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Parole per una sola donna

Parole solo per una donna

Ho nella testa i cornetti da Beatrice, i gelati al bar Jonathan, i baci nei vicoli di Napoli, ne ricordo uno lunghissimo in via Cisterna dell’Olio, davanti al Velvet. Chissà se c’è ancora, il Velvet. Oppure i tuoi diciassette anni, quel libro in mano e il vestito bianco, i bambini col sale sulla pelle scura e la luce gialla, il cielo vasto del Cilento, col mare chiuso tra le punte di Licosa e Tresino.
Pensavo di conquistarti, da ragazzo, mostrandoti il mio finto coraggio. Ti dissi – appena conosciuta – che un giorno ci saremmo sposati, e già mi deridevi. Allora credevo fosse la bellezza, l’unico filo che attorciglia i corpi. Non capivo il filo della pazienza, quello della grazia. Tempo dopo, ti saresti innamorata forse più delle paure che delle mie certezze, finendo per svegliarti presto la mattina e accudire una ad una le nostre giornate, per poi crollare, stanca, con la testa arresa sulle mie ginocchia, come fai ora la sera.

L’altro giorno, mentre preparavi una torta, a un certo punto hai chiesto: “sei preoccupato?”. Ti ho detto di no. Osservavo il tuo modo di stare al mondo, la postura leggera che infonde grazia in ogni cosa che sfiora. Avrei dovuto dirti che hai attorcigliato il filo della tua grazia alla vita dei nostri corpi, che li hai stretti e tenuti allacciati nell’esistenza, nella nostra e in quella dei tuoi figli. Oppure parlarti delle tue fattezze, dirti che il tempo, con la tua luce, ha ingaggiato una battaglia persa. Ma non sono parole per sempre, queste. Non reggono un volto. Escono quando, soli, si è nudi davanti alle proprie colpe, e frughi in ogni anfratto livido della coscienza, sperando di trovare l’obolo in grado di estinguere, come per magia, tutti i debiti. Si imprimono sul foglio senza una fonte precisa, sgorgano da nessun luogo e non hanno indirizzo, queste parole, e restano impronunciabili da qualsiasi altra parte.

Mi chiedo come fai a vivere al di sopra della cattiveria, senza ambizione, priva di secondi fini. Te l’ho visto fare senza alcuno sforzo, eppure non mi è riuscito di impararlo.
Da parte mia, ho finito per cercare intorno, nelle vetrine, almeno un dono, riuscendo nel miracolo assurdo di tornare a mani vuote per un anno intero. Ho camminato con la vista del cieco e l’attenzione di un bambino. Niente mi è sembrato all’altezza, e so che ti sarebbe bastato poco.
Allora stamattina guardavo i vostri corpi vicini, il tuo e quello dei nostri bambini, disegnare una o due lettere dell’alfabeto. La vostra immagine, quei corpi a forma di N o di H, di colpo, nella mia testa, hanno declinato il sillabario di conquiste che è stata in parte la nostra piccola, quieta storia. Zeno dormiva con le braccia alte, Stefano le lasciava quasi conserte. Hanno il tuo naso piccolo, il sorriso, però le mie narici a forma di goccia, questo lo ricordi spesso. Guardavo i lineamenti, i loro occhi grandi incapaci, per adesso, di nascondere qualcosa, in grado di riflettere la gioia e lo spavento: il riflesso di quello che scoprono nel mondo. Hanno la bocca piccola e il labbro superiore sporgente. Poi ho visto le tue mani che tante volte, in maniera automatica, hanno accarezzato la loro fronte, terso le lacrime, messo a tacere, – come in un gioco di prestigio, – ogni ansia, ogni dolore.

Intanto il nostro è lo scarto tra un uomo e una donna. Poi credo che la tua grazia dipenda da questo: che non ti curi di restare e di volere più del necessario. E non ti curi di colmare il vuoto, di fermare il tempo, lo accetti inesorabile, come una forza che abbia il tuo stesso diritto di farsi valere. Vorrei imparare la discrezione, la reticenza, e a ridere, come sai, davanti ai film di Fantozzi. Il tuo passo leggero è questo: il mestiere di conservare, in ogni occasione della vita, la parte che più conta.

 

Sandro Abruzzese

Lettere settentrionali 18 (Il calzolaio)

Il calzolaio

Il calzolaio

Non si da pace… Carmelina. Lei si era allontanata col proposito di tenere la famiglia unita, evitare diaspore, e invece nel giro di cinque anni ha visto andarsene Michele, il primo figlio, a lavorare alla polizia municipale di Venezia. Giada, l’unica femmina, sposarsi a Bologna con un tecnico delle caldaie.

Ma quella che proprio non ha retto è stata la partenza di Raffaele, ultimo figlio se n’è andato addirittura in Colombia. Ma dico io, perdere la testa a diciannove anni, per una di Bogotà poi. Non so, dice che l’ha conosciuta all’università.

Io?
Chiamatemi Vittorio!

Sono nato a San Severo, in provincia di Foggia, ma lavoro a Mirandola. Da piana a pianura. Non per necessità, direi più curiosità, questo sì! Il resto lo ha fatto mia moglie Carmelina, con quella sua fissazione della famiglia.

Io glielo dicevo che i suoi sentimenti non sono di questi tempi, che l’amore non tiene niente a che fare con la libertà! E pure la famiglia come se la ricorda lei non ci sta più! La gente mo’…sta sui social network…

…allora una sera che piangeva davanti a Skype, non ci ho visto più, ho aperto il computer e un po’ bruscamente ho detto:
“Carmelì! Guarda qua, ma l’hai capito che pure papa Francesco sta ‘ngopp a feisbuk? E’ un’altra Terra Carmelì!

Ha accennato un sorriso, ma io la conosco! Quando si mette in testa una cosa è capace di portarmi in capo al mondo.

L’Emilia Romagna?
A Mirandola non mi lamento, e con il terremoto, sembrerà assurdo, ma la città la sento più mia. La scossa ha aperto la terra, le case, e le persone. Ha buttato la gente per strada, rendendola per qualche tempo più vicina. Anche se si sa come vanno ste cose, dopo un po’ quello che è stato è stato! E’ la natura umana.

Di mestiere?
Scarparo! Aggiusto le scarpe! Puzzo di colla, e ho le mani rovinate dall’artrosi. Però almeno riporto questi oggetti indispensabili alla forma originaria e con la coscienza sto a posto, perché col mestiere non partecipo a sta schifezza di usa e getta generale.

San Severo?
Certo, ogni giorno mi chiedo come sarebbe stato crescere i figli insieme ai miei fratelli, ai nonni, abitare la casa in cui sono cresciuto. Ma dalle mi parti si dice che quello che è fatto… sta bene. Altri pensieri è meglio non farli.

Carmelina?
Dopo trent’anni la donna a cui sto affianco la conosco, quella quando si mette in testa una cosa sposta le montagne. Perciò la sposai. Però mettersi a studiare lo spagnolo alla sua età?!! Per come è stata capace di portarmi a Mirandola, mi sa che la pensione ce l’andiamo a fare a Bogotà, che a quanto ho capito sta addirittura più giù di San Severo…!

Per adesso so dire solo vamos a la playa, il ritornello di quella vecchia canzone dei Righeira, te quiero lo dicevamo con gli amici alle ragazze quando andavamo a Lloret de Mar, e maricon, che ce lo dicevano loro a noi, dopo che gli avevamo gridato te quiero un po’ troppo frettolosamente.

Ah! Dimenticavo…adelante…ma non mi ricordo mai che cavolo significa.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 16

don chisciotte images

Una volta una delle poche persone serie del paese vinse le elezioni in un comune disastrato. Prese solo due provvedimenti di cui tutti si ricordano: alzare le tasse, e dichiarare il dissesto finanziario quando le tasse non servirono. Vincere le elezioni è stato il più grande insuccesso della sua vita.

L’assessore Micheletti è patito di tennis, una volta è andato pure a Wimbledon. Coi soldi del Comune ha fatto costruire un tennis club dove si allenano quotidianamente il figlio Michele, e un nipote, Alfonso, figlio della sorella. Tengono il maestro privato che viene apposta da Benevento. Sono gli unici iscritti.

Il vicesindaco Saponaro, da quando è al Comune, ogni anno organizza un festival jazz. Lui che sognava di suonare la tromba, da tre anni invita i suoi musicisti preferiti alla manifestazione. Tutte le sere sale sul palco, parla quindici minuti e si fa fotografare con i suoi idoli, poi li costringe a ringraziare l’amministrazione. Quindi adesso facciamo tre giorni di musica e trecentosessantadue di silenzio.
Però una volta è venuto pure Billy Cobham.

Il sindaco del mio paese ogni volta che c’è un’occasione pubblica prende il microfono per dire qualcosa agli astanti. Incredibilmente ha sempre qualcosa da dire e mai niente da fare. Se lo cercate non andate al Comune, lo trovate al Bar della piazzetta.

I giornalisti italiani nei talkshow invitano sempre le stesse persone. Ma non è quello. Il disagio deriva dal fatto che il conduttore sembra l’ospite, i politici i presentatori, e le cose più serie e importanti le dicono i comici.

Una volta a un ministro, lo so, non ci crederete, qualcuno acquistò una casa “a sua insaputa”.

All’università studiavamo spesso insieme e puntualmente agli esami lui pigliava trenta e lode e io ventotto. Al che mi ero fatto l’idea che fosse più bravo, anche se io tutta sta differenza mica la vedevo.
Me l’ha detto dopo vent’anni che il fratello del padre dirigeva tutto l’ateneo, e aveva fatto il piano di studi apposta con le materie in cui aveva la segnalazione. Ci ha messo un po’, però almeno me l’ha detto. A suo modo è un amico.

Hanno fatto i soldi col giochetto dei cambi di destinazione d’uso: compravano terreni agricoli e li trasformavano in zone industriali, edilizie, commerciali. Ne hanno fatte talmente tante che all’assessore al bilancio lo chiamano mago Merlino.

Lui è un buon amministratore, ha esperienza quarantennale, è il comune che tiene dodici milioni di debiti.

La politica della mia regione si può riassumere con l’importazione di qualche fabbrica e poche strade incomplete, diciamo che più che allo sviluppo si è puntato alla teoria del posticipo: adesso ci sta chi se lo guarda e chi lo gioca titolare. I primi alla finestra, i secondi con le valigie piene e pedalare…ci vediamo ad agosto.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 15

Ho una nostra foto in mano con dieci anni di meno e i tacchi a spillo.

Mi piaceva che non dovessi per forza dare un nome alle cose. Sapevi stare sola e scommettevi che io non avrei mai imparato a farlo. Quanto avevi ragione!
Dopo la tua partenza ho scoperto quanto possa essere vuoto un bilocale a Lambrate. Ora sto davanti a un frigo, anche lui deserto come questa casa, che comunque parla di te.

Continuavo a cercarti e negli ultimi tempi raramente capitava il contrario. L’amore finisce pure quando non ci si parla più e una mattina ti sei svegliata all’improvviso senza avere nulla da dirmi.
Era una questione di parole e di lingua… il nostro amore, e – non so quando – in casa nostra entrambe hanno smesso di incontrarsi.
Quando non avverti il desiderio di raccontare il mondo a chi ti vive accanto hai smesso di amare. Era una questione di parole, di lingua, e di racconti…la nostra, in cui i gesti arrivavano dopo, e spesso risultavano superflui.

Ora ricomincio con le fissazioni e i ricordi: quando sul comodino tenevi quel grosso tomo di Céline e sottolineavi le sue frasi a effetto, e ancora mi ritrovo i post-it sul frigo:
“Chi parla dell’avvenire è un cialtrone, è l’adesso che conta. Invocare i posteri, è parlare ai vermi”. Che belle stronzate scriveva quel cane rognoso!
Ecco l’altra: “La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra”. Stavolta ci ha preso, sugli infelici!

Affianco ai tuoi foglietti ho ancora i numeri di telefono di quelle persone che insisto a chiamare “amiche”, quei rapporti che ti facevano ridere e dire che si trattava più di non stare da soli che altro. Sappi che ce l’ho davvero un’altra! E Milano è piena di gente che rimpiazza altra gente, e di persone che scappano e altre che arrivano senza un motivo preciso. Non è un dramma.

Scruto il nostro frigo americano mezzo vuoto e mi chiedo cosa ci abbia spinto ad acquistarlo, noi che eravamo sempre a seguire qualche penosa dieta. Ah, giusto, dicevi che era il paese della libertà…l’America. Salvo poi ripensarci dopo un mese di vacanze dai parenti di Brooklyn.

Pensa un po’ l’ironia, io la libertà la vedevo in te che sei di Campobasso, quanto di più lontano da un americano. La tua
libertà è quella curiosità che non ti consente l’abitudine. La smania che ti porta ad aprire continuamente altri capitoli. La capacità di incontrare senza opporre braccia conserte, e tenere le impressioni per ultime, in modo che non pregiudichino lo sguardo. Altro che l’America!

Ora che per un marito hai lasciato Milano e trovato il coraggio di tornare nella tua odiata città di provincia, hai due bambini con i tuo occhi e la tua bocca, è come se non fossi mai stata in questa piccola casa sulla metropolitana di una grande città. Non sapranno mai di noi, a me fa male, il resto di Milano invece se ne frega!

Ma oggi è il mio compleanno e non so perché ho sognato che saresti entrata da quella porta come ogni giorno e tu invece non l’hai fatto, allora sono caduta sulle ginocchia, ma è stato solo un attimo.

E’ stato solo un attimo.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 14

Pasquale, mio padre, è venuto a Rovereto che teneva sui trent’anni. All’inizio portava solo arance e limoni tre volte a settimana. Mamma si lamentava che non ci stava mai. Adesso Rosarno lo conoscono tutti perché abbiamo cacciato i neri dopo la crisi agricola di qualche anno fa, ma quando gli hanno ucciso il fratello, a mio padre, con tre colpi alla schiena nella campagna di Rizziconi, in Italia si parlava d’altro.

Quando succedono i fatti di cronaca nera a Gioia Tauro, Lamezia Terme, nella locride, i telegiornali non lo dicono nemmeno più, allora qui la gente capisce che è tutto normale, e noi abbiamo le arance, i limoni, il mare e i morti ammazzati proprio come altrove hanno le fabbriche, le banche o le stazioni sciistiche. Papà sostiene che il diritto l’hanno inventato i romani, ma che perde consistenza man mano che scende per la penisola, e da noi diventa folklore. Sostiene che le persone voglioni i fatti, gli esempi, non le chiacchiere. E a Gioia Tauro lo Stato chiacchiera mentre le imprese criminali fanno i fatti. Così dice.

Perciò Pasquale ha scelto il posto più lontano da Gioia. Viviamo in trentino e abbiamo un bel camion di roba fresca all’uscita dell’autostrada. Non ci manca niente, tranne i mei cugini di Rosarno e la piana del golfo.

Quanto a me, ho perso due anni all’istituto professionale per il commercio, vendo la frutta, ho i soldi in tasca e ancora diciassette anni. Per adesso di pomeriggio guardo d-max, history e discovery channel e gioco alla play. Insomma non mi lamento.

Lo so che sono ancora un ragazzo e non ho nemmeno un diploma. Ma di questi diciassette anni senza leggere molto, ho capito che la vita più che altro è una questione d’abitudine. E che si è abituata mia madre quando papà stava sempre sul camion, e mi sono abituato io quando mi hanno bocciato la seconda volta.
Funziona così, la volta successiva ogni cosa fa meno male della precedente.
Secondo me la gente si abitua, e così i calabresi hanno l’emigrazione, i morti ammazzati, la disoccupazione e i trentini lavorano, spendono e si fanno i cazzi loro e magari capiterà lo stesso a Mosca oppure in Brasile.

Ci si abitua a tutto, dicevo. Però mio padre al collo porta la catenina con la foto del fratello e dovreste vedere la sua faccia quando bestemmia col nome di mio zio tra i denti.

Allora mi sono detto che la gente non si abitua proprio a tutto. Anzi, a volte si finisce per abituarsi a non dimenticare.

Magari mi sbaglio ma per come sono andate le cose nella mia famiglia, a me è venuto da pensare che per mio padre sia più difficile dimenticare l’ingiustizia che non mio zio. Un po’ come la fiaccola eterna in una storia che leggevamo a scuola, l’ingiustizia è la fiamma e Pasquale, lentamente, si è abituato a bruciare, e a non dimenticare.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 13

Mi hai lasciato il tuo tozzo di pane come in quel racconto di Salamov, solo che io avevo fame e l’ho mangiato e invece nel libro il protagonista resiste, fiero, alla tentazione. Quel pane era tuo, sapevo non ne avevi altro, ma non sono riuscito a trattenermi. Tutto qua!

Non è la prima volta che vengo meno a una promessa e non sono stato mai un fautore della coerenza a oltranza.
Ho barato più volte, barattato il mio voto per una carica da qualche centinaio di euro, mentito, rubato cose da poco, giurato e promesso con parole volutamente spergiure.

Proprio tu che hai dedicato una vita alla nostra vita. Mi ostinavo a chiedere consiglio agli altri che non sapevano cosa significasse averti, e finivano per edificare cantieri di parole vuote, che non erano le nostre.

Per capire il sogno ho avuto bisogno di svegliarmi.

Poi questa mia natura pavida, a cui tu hai sempre attribuito più valore di quello che in realtà avesse.

E ora che sto in quarantena, lontano da tutto, mi sento fatto per amare solo una donna, non certo per occuparmi del mio lavoro qualsiasi. Il tempo è passato e ho scoperto che l’uomo è fatto per amare, e io invece per grossa parte delle mie giornate dirigo un cantiere e quando smetto dormo.

Intorno a me è comparsa come la peste, che una volta era il tuo romanzo preferito. E pure io come i suoi protagonisti avverto la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla.

L’unica cosa, Adele, ho smesso di compiacere il prossimo e un po’ come quel personaggio del film di Sorrentino ho capito che non avevo più tempo per fare cose che non mi va di fare.
E il tempo per alcuni è una parabola, per altri un’occasione, per me è stata la clessidra di un conto alla rovescia in cui il risultato era palese fin dall’inizio: il banco vince sempre e Antonio Menna perde un’altra volta. Ecco tutto!

Sai, Genova non è Caserta e a casa avevo il mondo, mentre qua mi accontento del mare e qualche volta di una puttana gentile che quando ho bisogno mi da un orgasmo falso e un abbraccio vero.

Da poco riesco perfino a sorridere della mia sorte, avevi il vezzo di osservarmi con quell’espressione indulgente che ti solcava un po’ le guance. Probabilmente non sei nemmeno più la stessa donna che impazziva per la torta sacher, i massaggi alle caviglie, i dolci con la crema gialla e “chi l’ha visto?”.

Lasciarti è stata un’infamia, ma non la più grande:
non ho capito che la vita stava scorrendo, ho rinunciato ad amare e smesso di cercare le parole che non riuscivo a pronunciare, ho continuato a pronunciarne altre, nel tentativo di dare voce a cose per cui non servono parole…
…la mancanza di fiducia ha sancito il resto.

Pure questo esercizio sterile di contarsi le sconfitte, gli abbagli, lo avresti preso con la solita indulgenza, finendo col trovare un senso a un’altra forma qualsiasi del mio egocentrismo.

Il tempo è passato, ho smarrito anche la speranza e non c’entra la fortuna.

Oggi posso dire che la mia più grande infamia è stata la mancanza di fiducia.
Il resto è solo conseguenza.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 12

Nella vita la fortuna arriva quando meno te l’aspetti. Finchè l’ho aspettata non è arrivata.
Quando ho smesso sono stato assunto come ingegnere meccanico in una ditta di Napoli che appaltava il nostro servizio a una tra le più grandi aziende petrolifere italiane.
Da allora vado e vengo. Parto, ma poi torno.
Faccio ventotto giorni di lavoro su una piattaforma nel golfo di Guinea e ventotto di ferie.

Lavoro in un Paese ricchissimo, dove la gente è molto povera. Fin qui niente di nuovo, se non fosse che quando la vedi, la povertà fa un altro effetto. Almeno a me si chiude lo stomaco.

La paga è buona, anche se risponde a una logica sua, come tutto il resto: un indigeno vale venti euro al giorno, un italiano in appalto centocinquanta, un italiano da azienda principale trecento, un francese e un tedesco circa quattrocento. Ah! dimenticavo i sommozzatori a ottocento euro al giorno, però si ficcano completamente nel mare di petrolio e non deve essere una bella sensazione.

Ognuno ha un prezzo, e l’ordine comune è che quando sorgono problemi in piattaforma, il petrolio va sversato in mare. Poco dopo arrivano gli elicotteri del governo e scattano le foto per trattare il risarcimento, cosicché la storia affoga due volte: nell’oceano, e nelle tasche della classe dirigente.

Per fortuna, appena arrivato, James mi ha preso in simpatia ed è diventato il mio angelo custode. Mi ha evitato il pesce della mensa, le malattie delle prostitute, gli sguardi minacciosi dei passanti sbagliati. Per via dei racconti di alcuni parenti vissuti ad Afragola lui è convinto che i napoletani siano anche un po’ africani. Gli ho risposto che non è l’unico a esserne convinto. All’inizio mi ero pure offeso, deve essersene accorto perché una volta in mensa quasi a bruciapelo ha pronunciato più o meno queste parole:

“Chi è più povero non è meno degno, e avere altri valori a volte può voler dire essere meno vili. Ci sono molte cose per cui preferirei morire piuttosto che vivere. Un uomo si giudica anche da questo: da quanti motivi ha per vivere, e quanti per morire”, e non c’è stato bisogno di aggiungere altro.

Penso spesso alle parole di James e presto ho capito cosa intendesse. Forse lui considera la mia una civiltà arresa. Una civiltà che ha sostituito lo spirito con le merci e il crocifisso col bancomat. E pure io, venuto qui con la mia presunzione per guadagnare dei soldi vedendo cose che non si possono raccontare, non devo sembrargli chissà cosa.

Magari voleva dire solo che questo è un golfo dannato come il mio. E i sorrisi e gli occhi neri delle donne e dei bambini meridionali sono simili alle sue donne e ai suoi bambini e ai loro sorrisi. Che abbiamo la stessa luce, il chiasso, quella vicinanza rumorosa di chi non sa declinare la vita in altro modo che entrando nella tua. E sappiamo essere fatalisti, scaltri, ma anche prossimi.

L’ironia ha voluto che anche in questo golfo inghiottissi bocconi amari e adesso credo possa bastare, non è facile essere complice di ciò che si disprezza:

cercherò motivi per vivere, e cercherò pure motivi per cui non valga la pena tacere.

“Un uomo si giudica anche da questo: da quanti motivi ha per vivere, e quanti per morire”.

P.S.
Il nonno di James insegnava ai bambini come arrampicarsi sugli alberi quando si imbattevano per caso negli europei. Lui e i suoi amici avevano imparato a temere i bianchi fin da piccoli. Invece io ho iniziato a temerli da poco. Da quando mi sento napoletano e un po’ più africano.

Fra un po’ rientro…però non so se torno.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 11

Quando ero piccola la mia migliore amica si chiamava Greta. Ero asfissiata dalla voglia della sua attenzione.
Mi ci sono voluti anni per dirmi che amavo le donne. Che mettermi al livello dei maschi era un modo per rivaleggiare con loro per conquistarle.

Ovvio che ho provato prima con gli uomini. E più che l’aspetto fisico mi scoraggiava l’assillo di fargli pure da mamma. Sembravano fatti in serie: juventini, egoisti, logorroici che Narciso a confronto lavorava per la croce rossa internazionale.

Questo è avvenuto solo alle superiori. Al liceo statale di Foggia negli anni ’90 non c’era molto spazio per l’amore al femminile. Per questo sono partita. Tutti dicevano che a Milano era un’altra cosa, che al Nord c’era la società evoluta, e all’inizio non nego di aver provato una inebriante sensazione di liberazione.
Intendo dire che anche a casa mia sull’argomento ci si esprimeva con termini quali “ricchione” e “frocio”.

Ora l’hinterland milanese è la mia seconda casa. Tuttavia ero fuggita perchè mi sentivo oppressa e discriminata e qui ho scoperto che alcuni gruppi di lesbiche odiano gli uomini, altre disprezzano finanche i gay, e piano piano mi sono ritrovata adulta, un po’ delusa e un’altra volta sola.

Insomma, da ragazza ero sola perché non potevo uscire allo scoperto, e da adulta perché sono uscita troppo allo scoperto.

Nel frattempo ho trovato il coraggio di fare outing, come dicono oggi. E’ stata meno dura di quanto immaginassi. A tal punto che ora mio padre propone continui inviti assillanti alla mia Marika:

andiamo a mangiare il pesce a Manfredonia, facciamo il giro del Gargano fino a Pugnochiuso, vi porto alle Tremiti che so meglio delle Hawaii -, dice.
Parla di un’associazione culturale che a sentirlo Foggia è diventata meglio di San Francisco.

Io penso che a settant’anni mio padre, l’uomo che amo più di me stessa, senta la vita che gli scorre davanti e se ne fotta di tutto il resto. Che se va bene vivrà altri dieci, quindici anni e vorrebbe passarli il più possibile con le persone che ama. A settant’anni molte persone si staccano dalle cose, guariscono dall’illusione dell’eternità e quando va bene iniziano a dubitare pure dell’al di là.

Lui ha capito che bisogna guardare l’essenziale e lasciare a chi ha più tempo i distinguo. Non so come spiegarlo quello che ho vissuto con mio padre. A volte, quando parla di politica, mi sembra addirittura che non voti più nemmeno Forza Italia.
Ora che ci penso saranno anni che non lo sento parlare di Berlusconi, lui che in Puglia ha fondato uno dei primi clubs della nuova speranza degli italiani.

un milione di posti di lavoro -, continuava a ripetermi, – quello coi soldi ci sa fare, altro che i comunisti -.

E adesso invece ha spento la tv e legge Magrelli, vive la natura, poi sabato e domenica in barca, o a funghi alla Foresta Umbra. Da qualche parte ha letto che la Storia emette i propri inesorabili giudizi ogni vent’anni, che manca poco, e il resto sono solo chiacchiere. Ha letto non so dove che quando noi non ci saremo più, ancora per secoli ci saranno il Gargano, il mare, la Foresta Umbra. Per sfotterlo gli rispondo che forse ci sarà pure Berlusconi, però lo trovo un romanzo di formazione dignitoso il suo, per uno che nella vita ha fatto sempre e solo il ragioniere.

P. S.
Quasi dimenticavo, sono Marianna e lavoro allo sportello immigrati di Monza, in Brianza. Loro parlano africano, rumeno, spagnolo, e io mezzo milanese e mezzo foggiano… ci capiamo alla grande!!!

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 10

Caro Angelantonio Morra,
scrivo per ricordare i tuoi misfatti. Mi auguro che tu non riposi mai più sonni tranquilli e che i tuoi figli possano fare un giorno, sotto i tuoi occhi, la fine che impunemente mi hai destinato in un giorno di festa.
Non ti ricordi eh? Mi prendeste all’improvviso una mattina tra natale e capodanno, e siccome opponevo resistenza con tutto ciò che il mio corpo consentisse, eravate almeno in quattro uomini adulti contro un essere inerme.
Dopo avermi immobilizzato e attaccato nudo a testa in su, tuo cognato Vincenzo Flammia prese un grosso coltello affilato e passò la lama con decisione sulle mie giugulari. I fiotti di sangue scorrevano imperterriti.
Io soffrivo come un cane e il dolore ottundeva la vista, la disperazione ovattava l’udito. Strillavo con tutta l’energia che avevo dentro e giuro su dio che non avevo mai provato tanto dolore e tanta angoscia come quella che mi infliggeste quel giorno maledetto. Non avevo immaginato l’inferno più lungo e cattivo.

Riuscii a stento a vedere Vincenzo Flammia con la testa reclinata sotto le mie membra. In mano aveva un enorme catino in cui affluiva copioso il mio sangue. Il supplizio raggiunse l’apice quando capii che mi si dava quella fine barbara con l’intento di raccogliere il mio sangue caldo. Credo che l’inesausta sofferenza aumentasse non per le indicibili pene subite, piuttosto perché credevo di meritare una morte più umana.

Non sono mai stata una creatura ambiziosa e d’altronde sapevo che non avrei vissuto a lungo, tuttavia sarebbe bastato un colpo di pistola in testa per avere più o meno lo stesso risultato. Ciò mi indigna profondamente, mi spinge a impugnare la penna per scrivere,e il modo ancor m’offende.

Pregavo arrivasse la fine, caro Angelantonio, ma il supplizio, quel golgota improvvisato in mezzo alla masseria, fu interminabile. E quella cretina di tua moglie non ebbe nemmeno la decenza di portare i bambini da qualche altra parte. Lei dissimulava la tensione cercando di convincere i piccoli che non avevo sentimenti. Povera Maria D’Ambrosio, spergiura contro l’evidenza. I tuoi figli piansero disperati e almeno quel giorno digiunarono per l’impressione suscitata. Che scelleratezza.

Avevate invitato molti parenti a festeggiare sulla mia tremenda agonia. Il banchetto prendeva tutta la sala a piano terra e il vino colava più o meno come il mio sangue. Come eri felice! Ti sentivi un uomo.
Però i tuoi bambini avranno sognato le mie urla per notti intere. Tra le dita delle mani osservavano il mio corpo dimenarsi strenuamente fino all’ultimo soffio.

Mi consola che tutto questo sia cessato dopo qualche anno. Che i ragazzi abbiano preso un’altra strada e un po’ si vergognassero di te. Che tu sia rimasto solo in mezzo a quella merdosa campagna. Mi rinfranca la morte di quella stupida di tua moglie, che ogni tanto nella stalla si faceva toccare dallo stagionale che ti aiutava nella vendemmia. Una così, che attraversa la strada di notte, senza alcuna precauzione, non merita compassione.

Più di tutto mi appaga che i tuoi figli dopo l’università abbiano scelto di andarsene a Monza. Così li vedi solo due volte l’anno e il resto dei tuoi giorni li passi solo come meriti, a ricordare quando ti sentivi utile a qualcosa e invece eri un carnefice.

Lasciamo stare Angelantonio, riuscirei quasi a perdonarti se non fosse per il fatto che mi facesti urlare talmente tanto che sicuramente capirono pure i miei fratelli. Cosicché vissero il resto dei loro giorni nel terrore, e le urla che non seppi trattenere svelarono loro che il diavolo esiste, e ha riservato loro la spietata fine che prima o poi avrebbero scoperto.

P. S.
Lasciamo stare i tuoi figli, che non hanno alcuna colpa.
Ricorda che non sei mai stato un uomo!

Il tuo porco.

SANDRO ABRUZZESE

LETTERE SETTENTRIONALI 8

Il mio nome è Michele Acampora e sto qui dal 2002.
Ho preso il diploma e oggi è il giorno della mia laurea triennale in Scienze della formazione. Non mi sembra vero.
Ho iniziato a studiare perché avevo tempo e non passava mai.
Sono nato a Napoli in vico Paradiso, una traversa di via Pasquale Scura, e con questo non mi voglio giustificare.

Ve lo dico subito: la vita mi ha fregato! Su questo sono d’accordo con il professore Vitagliano.
Lui sostiene che gira e rigira facevo sempre lo stesso sbaglio, applicavo sempre lo stesso schema. Che il destino è pure una questione di schemi, di meccanismi.

Mi sembra di sentirlo: – E’ che a volte crediamo di scegliere e invece finiamo col rispondere ad automatismi che portano sempre davanti allo stesso muro, nello stesso vicolo cieco -.

Proprio come il mio vico Paradiso, un vicolo cieco dove dalla parte della cumana si bucano i tossici, e dall’altra si vende la roba per i tossici.

All’epoca non mi faceva dispiacere la gente. E allora passavamo veloce con lo scooter, e io acchiappavo le borse, e spartivamo metà per uno già verso piazzetta San Gaetano ai tribunali.

Poi quella volta non so che mi è preso, ci sono andato incerto, poco deciso. Mentre cadevamo ho sentito un rumore sordo come una botta secca. Neanche il tempo di alzarmi e avevo in faccia la morte.

Ve lo dico io che mi ha fottuto. E’ stato che sapevo di essere diventato bravo. Mi ha tradito l’abitudine, portandomi ad abbassare la guardia con la strada. Ad abbassare la guardia con la vita.

Il professore Vitagliano è stato più di un padre al carcere minorile. Lui dice che al mondo non c’è errore peggiore di quando uno crede di essere migliore degli altri. Si chiama presunzione.

Dice: – tutti quanti possono vincere una volta, ma il campione è quello che vince sempre, perché non abbassa mai la guardia, è migliore perché sa che nella vita ogni cosa è provvisoria, e per questo per rimanere in alto ogni giorno che passa bisogna metterci sempre più forza -.

Gli piacciono le frasi a effetto, ma a me sta cosa del campione mi sembra una cazzata, anche se non gliel’ho mai detto.

Ma almeno lui crede che non sono fatto per rubare, che nessuno al mondo è fatto per rubare, e che gli uomini hanno lo scopo di diventare sempre migliori. Che ho avuto solo cattivi esempi, cattivi schemi, cattivi meccanismi.

Gli ho voluto credere e perciò sono rimasto.
Avreste dovuto vederlo alla laurea, piangeva come un bambino e io ridevo.
Lui piangeva per me.
E io ridevo per me, e un po’ pure per lui.

SANDRO ABRUZZESE