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STRATIGRAFIA DEL QUOTIDIANO (2)

di Elda Martino

Elda Martino

Elda Martino

Oggi, da sola, per strada, di ritorno da scuola, ho pensato di poter morire. le terre d’altura, che tante volte avevo sentito madre, sorella, complice, confidente, amica, oggi mi sono apparse ostili, pronte a spezzarmi, a infrangere la mia esilissima esistenza. Oggi come mai prima ho avvertito la morte del mondo, di questo mondo, così attento, guardingo, così pronto a divorare ogni essere che ancora pulsa e vive. Un generale invisibile e spietato che non fa prigionieri, che fucila alle spalle, che si diverte a guardare languire i suoi figli, mai amati, mai voluti se non per offrirli poi come martiri o come semplice carne da bancata. Ogni singolo metro di asfalto che divideva gli alberi, ogni casa mal riuscita, vomitata dal gran naufragio dell’ultimo tremito delle argille, ogni infisso di alluminio, ogni cartello con su scritto “vendesi” attaccato ad abitazioni abbandonate e sordide nel loro osceno esporsi di pilastri e di cemento armato, ogni deposito di materiali edili ormai desueti e fattisi tutt’uno con la roccia denudata,con la cava aperta nel fianco, ferita sanguinante e mai richiusa, mai curata, ogni rosa, verde, giallino, bianco dei muri sporcati dall’umidità mi erano addosso, implacabili, invitandomi,prima, flessuosi e, aizzandomi poi volgari alla resa, a una richiesta di tregua che nascondeva -lo so- il supplizio capitale.

Oggi il mio sguardo si è fatto più lucido, le mie mani si sono rattrappite in uno sforzo estremo, nel tentativo di aprirmi un’uscita, un varco da questo luogo che non è domani, né ieri ma solo oggi, solo ora, solo un adesso circolare, sempre muto, astioso, stizzito, sempre invidioso del bene, del respiro, della vita. Come i corpi dilaniati delle giovani volpi di marzo, dei porcospini, dei gatti, dei cani, strazianti lapidi a quel procedere che è invece stare immobili, testimoni silenziosi e cruenti del compiaciuto e voglioso desiderio di organi, di fremiti, di battiti che questa terra chiede. Gli occhi sempre fissi sulla preda, semichiusi nello sforzo di puntare chi barcolla, chi sta per cedere, chi non ha più forze. Occhi che precedono mani facili a spingere nel vuoto di cui si ciba,mandanti di nuovi sacrifici, ingorde, con le fauci spalancate, aperte senza ritegno a svelare un fondo mai pieno, mai sazio, mai pago. Oggi ho avvertito, con quella parte di me che conserva l’istinto animalesco e salvifico di sopravvivenza,e per questo più vero, più acuto, che non c’è vita qui, solo un inerte resistere, affannarsi, sfiancarsi vano. I dolori di coloro che percorrono questi luoghi non si incontrano, si inginocchiano su suoli diversi,pregano a voce troppo bassa o strillano isterici, aprono le braccia, tendono le dita fino all’estremo sforzo ma non si toccano. Solitudini ferme con intorno altre solitudini, disperazioni mai ascoltate che non sanno accogliere altre disperazioni. Nessun andare avanti, nessun progredire, solo un immobile e risentito stare e stare qui. Nessuna speranza , nessun alito di vita, nessun attimo di bene, una lontananza siderale, come siderale è il silenzio di ultima stella ormai morta ma ancora visibile nel cielo. Nuovi sacrifici pretende questa terra, ogni giorno nuove vittime, nuovi sacerdoti, asserviti, indolenti, svuotati,ciechi, canne nel quale soffia il vento di tramontana, corpi senza voce. Novelli adepti per il suo culto di dannazione e di morte. 


Marmellata di Lucciole (2)

brani da un romanzo di GIOVANNA IORIO

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foto Giovanna Iorio

Orazio il barista, detto il Fiacco

Nel mio paese c’è un bar soltanto. E Orazio, il barista, è un poeta. Quando mi vede dice cose strane, poesie che non capisco. Oggi mi ha detto così:

Angiolè, a’ vita
è ‘na pommarola.
E oggi fa’ cavero.
Angiole’, va’ a ‘mmare.
A’ vita se ‘nfraceda. A chi aspietti?

Che tradotta fa più o meno così:

Oh Angioletta, la vita
è un pomodoro.
E oggi fa un gran calore.
Orsù Angioletta vai
al mare. La vita
è breve.

Carpe Diem.

Al Mare

E allora vado al mare. Non c’è nessuno. Sulla sabbia soltanto i resti della mareggiata: alghe, pezzi di legno, bottiglie di vetro senza un messaggio di aiuto.
Mi ricordo quando venivamo qui solo io, mio fratello e mia madre. Avevo una paletta rossa, quella di mio fratello era gialla. Giocavamo a seppellire la mamma. La sabbia le finiva tra i capelli, nel costume, qualche volta anche in bocca. Dopo un po’ non si vedeva più e io e mio fratello andavamo a tuffarci nella schiuma delle onde. Un pomeriggio ci fu un lampo improvviso, e poi un tuono. Subito mia madre resuscitò. Venne di corsa a prenderci in acqua. Era tutta sporca di sabbia, ci urlò di uscire. Qualche minuto dopo arrivò la pioggia. Tornammo a casa bagnati fradici. Sui vestiti acqua dolce e acqua salata.

Il temporale

Giovedì scorso mi ha svegliato il temporale. Ho sentito un rumore. Sembravano ali… flap flap flap…
Mi è rimasto un fruscio nelle orecchie.
Una lampo mi ha ferito gli occhi. Sono rimasta immobile. Ho sentito male alla testa. Avevo freddo. Nel buio per un attimo ho visto il letto disfatto e la stanza silenziosa. Avevo sete. Mi sono portata le dita alle labbra. Non sono riuscita a trovare la bocca. Sono passati alcuni istanti. Ho affondato il viso nel cuscino. Ho sentito dei rumori… un boato metallico, un rumore sordo, un fruscio di foglie, il respiro di un polmone malato.
flap flap flap…
Un ramo… Deve essersi spezzato un ramo. Alle tempie una fitta. Ho stretto il cuscino bagnato. Tutto ha cominciato a girare vorticosamente. Mi sono addormentata con le vertigini. Quando ho riaperto gli occhi era l’alba, mi avvolgeva un chiarore grigio cenere. Ero stanca. Sono andata alla finestra. Il temporale era passato. Il giardino devastato. Nelle orecchie uno strano rumore…
flap flap flap…
Un fruscio d’ali.

E se mio fratello diventasse un pero?

La notte si dondola sospesa tra i platani. Io e mio fratello siamo seduti in giardino, al buio. Domani parte. Tornerà a Natale. Le sue parole sono stelle minuscole e lontane. Ha gli occhi chiusi, li apre di tanto in tanto per seguire i fruscii dentro alle siepi. Tutto, parole e rumori, svanisce nel buio che abbiamo intorno:

“Voglio essere un pero
sussurrare saluti ai bambini.
Che c’è di male a essere un pero?
Dimmi, che c’è di male…?”

Mio fratello è diventato un pero: è ricoperto di pere e se ne sta in cima alla collina a guardare la valle. Non vuole partire. Ha messo radici sulla nostra collina. Ecco quello che ci diciamo quando lo rivedo:
– Cosa si prova ad essere un pero?
– Il sole è un pellegrino. Le radici si muovono. La pioggia ci parla. Gli uccelli sognano.

La Mia Stanza

La madre di mia madre è venuta ad abitare con noi circa dieci anni fa e come una grossa macchia d’olio si è allargata. Ha cominciato con la metà del mio armadio per la valigia verde di cartone, piena dei pezzi della sua casa smontata. Mi è sembrato naturale aiutarla a sistemarli accanto alle mie cose.
Dieci anni fa avevo dodici anni. Mi stavano crescendo i seni e avevo bisogno di controllare ogni sera se fossero un po’ più grandi. Lo facevo nascosta dietro la porta, accanto al termosifone caldo, prima di mettermi il pigiama. Poi ha cominciato ad entrare senza bussare. Come un pomodoro fuori dal frigo ha preso ad invecchiare ad una velocità spaventosa tanto da minacciare anche me. Una notte, cinque anni dopo, sono rimasta a dormire al piano di sotto, in salotto. Non ho mai più dormito nel mio vecchio letto.
E’ stato come andarsene via di casa. Una fuga in piena regola, in piena notte. E’ stato come passare la notte all’aperto, spaventata dagli angoli anonimi di quella stanza che al buio mi sembrava un bosco. Con la costanza di una formica e la tristezza di un emigrante, in cinque anni, ho trasferito di sotto quasi tutto il mio mondo. Con lavoretti extra e l’aiuto di mia madre ho comprato una libreria, un divano letto, cuscini colorati, lampade. Il tavolo rotondo, dove prima si pranzava se c’erano invitati, è diventato la mia scrivania. Il computer di mio fratello l’ho usato per la tesi di laurea e non l’ho più riportato su. I miei amici li ospito “da me”. Tutti dicono che questa stanza mi somiglia: è calda, allegra, intima. Ci sono tre stampe di Klimt alle pareti. Tre donne avvolte in cascate di veli d’oro.
Mio fratello vive a tremila chilometri di distanza. Ha lasciato tutti i libri e torna quando ci sono le feste. I miei genitori stanno vedendo la televisione in questo momento. La tv è in cucina. A me piace la radio. Mi addormento ascoltando i D.J. che parlano sottovoce; dopo la mezzanotte ci sono i concerti di musica classica o jazz; programmo il timer e ci pensano loro a farmi compagnia fino a quando non chiudo gli occhi.
Pranziamo tutti e quattro insieme, il più delle volte se io non sono in giro per lavoretti. Odio il brodo. Mio padre e mia nonna lo tirano su dal cucchiaio come fossero motorini per l’acqua dei pozzi. Io e mia madre ridiamo. Ma poi lei grida a mia nonna di stare attenta a non farsi finire tutto addosso e mio padre ne approfitta per il borbottio quotidiano. E non ridiamo più. Qualche volta porto da mangiare in camera mia con la scusa che ho da leggere delle cose. E’ per starmene un po’ per i fatti miei, un po’ da sola.
Da qualche tempo questa stanza non mi basta più, non mi piace più. Ho scoperto che se una cosa non mi piace più tendo ad abbandonarla. Ho fatto così con le cose che qua non ci stavano e che ho dovuto lasciare su in camera di mia nonna. Ora sono tutte ricoperte di polvere. Parlo dei poster arrotolati sull’armadio, dei libri del liceo, dei cassetti pieni di mutandine che non mi stanno più e delle cartoline di amici che non vedo più. E’ tutto di sopra, ad aspettare chissà quale giudizio universale.
Anche in questa stanza gli oggetti si accumulano. Cartoline, lettere, soprattutto ricevute di ritorno di raccomandate quasi quotidiane (raccomandata a questa o quella scuola, a questa o quella industria, a questa o quella azienda….bla bla bla.) Mio padre è stufo delle mie raccomandate. Un giorno mi ha detto “figlia mia risparmiateli ‘sti soldi”. E io mi sono sentita vacillare, come sull’orlo di un precipizio… se mi togliete le raccomandate posso anche morire! E così continuo a spedirle.
Tra sassi da cavalcavia e navigate su internet sembra che la mia generazione sia ossessionata dal movimento. Più che trovare risposte alla domanda “da dove veniamo?” ci interessa sapere dove andiamo fiondati nel buio ad una velocità spaventosa. Tentiamo disperatamente di capire da che parte stia andando il tempo. Si accende un video e si fa un tuffo nel buio. Si spegne quando si ha paura. E chi non ha internet a volte si affaccia dai cavalcavia. Accendi-spegni. Accendi-spegni. Dà un senso di onnipotenza fermare una corsa. E’ come desiderare di fermare un treno in corsa con il freno d’emergenza. I sassi sono proiettili sparati contro il mondo in corsa.
Quando litigo con il mio ragazzo resto immobile nella mia stanza, seduta sul divano. Non riesco più a muovermi. Nel cervello si accavallano le idee, i pensieri. Poi mi spuntano due ali piccole e bianche e comincio a volare. Esco dalla finestra, faccio un giro intorno a casa mia. Mia madre a primavera dà a tutta la casa un tocco di freschezza. I fiori nuovi si aprono sui davanzali nei vasi che lei ha portato su da sola e che ha sistemato mentre mia nonna le diceva che fa male a spendere tutti quei soldi in fiori che moriranno con le gelate. Perché è soltanto febbraio, ma fa già caldo e anche le mimose sono state ingannate. Come mia madre.
Nel paese vivono quattrocento anime. A tredici anni spiavo l’immobilità di mio fratello seduto sotto una lampada gigantesca per ore intere di notte. Il libro che leggeva era di Gogol. Le anime morte. Lo presi anch’io. Lo sfogliai. Lessi qualche stralcio di frase. Ero sicura che parlasse del nostro paese, di queste quattrocento anime che spariscono a mezzogiorno e poi di nuovo tutte insieme alle sei di sera; delle donne con le pantofole ai piedi e la messa in piega mensile, puntuale come il flusso mestruale; degli uomini seduti nell’unico bar, dove si parla del nuovo sindaco (c’è sempre un nuovo sindaco) e si sputa nei fazzoletti.
Ed eccoli: quelli della mia età! Più giovani o vecchi, dopo i venti abbiamo tutti la stessa faccia. Di notte ne vedo qualcuno nella piazzetta dove da un po’ hanno messo a dormire gli autobus di linea (la piazza è di fronte alla mia stanza- alle sei e trenta arrivano gli autisti e li mettono in moto- il rito di scaldare i motori dura una trentina di minuti).
Parlano senza gesticolare, con le mani in tasca, con le voci monotone che nel silenzio rimbombano e a volte non riesco più a seguire il discorso dei D.J. di rai stereo notte.
Quando me ne andrò devo sistemare tutte le mie cose in scatole di cartone. Soprattutto i libri. Perché non si riempiano di polvere. Sono sicura che quando me ne sarò andata questa stanza ritornerà quella di una volta. Spero solo che la invada mia madre e non sua madre. Serpenti d’Acqua, Danae, Judith, verrete con me. Non vi lascerò arrotolate sull’armadio.

GIOVANNA IORIO è anche su http://amicidiletture.blogspot.it/
Parte di questo brano rientra nell’antologia “Quello che ho da dirvi”, Einaudi, a cura di Mozzi e Caliceti, 1998.

I mulini a vento di Rivoli Veronese

Vigneti, Rivoli Veronese e le montagne del Baldo e della Lessinia.

Vigneti, Rivoli Veronese e le montagne del Baldo e della Lessinia.

Sono andato sul forte austriaco di Rivoli Veronese perché ero certo che lì ci fosse il vento, e perché volevo un orizzonte ampio, in poco tempo, da cui scrutare i miei mulini a vento.

Ci sono andato prima di pranzo, e in macchina avevo il pane e il latte. Poco prima la signora del pane si era sbagliata a fare i conti, e comunque raramente mi fa uno sconto. Ho guardato attentamente lo scontrino. Lo faccio sempre, soprattutto le prime volte che entro in un negozio, lo leggo come fosse una carta d’identità che mi aiuti a decifrare il posto.

Il forte Wohlgemuth sovrasta il passo dell’Adige, a nord di Verona. Questa zolla di mondo ha un nome nobile: la terra dei forti. Fu Radetzky, alla metà dell’800, a farli costruire per scongiurare il passato. Infatti, nella gola di Rivoli Napoleone, con un po’ di fortuna, aveva inflitto una dura lezione agli austriaci. Era la Campagna d’Italia del gennaio 1797.

All’inizio avrei voluto raggiungere forte Mollinary, a Monte. Desideravo ripercorrerne il sentiero, ignorare il divieto di transito e varcare le pareti annichilite di quell’eremo logoro di guerra. E versare anch’io preziosi istanti nel suo abbandono, ospite di una carcassa inerme: piccolo Pinocchio, o vecchio Achab senza baleniera.

Tuttavia i sentieri impervi e la forza di attrazione per l’abbandono, hanno lasciato spazio al desiderio di questo avamposto pensile dalle forme del razionalismo architettonico di Piacentini.

il forte rivoli

Un cerchio di marmo bianco dal cielo di terra verde, che scruta l’intorno con la sua aria diffidente, in cerca di altra gente che abbia in qualche modo le sembianze della differenza. Ma la guerra è finita, caro Generale, “il nemico è vinto”, e senza onore hanno prevalso i giganti, i quali ci hanno immersi fino alle unghie nell’oceano della tecnica: è rimasto solo Ulisse a tentare invano il ritorno, povero lui, passato da astuto a poco più che fesso.

Salgo sul monte Castello e si vede la Val d’Adige fino a Rivalta, e col volto nascosto dalla macchina fotografica punto alla gola verso Gaium, prima ancora l’ansa del fiume porta a Volargne.

All’apice del colle un uomo sulla quarantina, affabile, fa in tempo a dirmi che viene da Bovolone ed è grafico pubblicitario. Riparte subito e io avrei sperato qualcosa di più da questo incontro fortuito, se n’è andato e mi è dispiaciuto. Ancora avverto lo stupore per il fatto che dal mio agire possa scaturire qualcosa, un incontro, un avvenimento nuovo. Prima accadeva solo il consueto, e io pensavo che tutto il mondo fosse consueto.

Ora seguo maggiormente l’istinto, mi affido ad alcune percezioni. Le stesse che mi fanno desistere dal proseguire adesso. Decido improvvisamente che non ho alcuna voglia di musei della guerra e feritoie, di vessilli lisi e polveriere, artiglieria, caserme, patriottismo.

Abbandono il forte e mi accontento degli dei del vento. A Rivoli le pale eoliche non le avevano mai viste, sono arrivate da poco, ma sembra che gli abitanti già ci abbiano fatto l’abitudine. Mi ero promesso di entrare nel bar del paese, intitolato a Napoleone, come tutto il resto qua intorno, poi ho preferito percorrere una strada secondaria che tirava dritto fino ad Affi.

Le pale eoliche di Rivoli Veronese

Le pale eoliche di Rivoli Veronese

Le pale mi hanno messo in testa il Formicoso, quella immensa distesa di grano gremita di mulini e vento, tra le puglie e il mar mediterraneo, a un respiro dalla mia valle.

Non è la prima volta che mi sfugge un luogo. Sembra impossibile, lo so. E’ lì davanti, però non ci sei più tu. O non sei lo stesso di un attimo prima. E per incontrarsi occorre essere almeno in due. Rivoli Veronese si è sottratta insieme alle sue duemila anime, e ho conservato solo il promontorio del forte e i nuovi signori dell’eolico.

Mi sono sentito un intruso e ho preferito scendere nella gola infiammata da una luce generosa, allo scavo archeologico della chiesetta di San Michele a Gaium. Una pieve quasi in riva al fiume, recuperata in parte grazie all’impegno dell’associazione Baldo Festival, di Walter Pericolosi, con l’ausilio dell’amico archeologo Luciano Pugliese.

E’ un luogo solo, ha per compagni rocce e anse della Chiusa di Ceraino e l’Adige. Credo di aver finalmente trovato ciò che cercavo. Su questo millenario selciato resuscitato al fango, seduto a margine di una strada ferma, la mia testa diventa leggera e prima di tornare riesco ad annotare alcune frasi sparse:

“È poi più tempo di nascondere il volto?
mi manca a volte una persona.
Quando era in vita non era mai l’ora

Prego i limiti di ogni singolo giorno
Per la sensazione inferma di vivere inerme.

nella clessidra a tempo in cui piovono macigni
e tu con quel sorriso allergico alla polvere.

Ancora è sempre inverno senza sole,
o dove rimani
seppure in eterno circondato
solo.

Non resta che il tempo per passare alla chiusa, ancora in riva al fiume, una locanda, delle canoe solcano il canyon. Alcuni familiari ricordano un uomo, hanno piantato un Leccio, accadde poco dopo l’armistizio dell’8 settembre.

Sandro Abruzzese
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Stratigrafia del quotidiano (1)

di ELDA MARTINO

Elda Martino

Elda Martino

aprile, sabato.
Amica mia cara, molto accade o forse nulla, il sole sembra essere più caldo in queste mattine di un aprile che non vuole farsi primavera, i merli popolano rumorosi il grande albero di acacia che separa il mio balcone dalla valle, un cane abbaia disperato aspettando che rientrino i suoi padroni e io vago nelle stanze di questo luogo dove ho posto dimora senza saper esattamente cosa fare e, una volta deciso, abbandonandone anche la sola idea.
Eppure tanto ci sarebbe da sistemare, tra i miei vestiti che occupano come truppe militari troppo ingombranti l’armadio a quattro ante della camera da letto e due bauli di legno, un assedio stratificato che nemmeno saprei decodificare, che nemmeno uno scavo potrebbe mettere su un matrix di ante e post.
Ciò che copre è più recente di ciò che è coperto, ciò che taglia si appoggia a ciò che è tagliato, e il conglomerato naturale, e il terreno vergine e le pomici di Avellino e l’eruzione di Pollena.

Potrei mettermi a cucinare ma anche quello non avrebbe senso. Ogni gesto, ogni occupazione mi pare come una scusa, una perdita di un tempo che dovrei destinare ad altro, a qualcosa di più importante e grande. Forse questo qualcosa è la scrittura, ma non ne sono del tutto certa, perché anche mentre scrivo sento che i pensieri corrono più veloci, assai più veloci delle mie dita e degli input che lancio al pc.
Come se io fossi perennemente avanti, oltre, al di là di ciò che faccio, come se non ci fosse mai contemporaneità, coincidenza temporale fra ciò che immagino e ciò che, poi, tento di descrivere. Stare a telefono ora mi pesa, vorrei dire tanto e non ci riesco, mi sembro ripetitiva e petulante e noiosa e non ce la faccio a reggere un’intera conversazione. Sono in costante dissidio con me stessa, mi giudico, mi analizzo, mi esamino, mi boccio.
Sono come una banconota falsa messa in circolo, non valgo quanto appaio, mi esibisco nella consapevolezza piena di essere una furfante, una ladra o, meglio, una finzione menzognera ben impacchettata, ben esposta. Mai ciò che scrivo fotografa le mie visioni, quando le stendo, le metto in lettere, vocali, consonanti, sillabe, sono già svanite da tempo e perdono intensità, se mai ne avevano avuta.
Mi rifugio nelle letture, nei giochi di parole, nei film che amo e sogno una vita che, ormai, non mi è più permessa, un sogno doloroso perché ora è irrealizzabile mentre prima poteva ancora accadere, ancora concretarsi. 
Cos’è questo andare avanti, questo procedere verso la fine? Per questo, amica mia, siamo stati generati? Per vivere nell’attesa che arrivi il nostro giorno? Io credo di sì, credo che ci sia verità in noi solo nell’istante in cui ce ne andiamo via per sempre, dopo quel pochissimo che siamo stati.
Tutto il tempo in mezzo non è che un’attesa, un vano agitarsi per lasciare una traccia, per aggrapparci ad un’illusione di vita e di respiro.Dovremmo aspirare ogni giorno, ogni minuto, alla libertà, alla vera libertà che ci concederebbe il senso dello stare qui ed ora, ma non nasciamo liberi, né lo diveniamo, e per nostra precisa scelta, ad ogni paletto che mettiamo, ad ogni difesa che frapponiamo fra noi e la vita, ad ogni impegno che ci assumiamo, quando lavoriamo, quando fissiamo appuntamenti, quando andiamo di fretta per correre verso l’ennesimo inutile incontro.

Non credo più in questo, amica mia cara, non ci credo più, io non riesco a sopportare l’idea che si venga al mondo per lavorare e per fare figli e per ammucchiare danaro e consumare beni. ma non ho coraggio per cambiare il corso nel quale mi trovo da sempre e mi accorgo che quella che pensavo fosse un’idea di libertà, uno spazio vitale, altro non è se non l’ennesima gabbia nella quale sono andata a rifugiarmi. Ho sempre avuto terrore della gabbie, sin da quando mia nonna, da bambina, mi portava alla zoo di napoli ogni giovedì pomeriggio.
Soffrivo a vedere il leone andare su e giù ossessivamente, lo scimpanzé allungare il braccio a chiedere cibo, o forse no, forse aiuto, le due giraffe spelacchiate e polverose che guardavano un oltre fatto di pochi eucalipti e tanto rumore di auto. Soffro anche ora quando vedo un essere vivente intrappolato, circondato, recintato. Ma io non sto meglio di loro, dentro di me, anche se posso muovermi, io non sono più libera o meno infelice.
E sai, amica cara, ? Sai che ho l’esatta consapevolezza che andrà così fino alla fine dei miei giorni, poiché ciò che mi manca è quella sicurezza che viene dal coraggio, quella sfrontatezza che ereditiamo dai geni materni, quella forza che non possiedo, allevata come sono stata nel sospetto, nella paura e nel recinto che precludeva al rifiuto. Lo so, ora lo so, è questa la vita, la mia vita, dolore, recriminazioni, rimpianti, rimorsi e traumi mai superati. Assenza di bene, di bene per me, rivolto a me. Assenza di attenzione, di ascolto. Paura di disturbare, consapevolezza di dovermi nascondere e di non dover dare fastidio alcuno. Coltivo il dubbio e la speranza, Amica cara, ma non ho più forze per me, non ho entusiasmi, non ho sorrisi. Ogni cosa è fuori, è distante, è lontanissima.
Scusa questi deliri, ma solo a una amica posso confessare, qui ed ora, il mio quotidiano fallimento.
un abbraccio

Abbecedario provvisorio di paesologia

foto fabio nigro

Aquilonia, andretta, bisaccia, cairano ,conza , calitri , lacedonia, morra, teora, rocca, guardia, sant’andrea, monteverde, trevico e altri paesi ancora. È in irpinia d’oriente, già terra dell’osso, che la paesologia e il suo fondatore, Franco Arminio, sono nati. E se osso deve essere, la paesologia è una scapola del paesaggio che si lascia corteggiare dalla poesia e dalla geografia. Una scienza malferma, ma in grado di scardinare pregiudizi anche solo invitando ad accarezzare i cardi nei cimiteri, vive dell’infiammazione emotiva che una residenza anche provvisoria in un paese provoca, a volte bastano solo alcuni minuti. La folla che si accalca intorno al discorso la tiene lontana, il suo baricentro è la percezione solitaria.

Alberi
Quelli solitari, che sono cresciuti senza l’ansia di primeggiare. Potete girargli intorno ma non vi daranno mai le spalle.
Anziani
Storie e rughe stese al sole come lenzuola.
Bar
Non quello all’ultima moda, ma quello con l’insegna dei gelati arrugginita; quello dove dietro al bancone c’è un barista che ha l’età di vostro nonno.
Buio
Di notte dentro e intorno ai paesi c’è ancora.
Campanile
Ha un orologio di solito rotto ma segnatevi l’ora, sarà quella del vostro ritorno.
Cane
Di razza incerta, stanco e sporco, sovente su tre zampe.
Curve
Nessun rettilineo vi condurrà mai a un focolaio di paesologia.
Desolazione
È una damigiana piena ma senza guscio, è difficile da maneggiare.
Elezioni
Prendete la via della campagna.

Formicoso
Luogo circoscritto, carte alla mano: piani della guiva, pero spaccone, lago morto, la toppa, monte felice. È su quest’altopiano che la paesologia ha piantato l’ago della sua bussola.
Geografia
Quella disegnata da un verme in una mela.
H
La lettera h nei paesi non è mai sola, è sempre preceduta dalla lettera c. Le troverete appiccicate ai lati delle targhe di alcune auto. Sono la quarta di copertina di storie lunghe chilometri.
Inverno
Non segue mai la rotta e trascina i paesi alla deriva.
Luce
Indispensabile alla foto-sintesi paesologica.
Manifesto
Quello dei morti. Fate attenzione al nome, all’età e dove è venuto a mancare il caro estinto. Questa settimana Marianna è morta a Firenze, Gerardo in Francia e Giuseppina negli Stati Uniti.
Mestizia
È un ferro del mestiere.
Neve
Quella che cade sui paesi vince sempre. Alla neve si arrendono gli uomini, le macchine, gli alberi e gli animali. La neve battuta delle piste da sci non è paesologica.
Ossigeno
Come piccole bambole a tracolla, così lo portano gli anziani mentre i loro giorni si sfilano dall’orlo.
Ortiche
Crescono nella bocca del paese e la paesologia le assaggia con la sua lingua.
Paesaggio
Ha solo i vostri occhi per compagnia, non lasciatelo solo.
Pietre
Quelle di una vecchia strada di paese condividono le vie di fuga, ma rispettano quotidianamente la fila.
Quiete
Non troverete altro.
Resa
La paesologia la coltiva senza cedimenti piantando la sua bandiera bianca.
Silenzio
In alcuni paesi è infrangibile.
Terra
Prendetela tra le mani e sgranatela come un rosario mentre pregate il paesaggio.
Utopia
È l’unico paracadute che potete indossare prima di precipitare dalla vostra rupe quotidiana.
Vento
Dove non soffia, è possibile solo una paesologia di breve respiro.
Zolle
Per ora sono le uniche a rivoltarsi.

Fabio Nigro

Madrid: Callao e Plaza Major

La città curva
sulla sua vita sfrenata
il postribolo e la chiesa, l’oro e il legno marcio.

La nausea che chiude la bocca dello stomaco
l’odore forte della strada e delle sue tracce
negli occhi

Donne bambine all’alba nel metrò,
la domenica il silenzio raccolto
dietro i banchi e l’occhio del Santo
volto al cielo:
la terra reclama
un suo frutto dolcissimo, troppo maturo

Poi la sera un flauto mi suona dentro
l’aria della città
e nella penombra i corpi accoccolati
sul selciato caldo della piazza sono vicini
nel respiro.

Giorgio Galetto
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Giorgio Galetto

Giorgio Galetto

UN LUOGO

di Elda Martino

Elda Martino

Elda Martino

Dice che si deve partire da un punto. Ma questo punto io non ce l’ho, non lo posseggo. È come una liturgia senza la immaterialità del sacro, compio tutti i gesti, apro il pc, scelgo il carattere che mi piace, metto in giustificato il testo. Niente.
Forse è meglio partire da un luogo, dal posto in cui mi trovo adesso, dal mio letto che oggi sembra una prigione e non un rifugio.
Stamattina quando ho aperto gli occhi speravo che fosse già ora di pranzo, invece erano solo le dieci, le dieci sono un’ora neutra, insopportabile. È troppo tardi per pensare che sia ancora mattina e troppo presto per togliersi di dosso il peso del tempo che deve passare. Le dieci sono un luogo da cui non si può fare niente. Non come le due di notte, quando si possono scrivere lunghe lettere d’amore, o l’una, quando ci si può mostrare impegnati e attivi, nemmeno come le sette, quando puoi far vedere al mondo che almeno ti alzi presto.
Le dieci sono un tempo che andrebbe abolito.
Oggi è nevicato, ma la neve non mi fa più nessun effetto calmante. Non ho scuse con la neve, da adulta. A nessuno importa se da te, sotto casa tua ci sono venti centimetri di neve. A nessuno serve che tu glielo dica. Devi andare dove ti chiamano.
Più in generale a nessuno importa molto di sapere degli altri. Io invece sono divorata dalla voglia di sapere, di conoscere. Chiedo, mi faccio raccontare storie e ascolto i lamenti e le gioie, e intanto prendo nota nella testa. Mentre una perfetta estranea mi parlava, ieri mattina, io le guardavo la bocca e un neo sporgente che aveva sul sopracciglio sinistro. Tutta la faccia si muoveva intorno a quel neo. La sua vita era stata definita da quel neo. Come facevo a non guardarlo? Così pensavo a questa persona e me la immaginavo a casa sua, a cucinare a sgridare i figli, a mettersi a letto la sera col marito. Mi immaginavo i compleanni le feste comandate, mi creavo un quadro nella testa e il centro di quel quadro era il neo sull’occhio sinistro. Il punto di fuga. Ma lei non era fuggita, lo aveva imprigionato quel neo, e lui si era adattato a fare da cornice, da coprotagonista mentre invece era l’attore principale.
Certe volte mi soffermo sui toni, altre sui gesti. Tutto questo mi serve solo a convincermi che le parole non le ascolta più quasi nessuno. Bisogna nascondersi più che si può, oppure bisogna correre sulle bocche degli altri, mettersi fra le lingue, farsi masticare dai denti e scendere giù come un bolo di saliva e materia, giù fino nello stomaco.
La verità è che sono stanca anche di scrivere e di battere parole insulse, scritte per mostrarmi, su questa bellissima e comoda tastiera.
Il vento sparge pure le ossa dei morti nelle bare, dice la poesia di un poeta attuale. È una bella immagine, per chi la vede, io ho sempre visto morti molto lontani, antichissimi, ho visto le ossa sparite, diventate terra oppure pietrificate. Non si ha idea di quanto sia difficile smuovere delle ossa da una tomba. Non vengono mica via con un soffio di vento. Puoi starci anche delle giornate, e devi fare attenzione perché le puoi spezzare. Intorno a quelle ossa ci trovi bracciali, anellini, collane, cose appartenute al morto, giocattoli, ciotole, resti di un’illusione che si era chiamata vita.
Non mi ha mai impressionato quel tipo di morte. Mi sembra un sonno, una cosa pacifica, accettata e composta. Ci sto bene con quei morti che non si lamentano, non fanno tante storie ma te le raccontano, ti raccontano com’erano, chi li amava, che lavoro facevano, come hanno lasciato il mondo. Tutto con pochi oggetti, tutto risolto in un paio di metri quadrati scavati nel terreno e coperti da una lastra di terracotta liscia e rossa.
L’altra sera ero alla presentazione di un libro. E vedevo che nessuno voleva parlare della morte, tutti volevano ridere. Le donne e gli uomini volevano tutti scherzare, già forse era troppo per loro stare seduti a sentir pronunciare quella parola. Quando siamo andati altrove, in un altro posto, sollevati dalla fine dell’impegno che ci eravamo assunti nostro malgrado, perché sollevati sembravamo tutti, della morte non si è proprio più parlato. Ci sono stati tanti discorsi sulla vita, su quello che si deve fare e non si fa, sui paesi, i paesi dove si vive male come nelle città, dove si vive malissimo. E nessuno che avesse il dubbio, o il coraggio di dire, che questo malessere non dipende dai luoghi ma da noi. Ultimamente, quando sto in un gruppo, in un assembramento di persone, sto male, peggio del solito, mi viene quasi sempre da piangere e, anche se parlo, ho una voce che non mi assomiglia. Come se fosse un’altra a parlare per me.
Lo stesso è accaduto pochi giorni fa, una sera in pizzeria con me che sentivo il peso del mondo e mi faceva male. Solo un’altra persona in quella sala, guardandomi, mi ha detto in silenzio, senza muovere le labbra: ti capisco, sto male anch’io.
È di questo male che vorrei parlare, è del dolore e dell’incanto che mi procura che vorrei riempire pagine e muri e l’aria. E vorrei che pure gli altri di questo dicessero. A chi importa se i paesi muoiono? I paesi sono stati fatti dagli uomini, che sono mortali, non possono essere cose eterne, devono morire, ma prima di loro dobbiamo morire noi. Perché noi dobbiamo morire, e non c’è scampo e non c’è proprio niente da ridere o da scherzare, e non c’è proprio niente da ribattere. Il nostro rigore e la nostra rabbia dovrebbero nascere da questa radice, dal fatto che siamo esseri perfetti, finiti, destinati ad un inizio e ad una fine, basterebbe così poco, basterebbe abbandonare le domande su cosa fare, su come fare, basterebbe guardarsi in volto e ricordarci di questo, solo di questo.
Ma nessuno vuole parlare della morte, vogliono parlare dei libri, delle vendite, vogliono costruire cattedrali di polvere e altari in rete da cui profetizzare scenari freddi, cinici, grevi, e vogliono mostrarsi a tutti i costi “intelligenti”. L’intelligenza ci ha inariditi come fascine per il fuoco dell’anno prima, il sangue è scolato via da questa terra che si è inclinata per il nostro peso, come un bacile sotto il collo di un maiale sgozzato. E noi, ora, siamo alberi morti, senza radici, senza movimenti, insensibili al vento, incapaci di godere della pioggia, timorosi della tempesta che potrebbe finalmente spezzarci. Alberi ciarlieri e fastidiosi che impediscono una nuova vita a nuovi alberi, a piante più belle e più forti, invidiosi del futuro che potrebbero avere al posto nostro. Gli animali ci evitano, e non è per paura, gli animali sentono la puzza che emaniamo, la sentono e si scostano.
Immobili e vani stiamo qui, facciamo passare i giorni, le ore, li sprechiamo aspettando quello che non può arrivare o che è qui e non ce ne siamo accorti. Un abbraccio intenso, un bacio insegnato per amore, un corpo offerto come in un sacrificio, un pensiero ardente e allucinato, uno sguardo affilato. Mentre la razza degli eroi ha lasciato la terra e resta inerte e guardarci da un luogo che non ci è più dato da raggiungere, meschini e impauriti come ci siamo fatti.

Da “Canti di un luogo abbandonato”

Foto Massimiliano Ippolito Petrilli

Foto Massimiliano Ippolito Petrilli

 

 

Un casolare e intorno campi
che cambiano colore e non lo sanno.
Non arrivano fin qui tutti i rumori
di quello che era un posto da abitare:
l’aia, il cane, lo zampettare
dei topi, forse una canzone
e il rimescolare della fame
di uomini e bestie.
Dicono sia stata anche felice
questa campagna.
I sassi e l’ardesia posati
nel duro del presente
restano in piedi adesso
in un tempo che non è per loro.
Restano in piedi come i ciliegi
che arrossano la terra
in silenzio. Noi siamo
un po’ più giù, di poco,
in una solitudine bianca,
disinfettata, che non s’immaginava.

Azzurra D’Agostino

Azzurra è su http://www.azzurradagostino.wix.com/abitare

Una volta mio nonno mi disse…

Masseria in Valle Ufita

Masseria in Valle Ufita

Una volta mio nonno mi disse di non giocare a pallone su quel muro,
poi la palla andò dritta nella finestra,
e io corsi per tutto il perimetro della casa per non farmi acchiappare.

Poi in estate mangiavamo l’uva bianca che faceva da pergolato sulla porta,
i gelsi vicino all’aia delle galline, il fienile col canelupo.

Sotto la loggia si prendeva il fresco ad agosto. Faceva caldo in Valle Ufita ad agosto.
A sinistra la stalla, e ogni volta che nasceva un vitellino io volevo vederlo,
tuttavia arrivavo sempre dopo…da adulto ho capito che non era casuale…avevano paura che mi impressionassi.

Ora il tetto della stalla ha ceduto, ma le persone che la abitavano hanno ceduto prima del tetto.

La casa ha resistito a due terremoti, del ’62 e dell’80.

E dovunque vada, me la porto dietro perchè il paese è nelle “mie ossa” e mi costituisce: io sono del paese, e il paese è mio. Non è una scelta, non è nè bene e nè male: è così…e basta!!

Queste righe emergono solo dalla lontananza, inevitabilmente figlie dei ricordi, e in una cerimonia laica, senza pastore, si sposano col granito delle parole di Cesare Pavese:

“…io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire “Conoscete quei quattro tetti?”, ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla”.
“(…) sapevo ch’io venivo di là, che tutto ciò che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia coscienza.”

Sandro Supplentuccio Abruzzese
sandroabruzzese78@gmail.com
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ITALIA SOLO ANDATA

Tre donne in mezzo al guado

 

Ogni volta che queste donne iniziano a parlare battono sempre quella che è la mia immaginazione, tutto è più crudo e drammatico, più grave. Shama dice che in India non c’è assistenza gratuita, che senza soldi ti lasciano morire in strada, e ogni volta che incontrano la polizia hanno paura, gli si offre una mazzetta.

 

Cosa penserebbero Rousseau e il suo diritto alla ribellione?

 

Mi viene voglia di rivalutare questa Italia per tanti aspetti ingiusta, da cui tante persone in gamba fuggono senza voltarsi indietro. A dispetto del compenso di poche rupie al mese, nel Paese di Shama, come nella europea Romania, gli alimenti costano alla stregua dell’Italia, stesso discorso per l’energia elettrica, il gas.

 

Questa ragazza forte e determinata pronuncia una frase che mi onora: “in Italia la vita delle persone è importante, in India non ha lo stesso valore”. Le colleghe rumene annuiscono, confermano le parole di Shama.

 

Quello che ho davanti è lo scenario futuro di un’Italia in cui le forze reazionarie e conservatrici riuscissero a smantellare il sistema sociale nazionale. I liberisti a oltranza sono sempre trasversalmente in agguato nei partiti politici, godono dell’appoggio dei mezzi di informazione, e hanno grossa risonanza mediatica.

 

Con la crisi imperante i governanti hanno dato prova prima di immobilismo e approssimazione, quindi di saper colpire col machete la scuola e il sistema sanitario, i pensionati, senza incidere realmente sull’imperante ingiustizia sociale del Paese.

 

Prima di proporre assicurazioni private che scarichino i costi esorbitanti dei servizi sugli individui però, devono indebolire questo sistema sociale, renderlo malfunzionante, screditarlo agli occhi della pubblica opinione, quindi ogni servizio affidato al sistema privato sarà troppo costoso, le disparità aumenteranno, e anche in Italia la vita varrà poco, diventeremo ancora più cattivi.

 

Ormai è di dominio pubblico che la soluzione al problema è la cultura, l’investimento sulla cultura dei futuri italiani. Questo ho imparato da un padre della patria come Piero Calamandrei e tuttavia le donne che ho davanti, nell’immediato, hanno altro a cui pensare.

 

GABRIELA
In un ospedale pubblico di Timisoara tempo fa alla sua nipotina di dodici anni fu diagnosticato un tumore alla testa. Il medico fu esplicito nel chiarire che senza “mancia” l’operazione non sarebbe avvenuta nemmeno in tempi lunghi. Quella volta mille euro furono abbastanza, ad ogni modo lei ci tiene a dire che in Romania gli anziani che qui vengono accuditi con attenzione fino alla fine, non verrebbero neanche soccorsi, “l’ambulanza non si muove per un novantenne”, e per qualsiasi tipo di assistenza domiciliare ci vuole “la mancia”, una parola gentile per nascondere i soprusi di una pubblica amministrazione marcia dalle viscere.
In più il servizio ospedaliero pubblico rumeno stila la lista di tutto ciò che serve per l’operazione e per le cure: i medicinali, le garze, ogni spesa ricade sull’assistito, tranne la prestazione medica, per cui è necessario il pagamento in nero.
Insomma emerge il quadro di un Paese di carne cruda e pochi sentimenti, dove la fortuna gioca il ruolo del regista e i protagonisti spesso retrocedono a comparse, nel sequel addirittura si sparisce. Questo è accaduto a Gabriela.

 

TENORA
A cinquantaquattro anni, un buon livello di istruzione come la maggior parte di quelli che vengono dall’Est europeo, ha vissuto il regime di Ciausescu all’età di trenta anni e sa bene di cosa parla: la storia di Tenora non è più rincuorante.

 

Nel sud della Romania aveva una “casa famiglia” per orfani e non le mancava nulla, un buono stipendio, fino a quando i tagli statali non l’hanno lasciata senza bambini e lavoro, orfana dei suoi orfani. Quindi fino a cinque anni fa possedeva una casa di proprietà, aveva un marito, due figli di cui andar fiera.
Sostiene che i politici sono tutti ugualmente corrotti e pensano solo al loro interesse. Con Ciausescu, continua, i rumeni avevano i soldi senza avere nulla da acquistare nei supermercati, ora che c’è la democrazia e dopo tre mandati del presidente Iliescu, i supermercati sono pieni di merci e nessuno ha i soldi per poterle acquistare.

 

Non riesco a darle torto, l’Italia è da anni ostaggio di una classe politica autoreferenziale che si perpetua manifestamente a danno della nazione. Le ultime elezioni hanno partorito un governo che ha agito ignorando la volontà popolare e l’espressione del voto, ma questa oggi non è la nostra storia e spero davvero non lo diventi mai.

 

Torno a Tenora, la quale ritiene che per il suo popolo la democrazia sia stata come una classe senza professore: “abbiamo distrutto tutto e ora non abbiamo più niente”. Finita la dittatura nessuno ha pensato a salvaguardare la parte funzionante dello Stato.
Quando era giovane nella sua regione agricola vantavano una buona produzione cerealicola, adesso non restano intatti nemmeno i canali di irrigazione, non c’è più l’acqua se non quando piove.

 

Interviene Maia per ribadire che dopo Gorbaciov e la sua perestrojka in Russia è accaduta la stessa cosa. Le privatizzazioni hanno messo nelle mani della mafia il patrimonio pubblico e le ingenti risorse del Paese. In effetti quando si parla delle privatizzazioni solo gli studiosi della criminalità organizzata sottolineano la straripante capacità economica del capitalismo mafioso rispetto all’imprenditoria sana.
Alle banche, agli imprenditori, alla finanza non credo sia mai interessata la provenienza dei capitali che affluivano generosamente nelle loro casse nei decenni passati, ma anche questa è un’altra storia e la stanno pagando le persone davanti a me prima di noi.

 

Tenora ogni giorno saluta la figlia e il nipotino via skype, il bimbo le chiede di tornare e a lei si velano gli occhi, ma il monitor lo nasconde. La figlia vive con i suoceri e il marito, il quale lavora come informatico presso il comune del suo paese per l’equivalente di centocinquanta euro al mese.
Una ragazza laureata in economia che però fa la casalinga per occuparsi del bimbo, questo perché non ci sono asili, e perché anche se ci fossero loro non potrebbero permetterselo. L’altro figlio di Tenora da due anni lavora come muratore in Francia, ha 27 anni. Infine, il marito l’ha mollata a dicembre, a quattro anni dal suo trasferimento in Italia.

 

Ha le idee molto chiare questa donna: “in Romania ci sono rimasti solo gli uomini, le donne sono tutte emigrate”. Spiace dover constatare che in mezzo a queste donne Tenora è abbastanza fortunata, a Villafranca di Verona vive nella dependance di una famiglia per accudire la loro anziana, ha una paga dignitosa di mille euro al mese, che basta per aiutare i due figli e sostenere lei mettendo da parte qualcosina.

 

Il sogno ora è raggiungere una pensioncina italiana per poter tornare a casa, però lavora qui da soli quattro anni, non ha più un uomo ad aspettarla, intanto la vita scorre e non sarà così facile raggiungere il suo scopo, il prezzo di tutto questo lo sta pagando giorno per giorno sulla sua pelle, con i suoi quotidiani e solitari sacrifici. Tieni duro Tenora, meriti ciò che desideri.

 

Sandro Supplentuccio Abruzzese

 

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