Il fiume bagna Pontelogascuro

Articolo pubblicato, con le foto di Marco Belli, nella rubrica Racconti Viandanti su La Nuova Ferrara del 18 ottobre 2022

Non so perché sia così difficile scrivere di Pontelagoscuro, forse perché la prima volta che ci sono stato non ne avevo capito poi molto del luogo. La prima volta mi era sembrato sì un paese del socialismo reale, un paese-periferia, costruito ai margini, per gli operai delle fabbriche attigue, per operai migranti come i marchigiani, o come i meridionali venuti a lavorare al nord, ma non certo un paese di fiume, una volta di dogane e pescatori, di portici e porti, lì in riva al Po. 

A Ponte, a differenza di Francolino o Ravalle, non c’è niente, venendo da Ferrara, che faccia pensare al fiume. Solo dall’argine, guardandolo con le ciminiere e i vapori del Petrolchimico come sfondo, si capisce il rapporto reciso, quella distanza artificiale creata tra paese e fiume. Da qui il rimorso per non aver inteso che Ponte non è solo un altro di quei quartieri nuovi a cui ci ha abituato l’Italia dei terremoti e delle alluvioni, bensì, avrei scoperto dopo, una delle tante vittime dell’ultima guerra mondiale. 

Fatto sta che per scrivere di Ponte devo vincere questa reticenza inconscia e, a un certo punto della giornata – per la precisione di un venerdì d’ottobre all’imbrunire – prendere l’auto per infilare la solita via Canapa. Dunque, come tante altre volte, superato Barco, attraverso le ordinate palazzine operaie che danno sempre l’aria di essere in un film di Ken Loach, arrivo ancora una volta in piazza, davanti alla chiesa in mattoncini dedicata a San Giovanni. 

Lì però, non sapendo bene che fare, abbastanza improvvisato e balzano, lo ammetto, insieme ad altri avventori dall’accento slavo che parlano di andare ad una festa non so dove, mi siedo sul muretto davanti al negozio di bibite di un pachistano. Gli slavi, divisi in due gruppi, uno di anziani a sinistra, uno di ragazzini a destra, mi guardano brevemente e senza interesse. La piccola figlia del gestore invece, davanti al negozio, gioca solitaria con dei cartoni vuoti. Sono solo, ho un ginocchio gonfio da giorni e, per giunta, non ho alcuna voglia di parlare con chicchessia, quindi, senza particolari risultati per il mio racconto, guardo i portici e la piazza vuota. 

Dopo un po’ decido di cambiare postazione, verso gli uffici della delegazione comunale. Da Barco a Ponte, mentre guidavo, ho contato almeno una dozzina di bar, il più affollato qui in piazza è il Bar Nuovo, gestito da una ragazza asiatica e frequentato un po’ da tutti, anziani locali, famiglie magrebine, qualche coppia. Intanto, in lontananza si intravede un signore brizzolato che orina addosso a un murales, nel cortile della delegazione. Mi fermo davanti a una targa commemorativa posta sul cemento armato dello stabile, leggo i nomi dei caduti della Grande Guerra: Saturno, Ferdiano, Artemio, Romolo, Vito, Alfonso, Sante, Cirillo. Lo faccio spesso. Mi piace leggere i nomi di un altro mondo, frutto di altri desideri e sogni che non sono più i nostri. Mi piace leggere i nomi di quando significavano qualcosa, nomi rizomatici che portano ad altri nomi e altre storie. Ma forse qualsiasi nome, anche il più artefatto, pur non volendo, finisce col significare sempre qualcosa. Così come qualsiasi luogo, anche il più anonimo, se possiede una piazza dove giocano dei bambini, è sempre un luogo riuscito. Ciò che determina la riuscita di un luogo non è tanto l’estetica o l’urbanistica, ma la vita che vi scorre, la vita che si rigenera, che crea continuità e senso fino a diventare valore. A lato del palazzo degli uffici, ancora una lapide e un nome, stavolta è di un carabiniere avellinese di nome Carmine, morto nel tentativo di sventare una rapina, nel ’73.

Ormai è sera e sulla piazza arriva la luce della luna piena e un’aria tiepida e umida di pianura ottobrina. Mi infilo tra questi due bambini della scuola calcio locale che sul muretto giocano con le figurine. Sulla panchina di fronte, davanti alla chiesa, un anziano stempiato con l’indice all’insù sta dicendo a un’infermiera che ha appena finito il turno che ormai ci dobbiamo abituare al modello americano, questa è la realtà, bisogna pagare per qualsiasi cosa, conclude concitato, e comunque lui va in Veneto, si trova meglio. 

Torno al parcheggio con l’idea sghemba di andare a vedere il fiume di notte, invece mi perdo in questo reticolo rettangolare, funzionale e geometrico, che è Pontelagoscuro di notte. Tra una palestra, un campo di calcio illuminato, il mulino, passo per la bocciofila e il teatro Cortazar. Di fronte al Teatro, nel buio della sera, rivedo il monumento alla memoria di Ponte, degli alberi in cerchio che racchiudono macerie, indicando il luogo preciso dov’era situato il paese vecchio. 

Decido di rientrare. Forse, mi dico, la verità è che Pontelagoscuro non l’avevo mai visto sotto questa luce, all’ora dell’aperitivo di un venerdì sera post-pandemico. Dunque, quello che mi era parso un paese-satellite, un paese-ripiego, anche se nell’Italia post-industriale e antisocialista di oggi è un po’ come se a Ponte si abitasse l’idea di qualcun altro, comunque l’ho trovato vivo. Da un lato, è come se Pontelagoscuro fosse spuntato dal nulla, da abbandonate idee novecentesche, lavoro e industria, come un paese orientale ormai votato al neo-liberismo più sfacciato. Dall’altro lato, Ponte è uno di quei luoghi dove, tra la fatica e gli sforzi delle istituzioni per far fronte ai bisogni di una comunità in continuo cambiamento, dal Dopoguerra a oggi, hanno trovato casa a buon mercato tante nuove famiglie venute da ogni dove. Ed è questo che, piaccia o meno, fa di Pontelagoscuro una frazione e un paese più riuscito di altri: l’essere nuova dimora che ricrea la vita. E se Ferrara non vorrà diventare solo la vuota vetrina per turisti che molti desiderano, è bene che trovi il modo per dialogare con i suoi  futuri cittadini.

sandro abruzzese

Della retorica sui paesi 

*Articolo comparso in precedenza su Mimì, l’inserto culturale domenicale del Quotidiano del Sud

Nei piccoli paesi, scrive Giovanni Verga in Mastro-don Gesualdo, c’è della gente che farebbe delle miglia per venire a portarvi la cattiva nuova

E questo è un paese piccolo, aggiunge Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo, in cui è difficile sfugga alla gente una relazione, per quanto segreta, un vizio

Ripenso a queste frasi, le associo meccanicamente a un altro libro importante, La luna e i falò di Cesare Pavese, dove l’io narrante dice: un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti

Queste parole di solito vengono intese quale sorta di inno alla necessità di una comunità di appartenenza. Raramente chi le cita prosegue fino ad arrivare al resto e cogliere la parte più inquieta della riflessione: Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio […] e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora cos’è il mio paese?.
È strano, ma anche indicativo dei nostri tempi a-storici e a-politici, ben rappresentati dai puzzle e dalle cornici di frammenti dell’epoca dei social network, che lo spopolamento dei paesi e della provincia italiana – un fenomeno, lo ricordiamo, relativo a tutti i paesi industrializzati del globo, – dia luogo a un immaginario edulcorato e antistorico della precedente vita dei paesi. Come per un forte trauma psicologico, si finisce per dimenticare il negativo e conservare il positivo di questi luoghi. Ciò che viene omesso nella narrazione odierna spesso è proprio ciò che principalmente raccontavano Verga e Pavese: la tematica sociale, il retaggio culturale, la riproduzione di valori antidemocratici, le divisioni e le lotte per il dominio politico al suo interno. 

Sui paesi, Sciascia non le manda certo a dire, come quando, sempre in A ciascuno il suo, fa dire a uno dei suoi personaggi: E poi, per uno che ha scelto di stare in paese, che è deciso a non allontanarsene, che ambizioni vuoi che restino?

Questa frase finale, non volendo, ci dice che spesso chi idealizza i paesi è l’adulto senza più ambizioni o già realizzatosi, di contro è raro che si inverta la prospettiva per chiedere ai giovani al di sotto dei vent’anni cosa, del luogo in cui crescono, non risponde al loro immaginario e ai conseguenti desideri. Come è raro che si indirizzino gli sforzi politici nella risposta alle aspirazioni giovanili.

I paesi mitizzati e festeggiati, fuori dalla storia, se spoliticizzati, sono falsamente omogenei e uniti in un’artefatta idea di comunità. La fragilità, l’invecchiamento, l’emigrazione, pur producendo uno slancio emotivo positivo, corrono il rischio di cancellare la complessità e l’ambivalenza dei paesi, la cui parte reazionaria si annida proprio nei sedicenti valori tramandati in seno alle comunità locali e alle loro classi dirigenti. E quando la storia è ingiusta, e magari ingiusta per troppo tempo, un luogo può diventare qualcosa da cambiare a ogni costo, oppure da abbandonare per sempre, qualcuno prima o poi dovrebbe ricordarlo.

sandro abruzzese

Celati: in fuga verso la foce

*Articolo comparso in precedenza sulla rivista “Laboratori critici” (Samuele editore)

Gianni Celati è stato un intellettuale originale per tanti, troppi motivi, che evidentemente non è possibile affrontare esaustivamente in questa sede. Tenterò dunque qui di indicarne alcuni, rifacendomi in particolare a un libro, Verso la foce (Feltrinelli 1989), che ritengo in grado di condurci a comprendere diversi aspetti importanti del mondo poetico dell’autore. Libri come Verso la foce e Narratori delle pianure non hanno fornito solo nuove prospettive critiche e letterarie nel panorama culturale italiano, ma hanno aiutato generazioni di scrittori e lettori a comprendere il ruolo della realtà circostante nella lotta contro l’omologazione dell’immaginario mediato dalle tv e dall’industria culturale. Quello di Celati, inoltre, è un corpo a corpo con se stesso per ridare intensità alla vita attraverso la letteratura. Un discorso a più piani e livelli, complesso, stratificato, che parte dall’enigma primordiale per arrivare a interrogarsi su cosa ci facciamo noi tutti al mondo, come quando ricorda: “Noi siamo guidati da ciò che ci chiama e capiamo solo quello; lo spazio che accoglie le cose non possiamo capirlo se non confusamente” (Verso la foce, pag 55). 

Sebbene l’autore ferrarese sottolinei spesso la finzione, l’artificio e l’impostura di qualsiasi letteratura, al contempo egli lavora alla riscoperta del racconto orale, della lingua viva che viene dal mondo circostante, e lo fa, lo ricordiamo con le sue stesse parole, anche perché “Ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando stai in casa credendo di aver capito qualcosa in generale” (Verso la foce, pag. 57). Non è solo una fuga dalla letteratura, come l’ha felicemente definita Marco Belpoliti, o una postura antiaccademica che fa pensare per certi aspetti all’antilirismo di Pasolini. È pure un rammentare che le cose vengono dal mondo, dall’aria, e dal corpo. Dunque Celati, come fosse un Lukacs o un francofortese, ma  a modo suo, col suo stile, contesta e ridiscute l’uso distorto che la nostra civiltà fa della ragione e dell’intelletto. Ecco perché ama e traduce London e Swift, ecco perché propugna una letteratura che fa accadere le cose, che muove alla meraviglia e allo stupore, al viaggio e alla scoperta. In fin dei conti, nell’uso del corpo e nella riscoperta del mondo, Celati tenta di  ripristinare delle funzioni vitali e così risolvere la nostra moderna inadeguatezza alla vita: “Non si è mai estranei a niente di ciò che accade intorno, e quando si è soli ancora meno. Il corpo è un organo per affondare nell’esterno, come pietra, lichene, foglia”. 

Intendiamoci, egli è, come qualsiasi intellettuale, uno sradicato che combatte col fatto che “in fondo là fuori non c’è niente di speciale da vedere o registrare, c’è solo tempo che passa. Lo spazio è una specie di grande galera dove si sta ad aspettare qualcosa: nessuno sa cosa, ci si fa delle idee, e c’è solo tempo che passa” (p 77). Per questo, proprio mentre sembra tendere verso l’origine, in qualche modo sente il bisogno opposto, quello di rifiutarla; appare cioè attratto, partecipe, e a un tempo distante dall’appartenenza degli altri, dal radicamento e dal bisogno d’identità scaturito dal rapporto dei luoghi col moderno. 

In questa prospettiva, la scrittura di Verso la foce si pone prima di tutto come una felice cura per chi scrive, è in grado cioè di dare un nuovo ritmo a chi lo ha smarrito, dunque fa respirare, al punto che non è difficile immaginare un’ansia che si placa accogliendo lo spazio e il tempo, accettando le incognite, l’indeterminato e il provvisorio, come fa Celati immerso nella pianura lungo il Po. Questa necessità dell’autore lo porterà a promuovere in un’antologia, Narratori delle riserve, una serie di nuovi autori che scrivono per i suoi stessi motivi, che scrivono per necessità quasi fisica, e per sfuggire alla dittatura e alla malattia della ragione. 

In fondo, che ci si trovi in una grande metropoli o in un luogo sperduto, che sia il capriccio della mondanità o una calamità come la solitudine, ogni volta l’autore ferrarese ricorda che si tratta di tempo che passa. E allora narrare la qualsiasità Zavattiniana, o il mondo com’è e come accade, per dirla col suo amato Wittgenstein, lo porta verso i luoghi marginali e reticenti, dove non c’è niente da vedere, e dove le disfunzioni, i tic, le contro-condotte trovano terreno fertile contro il mondo dei progetti calati dall’alto. 

Certo, negli itinerari di Verso la foce non c’è solo il mondo fatto di immagini, come recita il verso di Holderlin scelto in esergo, ma anche la volontà di ri-vedere e ri-conoscere quei luoghi per motivi affettivi. La famiglia di Celati è nativa dell’est ferrarese, dunque il suo è un ritorno che apre a una ri-scoperta, la quale a sua volta conduce a un processo di razionalizzazione e comprensione nuova, sia della propria storia familiare, in cui ognuno è sempre invischiato, che dell’epoca in cui viviamo. La vita è un fatto personale, verrebbe da dire ancora col Pasolini degli Scritti corsari, e Celati in questo viaggio fonde intimità e  sensibilità storico-sociale. Egli ritrova nella sussistenza e nella parsimonia che rimandano alla passata miseria, come pure nei gesti e nelle parole della gente di pianura da cui proviene, parte delle sua famiglia. Gesti che sembrano nascere dallo spazio circostante, come se lo spazio infondesse movenze, forme, pensieri, in chi vi abita, e che ritornano all’autore sotto nuova luce. A questo Celati si potrebbe, certo, rimproverare di trascurare il politico, di guardare la forma delle cose, dei luoghi e delle persone, senza voler arrivare esplicitamente alla natura politica di tanti fenomeni, ma un autore attraverso le sue intuizioni deve suscitare delle domande, non fornire risposte.

Insomma, se da un lato per Gianni Celati ogni discorso è un’illazione, e quello che sappiamo del mondo è sempre approssimativo, allora il mondo è qualcosa di troppo complesso per volerlo spiegare agli altri. A questo punto guardare diventa la finzione più onesta, perché comunque abbiamo bisogno ogni giorno di riempire un vuoto, di “arginare” il fatto che ogni epoca, come una marea, ci dirige verso gli accadimenti, ed è puerile tentare di fermarla con l’ipocrisia della letteratura, anche perché, dice l’autore, le parole “sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”.

Infine, Celati ha dimostrato che saper guardare è sempre un’avventura, perché può voler dire mettersi da parte per ritrovare l’altrove, occupandosene, ovunque esso sia. Per farlo, occorre restituire al tutto almeno una parte della sua indeterminatezza. Non meno importante è la sua lezione sull’assenza di radici. Se l’intellettuale deve avere vicinanza e lontananza col mondo, con Celati, come con Heidegger, è chiaro che l’intellettuale lotta con le origini fino a scoprirsi essere senza origini, fino a scoprire che l’umanità è un fenomeno tra gli altri, in grado però di creare con la letteratura nuove e inedite ramificazioni, che nutrono “il tempo che passa”, e che sono importanti per un rapporto autentico con la vita. 

Con Celati riscopriamo che si può raccontare il vuoto, l’assenza, l’inezia, senza mai ammiccare al lettore o all’editore. Narrare magari come atto sempre nuovo eppure antichissimo, sempre gravido delle voci narranti dei senza voce, ai margini, sempre in bilico tra moderno e pre-moderno.

È questo coraggio di scrivere, questo fuggire dall’irrealtà attraverso una lingua che vivifichi, che dobbiamo a Gianni Celati, il quale ha saputo rincorrere il mito, riportando però il fantastico alla terrestrità. Con lui abbiamo capito che essere “umani” vuol dire fallire onestamente, con tutto il coraggio che ci vuole per ammettere con se stessi e con gli altri tutta la propria fragilità.

sandro abruzzese

Badiou a Lendinara

Arrivo a Lendinara in una rovente domenica di inizio giugno con la giusta dose di curiosità dovuta alla lettura di qualche vecchio racconto di Gian Antonio Cibotto e subito provo per questa cittadina assopita lo stesso stupore provato a suo tempo nella vicina Fratta Polesine. Di Fratta avevo annotato che rappresenta un’altra storia rispetto al Polesine, che la sua grazia parla di Venezia più che della provincia di Rovigo. La bellezza di Lendinara non solo conferma quell’impressione, ma la rinforza: le sue piazze, il teatro, le numerose chiese, il Duomo, la grazia dei viali lungo l’Adigetto, insomma il corpo di Lendinara fa pensare a un luogo riuscito, privo di fantasmi. 

Anzi, Lendinara sembra dire al visitatore dilettante come me che lei, al contrario di altri, nonostante le catastrofi e le alluvioni, nonostante il significativo calo della popolazione successivo alla rotta del ’51, ebbene ce l’ha fatta. Anche le campagne abitate e curate lo ribadiscono. Tutto d’intorno rassicura che il rapporto col mondo moderno a Lendinara è stato comunque positivo. Magari il successo, il dinamismo economico, la cura del patrimonio artistico, lo si deve al vento del Nord, a questo suo proiettarsi verso locomotive dello sviluppo come Padova, Vicenza, Verona, chi può dirlo? Nel dubbio, lo chiedo al benzinaio sulla statale verso Rovigo. Lui ascolta annoiato, si guarda le unghie, poi conferma con una frase secca che questo è Polesine, ed è sempre stato Polesine. Non c’è altro da dire.

E allora perché girando alla controra in questa città a tratti sontuosa, mi viene in mente uno come Alain Badiou?

Una volta tornato a Ferrara con questo tarlo nella mente, vado a riprendere i miei appunti sul filosofo francese e subito, con una sola frase, risolvo l’arcano: tutto il reale, scrive, si rivela nel crollo di una finzione. Ecco la risposta che cercavo. Una città riuscita come Lendinara, una piccola città di una qualsiasi democrazia capitalista europea, se è un artificio in grado di generare e appagare le aspirazioni di chi la vive, è pure un luogo che, con la sua finzione, con i bar, le vetrine, le passeggiate, a maggior ragione maschera e ottunde il reale. Voglio dire che le sue illusioni sono in grado di far dimenticare il fragile, il non riuscito, il fallito dell’esistenza. E allora per chi come me va in giro per cercare il reale, anche se a volte in maniera balzana, lo ammetto, Lendinara è un altro limite, un’ennesima soglia, come la Romea, come Chioggia e Ravenna o Baricella. Il suo campanile altissimo, per esempio, l’aria morigerata del borgo cattolico, sono come una rappresentazione teatrale o un romanzo di Parise. Lendinara, come qualsiasi altra città, propone il suo scenario perché ha una sua forza o idea di mondo da mostrare all’avventore. E questa forza non rende accessibile il fallito dell’esistenza come invece accade nei luoghi fragili: a Pila, a Papozze, a Ariano Ferrarese, a Berra o Villanova Marchesana. 

Per accedere al reale dell’Italia occorre qualcosa di non riuscito, rimasto fuori da piani e progetti nazionali o regionali, qualcosa come parte del Meridione, delle isole, delle montagne italiane. Per comprendere l’Italia e il mondo occorrono luoghi che non riescono a prendere la forma che il moderno pretenderebbe da loro, né riescono a sposare armonicamente l’antico e il nuovo, come fa Lendinara, e per questo restano a margine, tramortiti o ignorati. 

Se ci pensiamo bene, la maggior parte del globo è fuori dal mondo riuscito e per questo subisce lo sfruttamento delle risorse del pianeta, l’espropriazione di ingenti ricchezze, senza ottenere in cambio nemmeno l’acqua potabile. Allora il reale ci parla di diseguaglianza, ecco perché i luoghi esuli, dimenticati, e le persone in qualche modo esiliate con loro, riflettono la mancata riuscita della democrazia. Anzi, per dirla con Badiou, la democrazia diviene anch’essa finzione, complice di uno Stato che finge di inseguire dei valori democratici, per garantire invece posizioni acquisite, configurazioni e ordini costituiti. 

Per non avvertire questa finzione democratica abbiamo bisogno di un’intera industria globale dell’intrattenimento e dello spettacolo che tramite i soliti volti noti trasforma in merce a scadenza breve qualsiasi argomento, dall’Ucraina all’ecologia. Immagini fittizie, film e canzoni irreali, televisioni e radio scanzonate perpetuano la distrazione dal reale e quindi dal politico.

Viaggiare nel Polesine allora vuol dire avere a che fare costantemente col reale, è il potenziale che ancora i luoghi più fragili mettono a disposizione del viandante.

Se ogni città è un sogno, se ogni luogo è un mondo, il Polesine e l’estremo limite della pianura ricordano che tutti dovrebbero poter sognare gli stessi sogni, e che se il fragile permette di costruire senza superbia e tracotanza, perché mostra ciò che manca, i luoghi del potere restano troppo spesso preda di piani egocentrici per cui non esitano ad accentrare e accumulare, in una spirale catastrofica, altro potere. 

s.a.

La restanza: per un’antropologia dei paesi

*Articolo comparso in precedenza qui su Doppiozero

Ho conosciuto Vito Teti grazie a La razza maledetta (Manifestolibri, 1993), un libro che smontava pezzo dopo pezzo la retorica antimeridionale in auge in Italia dalla fine degli anni ‘80, nelle tv e sui giornali, grazie al successo della Lega Nord di Umberto Bossi, e lo faceva col consueto metodo e rigore scientifico che avrei imparato ad apprezzare in seguito. 

Teti, antropologo calabrese di San Nicola da Crissa, nelle Serre vibonesi, negli ultimi vent’anni si è dedicato come pochi agli studi sul paese e sui paesi, al senso dei luoghi, nonché agli studi sull’emigrazione, sui ritorni, sulle catastrofi, sulle pratiche del restare, al punto che, da questo suo lavoro, nel 2021, è nato il documentario indipendente di Luca Calvetta e Massimiliano Curcio, Il paese interiore, con la voce di Ascanio Celestini, visibile qui.

La restanza, l’ultimo libro licenziato da Teti ad aprile 2022 per le Vele di Einaudi è un ennesimo prezioso ritorno, un memoir che riprende i temi principali dei suoi studi insieme alle esperienze ultime, dalla collaborazione allo Sponz Fest di Calitri con Vinicio e Mariangela Capossela per dar vita all’Università dei ripetenti, agli incontri con le tante realtà italiane che si ispirano al concetto di restanza

Questo ritorno alla restanza era a maggior ragione necessario perché quello che un tempo era il tema storico, politico e culturale per eccellenza dell’Italia repubblicana, ovvero il problema della frammentazione e dello squilibrio della penisola italiana – che arriva alla famigerata quanto ormai rimossa Questione meridionale – è stato negli ultimi decenni parcellizzato e settorializzato, riducendone la portata complessiva. La stessa antropologia dei paesi, una volta campo soprattutto di letteratura e documentaristi, penso a Pavese e Meneghello, a Di Gianni, solo per fare dei nomi, è oggi diventato l’ennesimo brand strumentalizzato dall’industria culturale, che ha subito proposto nuovi specialisti della montagna, temi neo-romantici, neo-borbonici, oppure è stata presa in carico da settori specifici e studiosi delle cosiddette aree interne. E se chi si occupa di aree interne è sicuramente nel giusto, tuttavia il lessico specifico denota un restringimento di campo a un settore, alle sue parti, non al tutto, ovvero al problema del deficit italiano di cultura nazionale.

E qui non solo la restanza, bensì tutta l’opera di Vito Teti – penso ai recenti Pathos e Homeland, con le fotografie di Salvatore Piermarini – può essere vista come un unico discorso nazionale intorno a un’Italia sì disomogenea, ma anche largamente interdipendente e interconnessa tra le sue parti, e connessa con l’altrove dei suoi migranti all’estero, dei suoi doppi. 

Se Teti è un calabrese di una delle province più povere del paese, figlio di migrante oltreoceano, come buona parte degli abitanti del suo paese, che per gemmazione si è ricostituito a Toronto (Homeland, Rubbettino 2022), da questa esperienza subalterna, prima che dai suoi studi, gli derivano uno spiccato senso del sacro, la pietas e il suo nostos.

Teti porta questa doppiezza del paese e della memoria, dell’inconscio e della coscienza, nel campo dell’autobiografia, dunque conduce un borgo di poche anime all’interno di una cornice universale. Alla nostra civiltà delle macerie e delle devastazioni del moderno, delle guerre totali e tecnologiche, del collasso climatico, l’Italia di Teti risponde con la conoscenza profonda della sua storica frammentarietà e molteplicità quale chiave per comprendere i propri annosi problemi: dalla cura dei luoghi dimenticati, fragili e indifesi, all’attuazione della Costituzione repubblicana. 

Restare, partire, tornare, sono termini lungamente sviscerati dall’antropologo lungo il corso della sua carriera. In questo contesto, però, la restanza di Teti acquista un carattere nuovo, proponendosi come motore di una riconfigurazione etica dell’esistenza:


“Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni. (…) Perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine.” (La restanza, Einaudi 2022)

Non c’è spazio per localismi, chiusure identitarie antimoderne, né per la visione immobile e a-storica del sentimento o di una cattiva estetica, anzi l’interesse si rivolge alla propulsione dovuta se vogliamo a una nostalgia attiva (Nostalgia, Marietti 2020) data dall’accento sul lato inclusivo del luogo: “tale in quanto abitato, umanizzato, riconosciuto, periodicamente rifondato, dalle persone che se ne sentono parte”. 

Insomma, laddove l’emigrazione si lascia indietro catastrofi come l’esodo silenzioso del mondo contadino, un patto nazionale e locale di responsabilità e cura può essere la strada per rifondare il rapporto tra paesi e nazione. Verga, Perri, Seminara, Alvaro, Silone, Levi, con i loro cafoni, ma anche gli okies di Steinbeck, sono lì a ricordarci che le migrazioni rappresentano l’atto più estremo e antico di auto-redenzione. Tuttavia, gli auspici di Teti, va detto, si infrangono contro i network e le tv nazionali dove la malinconia del migrante viene etnicizzata e disprezzata per produrre stereotipi e capri espiatori, di conseguenza nella rappresentazione mediatica non c’è memoria per i vinti, i quali soggiacciono alla dialettica amico-nemico, finendo per cristallizzare latenti complessi d’inferiorità, rimozioni inconsce, insieme a volontà di riscatto, audacia, determinazione. 

Insomma, la restanza è ancora in cerca di autori. Teti stesso è stato, in lavori precedenti come Pietre di pane (Quodlibet 2011), Terra inquieta (Rubbettino, 2015), Quel che resta (Donzelli, 2017), testimone della fine dei paesi calabresi e dello scivolamento di un popolo dalle montagne verso le marine: Diamante, Soverato, Badolato. Oppure dei paesi abbandonati come Pentadattilo, Africo, e della già citata Calabria americana. L’autore, grazie all’inquietudine, si è fatto viaggiatore-ricercatore, e grazie alla sua malinconia si è persuaso che non esistano non-luoghi, perché ogni luogo conserva un suo recondito o evidente senso. Un paese vuoto per Teti è la prova che da qualche parte nel mondo altri luoghi si sono riempiti di vite, e questo nuovo brulicare comporterà processi di adattamento a cui il ricordo dell’origine fornirà inevitabilmente la consueta vertigine malinconica.

Nel ricordo di chi è partito però a volte viene meno il conflitto, o l’ambivalenza del paese premoderno, il suo immobilismo, l’ingiustizia sociale e politica. Non solo il viaggio e chi parte è in mutamento, lo è pure il restare, attendere e conservare memoria o assistere all’oblio. In fin dei conti la vita è un continuo mutare, dunque la malinconia, come madre del sentimento nostalgico, che investe la restanza, significa ambire al ripopolamento e alla rivitalizzazione delle zone interne, al riequilibrio tra marine e montagne, al dialogo tra territori oggi separati. La restanza chiede alla storia di tener conto dei vinti, di riscattare senza per questo indulgere sui falsi rimpianti per la fine di mondi tradizionali, poiché in un mondo sempre più imprevedibile e colpevole di catastrofi, direbbe Hans Jonas, occorre riparare agli errori commessi attraverso una nuova volontà di responsabilità. 

L’autore non si fa illusioni sulle difficoltà della realtà concreta, è consapevole che senza “un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un’esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino”. Eppure nell’assistere pian piano alla scomparsa del suo paese, restando in quei luoghi che consiglierebbero la fuga o l’abbandono, Teti è riuscito da Sud a colmare lacune e fornire prospettive sempre inedite e solide al discorso nazionale. 

Certo, la sua ricostruzione si ferma consapevolmente di fronte all’assenza di interlocutori e referenti strutturati, all’assenza di modelli e riferimenti politici, dunque di essenziali mediatori di motori propulsivi in grado di dar luogo, soprattutto nella società meridionale, a una cultura della restanza. Ma la sua antropologia fornisce un lessico, e il lessico, benché ancora allo stato di utopia, resta il principio di qualsiasi progetto.

Sandro Abruzzese

Paesaggi letterari meridionali

*Articolo comparso su Mimì, inserto culturale del Quotidiano del Sud

Paesaggi letterari meridionali

“Io uso dire, in modo paradossale, che l’Italia ha due capitali e che una è Torino e l’altra è Matera”.

Ci sono scrittori per cui la decodificazione del paesaggio è quasi più importante della trama delle loro opere. Autori per cui lo sfondo, mi riferisco all’ambiente storico-sociale e familiare, diventa protagonista principale delle opere anche grazie all’accurata ricostruzione geografia dei luoghi. Uno di questi, forse il più celebre, è Carlo Levi, l’intellettuale antifascista torinese che non ha bisogno di presentazioni. Ebbene, egli nell’esilio lucano descrive il paesaggio, l’ambiente, la luce, con preciso piglio antropologico e pittorico. Se Cristo si è fermato a Eboli riapre la Questione meridionale e lo fa da una regione remota e sconosciuta come la Lucania, prima di lui però è forse Francesco Perri in L’emigrante, a rendere protagonista il paesaggio di un’altra regione fragile e aspra del Sud, la Calabria. Un ritratto doloroso, fedele e, anche se enfatico, molto prezioso per profondità e ricostruzione socio-politica. Seguendo il solco di Perri, si capisce pure la genesi dell’opera classica, stilisticamente impeccabile, di Mario La Cava, che ne I fatti di Casignana costruisce un romanzo corale in cui la fisicità, la corporeità calabrese, nonché l’impatto che su di lui ha avuto la lunga permanenza a contatto col mondo contadino, risultano determinanti per la riuscita letteraria. 

Tuttavia, se Perri e La Cava, per quanto integrato possa essere un intellettuale, che è sempre e ovunque uno sradicato, hanno uno sguardo interno sulla Calabria; Levi è un corpo estraneo alla Lucania, un intellettuale azionista proveniente da una Torino già industriale, ed è come se proprio in quanto estraneo egli sia in grado di mettere a fuoco le contraddizioni aggrovigliate della società meridionale da una prospettiva che, pur non essendo sempre felice – a volte il suo paternalismo è davvero eccessivo – possiede una carica inedita e propulsiva. Inoltre Levi nella geografia dei calanchi lucani sembra rivedere addirittura la vicenda biblica dei suoi avi, il suo è un ritorno, una riconciliazione con la diaspora. 

Infine, l’intuizione di Levi era stata anticipata da un libro letterariamente meno ricco e suggestivo del Cristo, firmato da un personaggio controverso della cultura italiana, mi riferisco a Fontamara di Ignazio Silone, dove la descrizione dei cafoni abruzzesi e della Valle del Fucino riconduce i cafoni, gli okies, come direbbe Steinbeck, di tutto il mondo, a un’unica, antichissima storia di sfruttamento da parte delle classi sociali borghese e aristocratica. Il mondo ha un cuore antico, sembrano dire questi libri, ma il sangue è sempre lo stesso, quello degli ultimi, dei contadini e dei sottoproletari globali.

Mattinata a Santa Maria Maddalena 

*Articolo uscito in aprile sulla nuova ferrara

Sono passato per Santa Maria Maddalena centinaia di volte, al punto che pensavo di conoscerlo bene, il paese. Quando poi in un giorno soleggiato e secco di marzo, quasi per caso, ho infilato la stradina che porta dalla statale alla piazza centrale, mi sono accorto che quei luoghi in realtà non li avevo mai visti prima. Non avevo visto la chiesa, il portico, le facciate in rovina dell’INA casa, il viale che porta dritto all’argine del Po. 

Ora che ci penso, il paese, cinto com’è dalla statale e dalla strada regionale che finiscono per dargli la forma di un nido, forse in passato l’avevo osservato solo dall’alto, venendo da Ponte. Dall’alto infatti si vede un nido che poi si è sfaldato e ha preso a crescere lungo le strade fino a disperdere il suo nucleo principale e dimenticare la sua originaria ragione di fondo: il rapporto col fiume. Non per giustificare Santa Maria, ma ai paesi sulle statali, o vicino agli snodi, ai ponti, fatti di attraversamenti e servizi, succedono cose del genere. Si spostano verso l’autostrada, verso la stazione dei treni, verso le città, insomma, le città e i paesi scivolano, ecco, e così il loro corpo cambia, si fonde a Occhiobello, si protrae verso Pontelagoscuro e Rovigo, divenendo qualcos’altro da ciò che era. Accade soprattutto quando non hanno più idea di se stessi.

Comunque Santa Maria, oggi, vista dalla piazza principale sembra un paese ricostruito, voglio dire un paese invecchiato ma non per questo antico, anzi paradossalmente nuovo, come fosse rinato dopo chissà quale catastrofe. E ogni paese nuovo qui in pianura appare come una colonia di vecchi pionieri e cercatori d’oro, o magari un luogo di nomadi, fuggiaschi, pirati pian piano sedentarizzatisi per dimenticanza o disperazione. Sono le impressioni avute a Jolanda di Savoia, a Lido delle Nazioni, a Ariano ferrarese, per esempio. 

È un tratto comune a molti abitati della pianura alluvionale quello di essere spostati e ricostruiti. Il paesaggio urbano della pianura parla di questa provvisorietà e fragilità, questa sì antichissima, che spesso mi riporta indietro ai paesi dove sono cresciuto, in Irpinia, anch’essi nuovi, frutto dell’avvento del cemento armato e del ferro, soprattutto dopo il devastante sisma del 1980. Alluvione e terremoto, forse è questa associazione una delle chiavi politiche per unire l’Italia delle pianure e degli Appennini, delle isole e delle Alpi. La vera parola o immagine eloquente di questo paese, quella che rende giustizia alla provincia, sta nel porre attenzione alla fragilità, piuttosto che alla forza. La forza, lo sviluppo eccessivo, è come l’alluvione, travolge tutto irrimediabilmente, le sue ragioni diventano indiscutibili. Mentre partire dalla fragilità consente di avere come meta l’equilibrio, fatto di misura e responsabilità collettiva.

Forse è per questo che stamane Santa Maria, fatta di case popolari, frutto di grandi stagioni di politiche abitative nazionali, acquista tutto questo interesse ai miei occhi. Gli occhi, vogliono ri-vedere e ri-conoscere. È un ritorno sulle cose e sulle persone per acquisire elementi e per poter comprendere. E Santa Maria a suo modo, con discrezione e reticenza, parla dell’Italia intera, della sua direzione, in maniera sincera. 

Percorro il viale in direzione dell’argine e vado verso il fiume. Arrivato alla zattera che ospita il ristorante, sul lato destro, dove fa colpino una grande spiaggia sabbiosa nata dalla terribile siccità di questi mesi, ritrovo un Po debole e lento coma mai prima. È possibile camminarci dentro, camminare nel suo letto rinsecchito fin quasi a raggiungere il suo centro. 

Sulla sinistra, dal pontile sottostante, a fianco alla baracca del ristorante, tre persone attempate, calando una rete sul fondale per poi ritirarla su, tentano di pescare qualcosa. Guardo la scena insieme a due passanti, i quali si lanciano in una discussione accesa sul fatto che per via della siccità non c’è ossigeno, né pesci da pescare, ma veniamo interrotti subito dal trio di pescatori che tirano su un cefalo di sei etti, ci dicono da lontano.

In spiaggia, dopo essere sprofondato nel fango fino alle caviglie, tento di raggiungere il centro del fiume. Sulla battigia, quasi a pelo d’acqua qualcuno, solcando la sabbia, ha scritto dei nome: Natalia, Bea, Rosy. Intorno, resti di falò, piccoli arbusti, tracce di pneumatici da motocross. Tra le siepi del piccolo boschetto adiacente, che raggiungo per evitare ulteriore fango, fazzoletti e preservativi, piccole capanne di rami. Anche questa è la vita del fiume. Sul fiume ci si va per gioco o per l’amore, ci si va per i misfatti e il proibito, proprio come fossimo in una canzone di Bruce Springsteen.

Il passaggio del treno d’un tratto, producendo un frastuono improvviso, mi riporta alla realtà. Nel frattempo raggiungo l’obiettivo prefissatomi. Dal cuore del Po, ora tutto sembra diverso. Sembra di guardare il mondo con gli occhi di qualcun altro, o forse nei panni di qualcun altro. È come se da qui il fiume fosse in grado di vederci e giudicarci, proprio come quando era una temibile divinità. Per un attimo, viene voglia di chiedergli perdono. Di chiedergli scusa anche per questa idea balzana di mettermi sul limite tra l’Emilia e il Veneto, di fuggire le classificazioni, i paralleli, e di fare proprio come fa l’acqua, che ovunque arrivi ridiscute e mette in crisi la proprietà, il controllo, portando il caos dappertutto. 

Di ritorno, ritrovo il paese visto dalla sommità dell’argine, è di nuovo un nido col campanile sovrastante i tetti a dettare le coordinate. Mentre scrivo, penso a queste immagini inedite, vive, intense, nella mente, dovuta a una mattina a Santa Maria Maddalena. Mi chiedo come sia possibile rinunciarvi. Come sia possibile lasciare che le telecamere guardino per noi il mondo, e finire per accontentarci del suo adulterato riflesso, della versione falsa, ancorché avvincente, dello stesso mondo che intanto si concede tutti i giorni davanti ai nostri occhi.

sandro abruzzese

Nelle terre mosse

Foto di Marco Belli, tratta da Niente da vedere, Cronache dal Polesine e altri spazi sconfinati (Rubbettino 2022)

*articolo comparso sulle pagine culturali della Nuova Ferrara di domenica 13 marzo

Ogni città esiste senza ricordare il perché, verrebbe da dire tra le strade di pianura che portano da Ferrara al Delta de Po. Bisognerebbe riuscire a immaginare Comacchio e Ravenna circondate dall’acqua, oppure pensare a quando le valli lambivano Ferrara, per capire le ragioni antiche di un luogo. Comunque ogni città, che sia Ravenna, Rovigo o Adria, è il risultato di svariate dimenticanze, a volte addirittura di calcoli e previsioni sbagliate, come fu per Mesola, il progetto estense di una nuova città portuale che contendesse la leadership a Venezia, affossata dalla Serenissima attraverso un’opera faraonica: il taglio del Porto Viro del 1600-604. Eppure, proprio come per le matrioske, ogni città sembra sempre ne nasconda un’altra dentro di sé, e oggi che siamo tutti un po’ stranieri residenti, ogni città è per i suoi stessi abitanti come una lingua in parte sconosciuta, o anche come una parola antica, che nel tempo ha assunto un altro significato, di cui ormai nessuno ricorda più l’origine. E allora in principio forse non era il verbo, come dice un libro sacro, bensì il luogo, la realtà esterna, da cui lo stupore e il tentativo susseguente del verbo, del dire ciò che si vede. O magari questa è un’impressione personale frutto del ripetitivo vagare nelle terre mosse del Polesine veneto e ferrarese. Infatti, non esiste un solo modo di guardare il mondo, e oggi che passiamo per la Fratta Polesine di Giacomo Matteotti, oppure visitiamo i resti della vecchia sede dell’Avanti di Magnolina, se ripensiamo al bracciantato locale, ai badilanti, ai grandi conflitti sociali tra padronato e lavoratori, da cui la nascita del sindacalismo, delle cooperative, ebbene, verrebbe da dire che in principio – almeno al principio dell’epoca contemporanea – era la coscienza di classe, dunque da trent’anni a questa parte, orfani come siamo, non ci resta che la coscienza dei luoghi.

In viaggio, invece, l’etimo delle parole e quello dei luoghi fanno davvero al caso nostro. In pochi posti come tra l’Adige e il Reno, di cui Ferrara è davvero un ultimo avamposto prima del caos acquatico, occorre prestare attenzione alle origini. Qui tutto parla del rapporto con l’acqua. Le origini sono le sorgenti, le fonti, sono il tutto. Se il delta del Po e il limite estremo della pianura restano, almeno idrogeologicamente, tra i luoghi più fragili d’Italia, il suo territorio si consolida se lo si considera, come ha insegnato Eugenio Turri, il palcoscenico di un teatro ben più grande, ovvero l’intera pianura padana, insieme all’arco appenninico e alpino, con tutti i boschi e i corsi d’acqua, le città e le campagne a essa collegate. Il delta del Po è il terminale di una civiltà interconnessa e interdipendente, e pagherà le conseguenze dello spopolamento degli Appennini, della fuga dalle Alpi, delle frane di montagna, della cementificazione pedemontana, dell’incedere del mare.

Di questo parliamo con Marco mentre passeggiamo lungo l’argine di una golena, a Villanova Marchesana, dove una vecchia fornace di laterizi giace abbandonata e sulla superficie del fiume scivolano placidamente detriti e qualche rifiuto. Parliamo di ciò che noi possiamo fare al fiume, dei danni che l’essere umano può fare al mondo. In pratica il rapporto tra natura e cultura si è capovolto, dunque persino il conte Leopardi sarebbe costretto a chiedere conto alla cultura, alla civiltà, della sua indifferenza verso le sorti del pianeta, degli esseri viventi, dei popoli, non più alla natura, come nel suo celebre dialogo.

Siamo verso Canalnovo, nella piazza centrale c’è tutta l’onestà del posto. Nessun orpello o volontà di apparire diversi dall’essenziale. Di fronte al viale che porta alla chiesa, sul muro scrostato di una rimessa in rovina, c’è scritto «w i spusi», poi un cuore disegnato e una freccia a trafiggere le iniziali «M. S.». Il ristorante Due cigni, fallito, mostra ancora in vetrina il volto di una certa cantante di piano bar. La foto della cantante è ingrandita e sgranata. Non resta che il Caffè Costarica. Di fronte al ristorante, da una delle due case sulla strada, fuoriesce una suora vestita di bianco, deposita il pattume, dall’altra una signora anziana alla finestra osserva incuriosita.

Torno a Ferrara dopo aver accompagnato Marco.

Oggi si può dire che è una giornata in cui non è successo nulla di particolare, lo so anch’io, una giornata astratta, di soli pensieri e immagini. Il paesaggio, la realtà circostante non avevano granché da dirci, eppure lo stesso non è stato male, se non altro ne è uscita questa pagina contro la dittatura degli accadimenti, delle fiction, che testimonia l’esistenza letteraria di momenti qualsiasi, anzi la loro piena dignità: Cesare Zavattini parlava di qualsiasità. Una pagina del genere potrebbe però benissimo significare che una democrazia si occupa allo stesso modo dei luoghi famosi e di quelli dove non c’è niente da vedere, che una democrazia è una rete di punti senza margini. Oppure significa che in certi posti, davvero non c’è niente, salvo gente balzana che se ne va zonzo sul fiume priva di scopo, come noialtri.

Per strada, di ritorno, attraverso muri di nebbia in grado di cancellare qualsiasi riferimento, ampiezza e orizzonte si chiudono o restringono improvvisamente. Viene in mente l’idea della lavagna. Forse tutta la giornata serviva per quest’unica idea, da cui nasceranno migliaia di altre idee e progetti. Chi può dirlo?

Nel frattempo, tutto, ancora una volta, come con l’acqua, scompare o si cancella: il Polesine diventa una lavagna, qualcosa da riscrivere ogni giorno, in ogni epoca. L’acqua cancella le tracce, ridiscute i confini, e noi, per capire il Paese, come scriveva Adorno, seguiamo le sue tracce verso i margini, andiamo verso il caos generato dalle acque, dove lo stato non arriva, e l’uniforme affronta la sua battaglia persa contro il limite della pianura.

Epidemic: della modernità senza progresso

Epidemic, Retroversioni dal nostro Medioevo (Jacabook, 2021), va detto in anticipo, non è soltanto un libro di critica sociale frutto di una disamina lucida e rigorosa che principia dalle pestilenze letterarie del passato per arrivare all’odierno Covid19. Il suo autore, Antonio Tricomi, in precedenza, in Fotogrammi dal moderno (Rosenberg Sellier, 2015), oppure nei numerosi scritti su Pasolini, ci aveva abituato alla profonda indagine sulle figure del moderno di stampo francoforteseMa in questo libro, mi riferisco nella fattispecie al capitolo finale, accade qualcosa che a un certo punto elimina la barriera tra critico e letterato, indicando una strada personale verso il meta-romanzo che auspico l’autore in futuro porti alle estreme conseguenze. 

Ma andiamo con ordine. In Epidemic, dal Diario dell’anno della peste al Robinson Crusoe, Tricomi individua, con Marx, in Defoe uno dei precursori del borghese moderno. In Crusoe c’è appunto quell’essere proni alla “virtù etico-economica”, quell’attitudine a produrre e sviluppare la sopravvivenza “disillusa e pragmatica” in una non-società di monadi. Così, con l’aiuto del protestantesimo, continua l’autore, i mezzi diverranno il fine, basterà disfarsi dell’etica tradizionale, anzi capovolgerla. Defoe, in anticipo sul darwinismo sociale, col Diario dell’anno della peste, ambientato nel ‘600, legittima la morte dei meno abbienti di Londra. La peste punisce i non laboriosi, in nuce c’è già il rapporto modernissimo tra produttività e disuguaglianza. 

Insomma, la peste in Epidemic, titolo che è anche un tributo a Lars Von Trier, è l’occasione per un ulteriore balzo in avanti verso il capitalismo avanzato, infatti Defoe stesso ha già “il fisiologico atteggiamento del moderno letterato borghese”. La borghesia con lui si disfa del suo passato, per poi rivolgersi contro l’aristocrazia, imponendo i propri principi come universalmente validi, spacciandoli per “essenza stessa della civiltà”.

Ebbene, che sia la Mary Shelley dell’Ultimo uomo, in cui la peste colpirà la Londra del ventunesimo secolo, in un processo di democratizzazione della società che secondo l’autrice non garantisce un autentico progresso civile proprio perché privo di un’etica pubblica interclassista nata dall’élite; che sia invece protagonista l’acuta osservazione degli Stati Uniti industrializzati da parte di Edgar Poe, oppure che si tratti dell’Italia, dalla peste boccaccesca alla colonna infame manzoniana; le serrate comparazioni di Tricomi ribadiscono il ritardo storico italiano nel rapporto con la modernizzazione capitalista, da cui la sostanziale assenza di una classe dirigente borghese, e la vittoria di una non-borghesia, a volte brillante, ma ostinatamente egoista e individualista.

A rompere il misconoscimento dei ceti subalterni, presente in quasi tutti gli autori sopracitati, ci pensano Marx e Engels col Manifesto del partito comunista, nel 1848. Se lo spirito borghese, dopo aver archiviato quello aristocratico per il progresso, egemonizza a sua volta il campo proponendosi come unico approdo e guida alla civiltà, il Manifesto cambia le carte in tavola e porta nella Storia il conflitto di classe, opponendo, alla civiltà borghese capitalistica, i lavoratori.

Sarà il disilluso London, per Tricomi, a comprendere “l’invincibile capacità di contagio dimostrata, nel mondo intero, dal sempre letale virus borghese” e a descrivere una società sostanzialmente parassitaria, classista. In Martin Eden infatti compare quell’industria culturale che non servirà a emancipare gli individui, ma a creare immaginari come specchi per le allodole, per “intrattenersi senza mettere mai in questione l’ordine dato”, ovvero siamo alla “collettiva interiorizzazione dei costumi piccoloborghesi”, ricorda Tricomi. Questa la vera peste, il morbo che ha bloccato qualsiasi reale evoluzione dall’avvento della borghesia a oggi.

Tuttavia, anche se non esplicitato, è ancora un morbo ad attanagliare l’Europa delle guerre mondiali, come per esempio ricorda il Mann della Montagna incantata, e non poteva mancare La peste di Camus, che porta in seno il virus recentissimo e fumante del nazifascismo, sempre in agguato, anche a Orano.

Dunque, il contagio è nell’irrealtà, nell’astrazione, a cui contrapporre la solidarietà e il reciproco aiuto, ritiene l’autore dell’Uomo in rivolta. Invece con lo sbarco americano e la nascita della Repubblica, il Belpaese va incontro alla società debordiana dello spettacolo. Il capitalismo potrà vampirizzare il ’68 e le forme di dissenso successive, sapendo indossare la sua proteiforme maschera, volta a volta, in base ai propri vecchi e nuovi avversari. 

Il sistema sopravvive per “endogenizzazione”, si inocula e adatta, riutilizzando le critiche, svuotandole della loro carica, reificandole, per poi, rese innocue, reintrodurle magnanimamente in commercio.

Se in Cecità di Saramago, Tricomi vede il j’accuse al sistema neoliberista degli anni ’80, che smantella il welfare e produce un aggravio delle disuguaglianze, è però nella parte finale di Epidemic che il libro si trasforma in un’originale variazione sul tema. La capacità di trasformare il testo in un’improvvisazione di stampo jazzistico conduce l’autore a un giudizio ancor più implacabile verso la società e il mondo intellettuale. Non accade con Epidemic ciò che avviene a un altro grande critico italiano, quel Goffredo Fofi che nei suoi numerosi atti d’accusa all’industria culturale non riesce mai a includere la propria falsa coscienza, a vedersi dall’esterno, come parte del tutto.

È questo il difficile approdo che invece riesce al critico marchigiano: guardare il mondo dall’ignoto e svelarsi, con la propria controparte di vizio, falsa coscienza inclusa, in tutta la sua paradossale contraddittorietà. 

Insomma, il finale di Epidemic è un vero e proprio inizio, un’autoanalisi spietata della e nella tardo-modernità nevrotica, schizofrenica e paranoica. In fin dei conti, Tricomi vi esprime il paradosso di essere l’eccezione al sistema, alieno, esule, e per questo a sua volta integrato, proprio perché previsto e metabolizzato dalla società spettacolarizzata. Anche l’autore insegna, certo, ma non sfugge alla riproduzione sociale a cui è ridotta l’istruzione pubblica; anche l’autore scrive e pubblica, si capisce, ma lo scetticismo, oltre che il consueto rigore fortiniano, non lo salvano dall’assordante rumore di fondo dell’oceano comunicativo a cui si unisce, privo com’è di reali referenti. 

Infine, il Covid19 ha dimostrato che l’Occidente di Trump e Johnson è preda del darwinismo sociale in maniera non dissimile dalle argomentazioni di Defoe. Quell’Occidente che ormai si occupa non della Terra o degli esseri umani, ma di determinate categorie protette, durante il lockdown si è dedicato a un’umanità privilegiata, in cattività, da allevamento intensivo, eterodiretta nell’acquiescente conservazione della propria vita a ogni costo. A questo punto il capovolgimento riguarda l’esistenza stessa, ridotta a simulacro dalla biopolitica. 

Ma in Epidemic i virus sono tanti e quello più forte appare il mondo tecnocratico del capitalismo moderno che ha reso la vita un diritto solo a patto di essere nati nel posto giusto, senza tentare di ridiscutere il nomos della terra.

Per concludere, ancora una volta Antonio Tricomi licenzia un libro raro per solidità teorica, acume, rigore, intuizione. 

L’ultimo capitolo vi aggiunge prospettiva e ironia disarmanti, confermandolo uno dei più liberi, indipendenti, ispirati autori iper-razionalisti della critica letteraria italiana. 

Senza dubbio Epidemic, tra i tanti libri generati dal Covid19, è il migliore licenziato sulla pandemia. E questa non può che essere la nemesi che investe l’autore anche quando tenta ad ogni costo di rifuggire le sirene dell’industria culturale. Se Epidemic divenisse un best-seller, Tricomi saprebbe di certo che, ancora una volta, a vincere la partita non sarebbe lui.

Sandro Abruzzese