L’America di Baudrillard: utopia realizzata da esiliati

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Il segreto del mito moderno nell’assenza di radici

Forse è vero, come scrive Baudrillard (L’America, Feltrinelli, 1987), che la solitudine degli americani non assomiglia a nessun altra. E che più triste di un mendicante “è l’uomo che mangia solo in pubblico”, come lui vede accadere per le strade di New York in questo suo viaggio americano. Tanto ci sarebbe ancora da dire sull’immane sofferenza individuale che ha sorretto e continua a sorreggere gli Stati Uniti. Su quel mondo di sradicati, generato da un’irresistibile forza centripeta. Sulle loro vicissitudini sapientemente narrate dalla letteratura, dal cinema, dalla musica statunitense. Ma insomma, per un europeo è possibile capire l’America? È possibile comprendere un Paese che nasce dall’emigrazione e dall’esilio, dal genocidio, dallo sterminio, per diventare la più grande potenza mondiale della storia?

Per Baudrillard l’America è il paese dell’utopia realizzata, il paese che, attraverso “un’ingenuità bruta” riesce a rendere pragmatico, a materializzare qualsiasi idea o valore approdi oltreoceano. Sebbene tutto ciò assuma forme radicali, se pure lo studioso francese sottolinea gli aspetti di incultura, di mediocrità e semplicità di linguaggio e caratteri, egli stesso invita a non giudicare l’America “moralmente” perché così essa ci sfuggirebbe, divenendo una mancata Europa.

E invece bisogna osservare le caratteristiche che la rendono il Paese del sogno e degli idoli: la capacità di cristallizzare, di materializzare desideri, di dare forma, e, non ultima, la capacità di contagio, in grado di generare quell’attrazione irresistibile che tutti conosciamo. Dunque, l’originalità americana starebbe, secondo Baudrillard, nell’assenza di giudizio per ottenere la “commistione degli effetti”: tenere insieme il silenzio, l’assenza, la durata immutabile, il sublime della Death Valley e la follia, l’istantaneità, la prostituzione, il delirio di Las Vegas, per esempio. Tenere insieme anoressia e bulimia in una società-ossimoro che aborrisce la mancanza per non sentirsi mia sazia.

L’America è un paese moderno perché la sua essenza è nell’artificio, ricorda il filosofo francese, citando Baudelaire. E se per noi europei rappresenta l’esilio e l’emigrazione, questi stessi elementi riconducono a loro volta alla leva per l’utopia del successo e dell’azione che diventano credo condiviso, legge morale. Il fatto è che, non possedendo culto delle origini, non avendo un’autenticità da difendere e ancor meno un passato, una verità fondatrice, sostiene lo studioso, l’America vive una “perenne attualità”. Di conseguenza essa si compie di continuo e il cinema, l’aura mitica o epica della narrazione a stelle e strisce a cui tanto siamo abituati e che un po’ ci fa sorridere, non ne è che la diretta conseguenza. Ma se l’europeo sorride dell’ingenuità americana, il punto principale non cambia. Il candore, la convinzione americana, si nutrono della loro utopia realizzata, si nutrono del successo come di una conferma della predestinazione. Non solo. Loro credono fermamente in se stessi, sottolinea B., ma convincono anche gli altri fino ad “affascinare le proprie vittime” con la materializzazione dei sogni.

Perché l’Europa non è l’America? Perché noi ci proponiamo gli ideali del 1789, e il progresso, la libertà o l’uguaglianza rimangono ideali irrealizzabili se non per vaga approssimazione, argomenta lo studioso. La nostra cultura, dice B., il nostro spirito critico, il giudizio continuo, non hanno l’audacia e l’anima dell’incultura americana. Noi critichiamo il capitalismo, ricorda lo studioso, ma, prima di averne comprese le forme ultime, il capitalismo ha già mutato aspetto, sarà sempre avanti, mutevole, imprendibile.

In definitiva, per B. l’America è rottura con la Storia, è una “faglia” europea che non si avvale della sua dialettica, bensì di un dinamismo eccentrico (nel senso di privo di un centro). Anche la sua mescolanza razziale e etnica, a differenza dei propositi di integrazione europea, viene vissuta come “intensa rivalità”, come antagonismo e competizione, come sfida per il sopravvento. E quindi quest’America è velocità e verticalità, dinamismo, dismisura, immoralità. È un Paese indulgente, autoassolutorio, che maschera nel trionfalismo i suoi sensi di colpa, la sua violenza.

Questa complicità, questa forza, prosegue B., in questo caso citando Toqueville, deriva da un’uguaglianza declinata dagli americani sotto il profilo pratico, materiale, utopico, che non si avvale di ideologia sociale né politica, bensì di un patto morale. La forza sta “nella preminenza dei costumi”, nell’organizzazione pratica, che genera “un’egemonia del comportamento”, al punto che la stessa politica, o la religione, sono intese come regola, sono fissate in uno schema.

Dunque, l’America non sarebbe il Paese di chi cerca un’identità, ma quello che fonda il suo successo, che conserva il suo segreto nell’assenza di “radici”. È l’assenza di radici, lo sradicamento degli esiliati, degli emigrati, l’assenza di storia, l’organizzazione pratica tipica del settarismo insulare, questo genera l’America della tecnologia e del cinema, degli spazi sconfinati, della velocità e del mito moderno. Se è vero che tutto risulta eccessivo nello stile di vita americano, questo dimostra di continuo e quindi conferma a loro stessi la libertà di cui godono, che è libertà d’azione, pratica. Lo stile di vita conferma, nell’eccesso orgiastico e immorale, nell’artificio che crea la realtà, la riuscita di un modello che potremmo definire ottuso, acritico, e tuttavia efficace per i propositi scelti.

Tutte queste riflessioni fanno dire a Baudrillard che il futuro è dei popoli senza origine, dei popoli artificiali e inautentici in cui però, se c’è un elemento che, più di ogni altro, incute terrore, è l’indifferenza: una società ingenua e orgogliosa come quella americana conserva nell’incultura il suo senso, la sua originalità, rendendola “simulacro e riflesso parodico” della nostra stessa decadenza europea.

Sandro Abruzzese