luoghi saranno di altro colore politico magari), perché non è così. E poi cercando di sostituirla questa cultura clientelare. Tirando su delle classi dirigenti che magari siano disposte a perdere pur di fare la scelta giusta per la collettività. Il punto è rendersi conto di che cosa abbiamo avuto e di cosa realmente vorremmo avere avuto, e quali sono i metodi per raggiungerlo. Se vogliamo prosperare deve essere chiaro che l’interesse della politica clientelare è contrario al libero sviluppo del territorio, alla partecipazione civica, all’associazionismo, e che un’istituzione piegata a queste logiche è un esempio negativo che denota e configura la società che lo subisce. Tutte le fabbriche che riempiono le aree industriali, sono state utilissime, essenziali per generare economia e lavoro nel breve periodo, certo, solo che per qualcuno i compromessi, l’assenza di trasparenza e di possibilità, ha generato una spinta inversa. Se penso alle possibilità di riabitare per i giovani, eliminerei la dicotomia tra restare e tornare, mi soffermerei sulla loro necessità di essere liberi. Nessuno dovrebbe subire un uso improprio, parziale e dannoso delle comuni istituzioni, sacrificandovi la propria libertà».

Potremmo considerare che la SNAI – alle nostre latitudini – sia fallita in Alta Irpinia anche per questo, perché è successo di trovare un Sindaco molto più forte della stessa Strategia Nazionale per le Aree Interne, capace di tenere sotto scacco l’intero progetto e tutta l’area pilota: «Chi ha costruito il suo potere su una mentalità padronale difficilmente si dimostrerà aperto al rinnovamento, perché non lo puoi controllare il cambiamento, e quindi non sarà disposto a rinunciare al suo mondo per il nostro. Pensiamo ad esempio agli ospedali che chiudono o che non funzionano, che non riescono mai ad essere un’eccellenza, si preferisce questo, finendo per creare quel fenomeno del turismo sanitario che è umiliante per il cittadino meridionale. L’Istituzione è connotante, è un esempio, educa, ed è figlia di una mentalità. E quando è davvero capace di ricoprire il suo ruolo, riesce a togliere alle comunità, cosiddette marginali, anche qualche complesso di inferiorità, dimostra che ce la possiamo fare. Il nodo istituzionale si rivela fondamentale per l’Irpinia, per il Meridione che deve recuperare quella cittadinanza attiva soffocata dal potere politico. Ecco, si potrebbe partire da questo, dall’ammettere che fino ad ora si è generato sudditanza, che non è volano di prosperità e intraprendenza o cambiamento, ma di privilegio».

Sandro Abruzzese è uno di quei figli che se ne è andato: «Senza più tornare, o meglio per tornare ho dovuto inventarmi un mestiere. Questo mio scrivere non è altro che la voglia di restare e esserci, mi consente di stabilire delle relazioni pur mancando la presenza fisica, il pensiero ai miei luoghi è costante. Non posso rinnegare la partenza, troppe volte i giovani sono stati traditi da chi è venuto prima di loro. Nella mia esperienza l’emigrazione è stata una forma di redenzione, ha significato lasciarsi alle spalle tutto, rimettersi in discussione e non basta dirsi che lo hai fatto per un lavoro migliore e per dei servizi garantiti, perché resta un percorso doloroso, di perdita. Nessuno mi pare ricordi mai la divisione tra chi è complice e resta nel privilegio a casa, chi ha ricevuto vantaggi dall’iniquo stato di cose, e chi è dovuto o è voluto andar via, anche questa è un’ennesima frattura e rimozione collettiva. Invitare i giovani ad un ritorno, tenendo fuori questi nodi, sarebbe ingiusto e retorico».

Dopotutto è questa la nostra più grande contraddizione, un’infinita bellezza e nessuna capacità di costruire un progetto: «Viviamo dei luoghi fatti di semplicità, con vallate e colline aperte, maestose. Eppure ogni paese è ricostruito voltando le spalle a questa bellezza. Ma una volta che ci è stato tolto questo rapporto, cosa resta? Senza campagne, senza fiumi, senza boschi, e centri urbani vivi, e ragazzi, e figli. Senza lavoro, senza continuità generazionale, e per giunta con l’inquinamento, col cemento e l’incuria…Questa è la nostra compresenza dei tempi, di assenti e presenti, di nostalgia e scettico cinismo. Se non riconosciamo queste e altre contraddizioni profonde sarà difficile ri-abitare per davvero».