Etichettato: Elda Martino

Il mondo è morto

di ELDA MARTINO

elda 2_n

il mondo è morto.facciamoci le condoglianze l’uno con l’altro. il mondo degli umani, degli uomini e delle donne è morto dopo un’agonia di centinaia di anni. forse è morto un giorno di febbraio del 1600, mentre giordano bruno bruciava sul rogo a campo de’fiori. o forse era già morto prima, quando la peste nel XIV secolo dimezzò la popolazione europea. o forse è morto un poco dopo, quando eleonora pimentél de fonseca fu impiccata senza mutande a piazza mercato mentre il popolo dei lazzari napoletani sanfedisti le guardavano sotto il vestito.
no, il mondo è morto molto prima, quando la logica ad ingranaggi ha preso il sopravvento in maniera strisciante e subdola sull’istinto. quando in nome della nostra presunta superiorità di specie, abbiamo iniziato ad allevare e ad uccidere, quando abbiamo deciso di costruire mura intorno alle città, insediamenti puzzolenti di merda e di piscio dove ogni spazio delimitava una solitudine, una casa abitata da altri morti che litigavano con i vicini per il confine, per le pecore, per la proprietà. la morte è un evento definitivo, e noi abbiamo bisogno di eventi definitivi, unici, senza scampo. per troppo tempo abbiamo creduto di poterci salvare, mentre invece non c’era alcuna salvezza e già stavamo morendo. abbiamo usato la filosofia per convincerci che sapevamo pensare, che sapevamo usare la testa e che, quindi, eravamo vivi. nella nostra testa non eravamo noi a muoverci, ma i vermi, le sinapsi erano il loro strisciare, la terra che spostavano. gli occhi già non c’erano più, e quello che abbiamo visto era solo una rappresentazione, un’immagine che ci eravamo costruiti ad arte per consolarci. siamo bravissimi a prenderci in giro, a iluderci della nostra vitalità curiamo i nostri corpi, produciamo merci, le acquistiamo e così ci riempiamo la vita. ma quale vita? la vita non c’è più in questo mondo, è fuggita via, è andata a nascondersi quando ha visto come volevamo usarla, che commercio intendevamo farne, come pensavamo di esporla, di metterla in ridicolo, di svilirla. il mondo è morto quando l’ultimo lupo è stato ucciso e appeso per la gola nel paese più disperso degli appennini. quando i pescatori hanno smesso di lottare alla pari con i tonni nel canale di sicilia, quando abbiamo costruito i lager dove alleviamo i polli che poi le nostre mamme danno da mangiare, slavati, bianchi, ai bambini, bianchi e slavati pure loro, senza anima, senza cuore, destinati a diventare altri morti e ora solo in fase di coma irreversibile.
nessuno grida più, nessuno piange veramente, nessuno si abbraccia con vero calore.
facciamo il funerale a questo nostro misero mondo. scambiamoci frasi su come eravamo buoni e bravi. portiamo lunghi vestiti neri adatti al lutto e stiamo in silenzio. spegniamo le comunicazioni, annulliamo le parole, che restino solo pochi gesti semplici e poche, pochissime cose, quelle essenziali. smettiamo di correre, tanto siamo morti, non facciamo progetti, non investiamo denaro. i morti non le fanno queste cose. i morti sono composti, silenziosi, dignitosi e veri, qualità che abbiamo perduto da troppo tempo per poterci definire vivi.
solo la morte può renderci di nuovo belli e furenti. la morte non è una cosa brutta, la morte è pulizia, è rinascita e inizio.
non ci ha uccisi nessuno, siamo morti da soli, guardando il nulla, pensando al futuro, accumulando o dissipando, muovendoci o stando fermi, a letto, per strada, vicino a un camino o ad una festa.
nessuno ci ha ammazzati, o tutti.
ora possiamo organizzare un bel funerale, un funerale di stato, un funerale mondiale. e poi stare fermi, immobili, austeri finalmente, finalmente dignitosi e innocenti.
torneranno le selve sui nostri mostri, sulle strade, sulle case, e negli stessi cimiteri. e torneranno altri uomini, insieme agli animali, ai rovi. ed è chiaro che tutto questo noi che siamo morti non lo potremo vedere. ma dobbiamo lasciare questo mondo, dobbiamo liberarlo dalla nostra ingombrante presenza, togliergli le mani dal collo, lasciarlo respirare.
si riorganizzerà più velocemente di quanto crediamo, il mondo, perché non è nostro, non lo è mai stato e solo noi abbiamo creduto di poterlo comprare. ma l’aria non si compra e nemmeno il vento, il mare, la neve. non si compra tutto questo immenso splendore del quale noi non partecipiamo, mai abbiamo saputo partecipare.
smettiamola di agitarci e fissiamoci nella nostra posizione di defunti, sorridenti come gli etruschi, ieratici come gli egizi. scegliamo quella che più ci piace e diamoci pace perché siamo morti, finalmente morti.

Elda Martino

STRATIGRAFIA DEL QUOTIDIANO (2)

di Elda Martino

Elda Martino

Elda Martino

Oggi, da sola, per strada, di ritorno da scuola, ho pensato di poter morire. le terre d’altura, che tante volte avevo sentito madre, sorella, complice, confidente, amica, oggi mi sono apparse ostili, pronte a spezzarmi, a infrangere la mia esilissima esistenza. Oggi come mai prima ho avvertito la morte del mondo, di questo mondo, così attento, guardingo, così pronto a divorare ogni essere che ancora pulsa e vive. Un generale invisibile e spietato che non fa prigionieri, che fucila alle spalle, che si diverte a guardare languire i suoi figli, mai amati, mai voluti se non per offrirli poi come martiri o come semplice carne da bancata. Ogni singolo metro di asfalto che divideva gli alberi, ogni casa mal riuscita, vomitata dal gran naufragio dell’ultimo tremito delle argille, ogni infisso di alluminio, ogni cartello con su scritto “vendesi” attaccato ad abitazioni abbandonate e sordide nel loro osceno esporsi di pilastri e di cemento armato, ogni deposito di materiali edili ormai desueti e fattisi tutt’uno con la roccia denudata,con la cava aperta nel fianco, ferita sanguinante e mai richiusa, mai curata, ogni rosa, verde, giallino, bianco dei muri sporcati dall’umidità mi erano addosso, implacabili, invitandomi,prima, flessuosi e, aizzandomi poi volgari alla resa, a una richiesta di tregua che nascondeva -lo so- il supplizio capitale.

Oggi il mio sguardo si è fatto più lucido, le mie mani si sono rattrappite in uno sforzo estremo, nel tentativo di aprirmi un’uscita, un varco da questo luogo che non è domani, né ieri ma solo oggi, solo ora, solo un adesso circolare, sempre muto, astioso, stizzito, sempre invidioso del bene, del respiro, della vita. Come i corpi dilaniati delle giovani volpi di marzo, dei porcospini, dei gatti, dei cani, strazianti lapidi a quel procedere che è invece stare immobili, testimoni silenziosi e cruenti del compiaciuto e voglioso desiderio di organi, di fremiti, di battiti che questa terra chiede. Gli occhi sempre fissi sulla preda, semichiusi nello sforzo di puntare chi barcolla, chi sta per cedere, chi non ha più forze. Occhi che precedono mani facili a spingere nel vuoto di cui si ciba,mandanti di nuovi sacrifici, ingorde, con le fauci spalancate, aperte senza ritegno a svelare un fondo mai pieno, mai sazio, mai pago. Oggi ho avvertito, con quella parte di me che conserva l’istinto animalesco e salvifico di sopravvivenza,e per questo più vero, più acuto, che non c’è vita qui, solo un inerte resistere, affannarsi, sfiancarsi vano. I dolori di coloro che percorrono questi luoghi non si incontrano, si inginocchiano su suoli diversi,pregano a voce troppo bassa o strillano isterici, aprono le braccia, tendono le dita fino all’estremo sforzo ma non si toccano. Solitudini ferme con intorno altre solitudini, disperazioni mai ascoltate che non sanno accogliere altre disperazioni. Nessun andare avanti, nessun progredire, solo un immobile e risentito stare e stare qui. Nessuna speranza , nessun alito di vita, nessun attimo di bene, una lontananza siderale, come siderale è il silenzio di ultima stella ormai morta ma ancora visibile nel cielo. Nuovi sacrifici pretende questa terra, ogni giorno nuove vittime, nuovi sacerdoti, asserviti, indolenti, svuotati,ciechi, canne nel quale soffia il vento di tramontana, corpi senza voce. Novelli adepti per il suo culto di dannazione e di morte. 


Stratigrafia del quotidiano (1)

di ELDA MARTINO

Elda Martino

Elda Martino

aprile, sabato.
Amica mia cara, molto accade o forse nulla, il sole sembra essere più caldo in queste mattine di un aprile che non vuole farsi primavera, i merli popolano rumorosi il grande albero di acacia che separa il mio balcone dalla valle, un cane abbaia disperato aspettando che rientrino i suoi padroni e io vago nelle stanze di questo luogo dove ho posto dimora senza saper esattamente cosa fare e, una volta deciso, abbandonandone anche la sola idea.
Eppure tanto ci sarebbe da sistemare, tra i miei vestiti che occupano come truppe militari troppo ingombranti l’armadio a quattro ante della camera da letto e due bauli di legno, un assedio stratificato che nemmeno saprei decodificare, che nemmeno uno scavo potrebbe mettere su un matrix di ante e post.
Ciò che copre è più recente di ciò che è coperto, ciò che taglia si appoggia a ciò che è tagliato, e il conglomerato naturale, e il terreno vergine e le pomici di Avellino e l’eruzione di Pollena.

Potrei mettermi a cucinare ma anche quello non avrebbe senso. Ogni gesto, ogni occupazione mi pare come una scusa, una perdita di un tempo che dovrei destinare ad altro, a qualcosa di più importante e grande. Forse questo qualcosa è la scrittura, ma non ne sono del tutto certa, perché anche mentre scrivo sento che i pensieri corrono più veloci, assai più veloci delle mie dita e degli input che lancio al pc.
Come se io fossi perennemente avanti, oltre, al di là di ciò che faccio, come se non ci fosse mai contemporaneità, coincidenza temporale fra ciò che immagino e ciò che, poi, tento di descrivere. Stare a telefono ora mi pesa, vorrei dire tanto e non ci riesco, mi sembro ripetitiva e petulante e noiosa e non ce la faccio a reggere un’intera conversazione. Sono in costante dissidio con me stessa, mi giudico, mi analizzo, mi esamino, mi boccio.
Sono come una banconota falsa messa in circolo, non valgo quanto appaio, mi esibisco nella consapevolezza piena di essere una furfante, una ladra o, meglio, una finzione menzognera ben impacchettata, ben esposta. Mai ciò che scrivo fotografa le mie visioni, quando le stendo, le metto in lettere, vocali, consonanti, sillabe, sono già svanite da tempo e perdono intensità, se mai ne avevano avuta.
Mi rifugio nelle letture, nei giochi di parole, nei film che amo e sogno una vita che, ormai, non mi è più permessa, un sogno doloroso perché ora è irrealizzabile mentre prima poteva ancora accadere, ancora concretarsi. 
Cos’è questo andare avanti, questo procedere verso la fine? Per questo, amica mia, siamo stati generati? Per vivere nell’attesa che arrivi il nostro giorno? Io credo di sì, credo che ci sia verità in noi solo nell’istante in cui ce ne andiamo via per sempre, dopo quel pochissimo che siamo stati.
Tutto il tempo in mezzo non è che un’attesa, un vano agitarsi per lasciare una traccia, per aggrapparci ad un’illusione di vita e di respiro.Dovremmo aspirare ogni giorno, ogni minuto, alla libertà, alla vera libertà che ci concederebbe il senso dello stare qui ed ora, ma non nasciamo liberi, né lo diveniamo, e per nostra precisa scelta, ad ogni paletto che mettiamo, ad ogni difesa che frapponiamo fra noi e la vita, ad ogni impegno che ci assumiamo, quando lavoriamo, quando fissiamo appuntamenti, quando andiamo di fretta per correre verso l’ennesimo inutile incontro.

Non credo più in questo, amica mia cara, non ci credo più, io non riesco a sopportare l’idea che si venga al mondo per lavorare e per fare figli e per ammucchiare danaro e consumare beni. ma non ho coraggio per cambiare il corso nel quale mi trovo da sempre e mi accorgo che quella che pensavo fosse un’idea di libertà, uno spazio vitale, altro non è se non l’ennesima gabbia nella quale sono andata a rifugiarmi. Ho sempre avuto terrore della gabbie, sin da quando mia nonna, da bambina, mi portava alla zoo di napoli ogni giovedì pomeriggio.
Soffrivo a vedere il leone andare su e giù ossessivamente, lo scimpanzé allungare il braccio a chiedere cibo, o forse no, forse aiuto, le due giraffe spelacchiate e polverose che guardavano un oltre fatto di pochi eucalipti e tanto rumore di auto. Soffro anche ora quando vedo un essere vivente intrappolato, circondato, recintato. Ma io non sto meglio di loro, dentro di me, anche se posso muovermi, io non sono più libera o meno infelice.
E sai, amica cara, ? Sai che ho l’esatta consapevolezza che andrà così fino alla fine dei miei giorni, poiché ciò che mi manca è quella sicurezza che viene dal coraggio, quella sfrontatezza che ereditiamo dai geni materni, quella forza che non possiedo, allevata come sono stata nel sospetto, nella paura e nel recinto che precludeva al rifiuto. Lo so, ora lo so, è questa la vita, la mia vita, dolore, recriminazioni, rimpianti, rimorsi e traumi mai superati. Assenza di bene, di bene per me, rivolto a me. Assenza di attenzione, di ascolto. Paura di disturbare, consapevolezza di dovermi nascondere e di non dover dare fastidio alcuno. Coltivo il dubbio e la speranza, Amica cara, ma non ho più forze per me, non ho entusiasmi, non ho sorrisi. Ogni cosa è fuori, è distante, è lontanissima.
Scusa questi deliri, ma solo a una amica posso confessare, qui ed ora, il mio quotidiano fallimento.
un abbraccio

UN LUOGO

di Elda Martino

Elda Martino

Elda Martino

Dice che si deve partire da un punto. Ma questo punto io non ce l’ho, non lo posseggo. È come una liturgia senza la immaterialità del sacro, compio tutti i gesti, apro il pc, scelgo il carattere che mi piace, metto in giustificato il testo. Niente.
Forse è meglio partire da un luogo, dal posto in cui mi trovo adesso, dal mio letto che oggi sembra una prigione e non un rifugio.
Stamattina quando ho aperto gli occhi speravo che fosse già ora di pranzo, invece erano solo le dieci, le dieci sono un’ora neutra, insopportabile. È troppo tardi per pensare che sia ancora mattina e troppo presto per togliersi di dosso il peso del tempo che deve passare. Le dieci sono un luogo da cui non si può fare niente. Non come le due di notte, quando si possono scrivere lunghe lettere d’amore, o l’una, quando ci si può mostrare impegnati e attivi, nemmeno come le sette, quando puoi far vedere al mondo che almeno ti alzi presto.
Le dieci sono un tempo che andrebbe abolito.
Oggi è nevicato, ma la neve non mi fa più nessun effetto calmante. Non ho scuse con la neve, da adulta. A nessuno importa se da te, sotto casa tua ci sono venti centimetri di neve. A nessuno serve che tu glielo dica. Devi andare dove ti chiamano.
Più in generale a nessuno importa molto di sapere degli altri. Io invece sono divorata dalla voglia di sapere, di conoscere. Chiedo, mi faccio raccontare storie e ascolto i lamenti e le gioie, e intanto prendo nota nella testa. Mentre una perfetta estranea mi parlava, ieri mattina, io le guardavo la bocca e un neo sporgente che aveva sul sopracciglio sinistro. Tutta la faccia si muoveva intorno a quel neo. La sua vita era stata definita da quel neo. Come facevo a non guardarlo? Così pensavo a questa persona e me la immaginavo a casa sua, a cucinare a sgridare i figli, a mettersi a letto la sera col marito. Mi immaginavo i compleanni le feste comandate, mi creavo un quadro nella testa e il centro di quel quadro era il neo sull’occhio sinistro. Il punto di fuga. Ma lei non era fuggita, lo aveva imprigionato quel neo, e lui si era adattato a fare da cornice, da coprotagonista mentre invece era l’attore principale.
Certe volte mi soffermo sui toni, altre sui gesti. Tutto questo mi serve solo a convincermi che le parole non le ascolta più quasi nessuno. Bisogna nascondersi più che si può, oppure bisogna correre sulle bocche degli altri, mettersi fra le lingue, farsi masticare dai denti e scendere giù come un bolo di saliva e materia, giù fino nello stomaco.
La verità è che sono stanca anche di scrivere e di battere parole insulse, scritte per mostrarmi, su questa bellissima e comoda tastiera.
Il vento sparge pure le ossa dei morti nelle bare, dice la poesia di un poeta attuale. È una bella immagine, per chi la vede, io ho sempre visto morti molto lontani, antichissimi, ho visto le ossa sparite, diventate terra oppure pietrificate. Non si ha idea di quanto sia difficile smuovere delle ossa da una tomba. Non vengono mica via con un soffio di vento. Puoi starci anche delle giornate, e devi fare attenzione perché le puoi spezzare. Intorno a quelle ossa ci trovi bracciali, anellini, collane, cose appartenute al morto, giocattoli, ciotole, resti di un’illusione che si era chiamata vita.
Non mi ha mai impressionato quel tipo di morte. Mi sembra un sonno, una cosa pacifica, accettata e composta. Ci sto bene con quei morti che non si lamentano, non fanno tante storie ma te le raccontano, ti raccontano com’erano, chi li amava, che lavoro facevano, come hanno lasciato il mondo. Tutto con pochi oggetti, tutto risolto in un paio di metri quadrati scavati nel terreno e coperti da una lastra di terracotta liscia e rossa.
L’altra sera ero alla presentazione di un libro. E vedevo che nessuno voleva parlare della morte, tutti volevano ridere. Le donne e gli uomini volevano tutti scherzare, già forse era troppo per loro stare seduti a sentir pronunciare quella parola. Quando siamo andati altrove, in un altro posto, sollevati dalla fine dell’impegno che ci eravamo assunti nostro malgrado, perché sollevati sembravamo tutti, della morte non si è proprio più parlato. Ci sono stati tanti discorsi sulla vita, su quello che si deve fare e non si fa, sui paesi, i paesi dove si vive male come nelle città, dove si vive malissimo. E nessuno che avesse il dubbio, o il coraggio di dire, che questo malessere non dipende dai luoghi ma da noi. Ultimamente, quando sto in un gruppo, in un assembramento di persone, sto male, peggio del solito, mi viene quasi sempre da piangere e, anche se parlo, ho una voce che non mi assomiglia. Come se fosse un’altra a parlare per me.
Lo stesso è accaduto pochi giorni fa, una sera in pizzeria con me che sentivo il peso del mondo e mi faceva male. Solo un’altra persona in quella sala, guardandomi, mi ha detto in silenzio, senza muovere le labbra: ti capisco, sto male anch’io.
È di questo male che vorrei parlare, è del dolore e dell’incanto che mi procura che vorrei riempire pagine e muri e l’aria. E vorrei che pure gli altri di questo dicessero. A chi importa se i paesi muoiono? I paesi sono stati fatti dagli uomini, che sono mortali, non possono essere cose eterne, devono morire, ma prima di loro dobbiamo morire noi. Perché noi dobbiamo morire, e non c’è scampo e non c’è proprio niente da ridere o da scherzare, e non c’è proprio niente da ribattere. Il nostro rigore e la nostra rabbia dovrebbero nascere da questa radice, dal fatto che siamo esseri perfetti, finiti, destinati ad un inizio e ad una fine, basterebbe così poco, basterebbe abbandonare le domande su cosa fare, su come fare, basterebbe guardarsi in volto e ricordarci di questo, solo di questo.
Ma nessuno vuole parlare della morte, vogliono parlare dei libri, delle vendite, vogliono costruire cattedrali di polvere e altari in rete da cui profetizzare scenari freddi, cinici, grevi, e vogliono mostrarsi a tutti i costi “intelligenti”. L’intelligenza ci ha inariditi come fascine per il fuoco dell’anno prima, il sangue è scolato via da questa terra che si è inclinata per il nostro peso, come un bacile sotto il collo di un maiale sgozzato. E noi, ora, siamo alberi morti, senza radici, senza movimenti, insensibili al vento, incapaci di godere della pioggia, timorosi della tempesta che potrebbe finalmente spezzarci. Alberi ciarlieri e fastidiosi che impediscono una nuova vita a nuovi alberi, a piante più belle e più forti, invidiosi del futuro che potrebbero avere al posto nostro. Gli animali ci evitano, e non è per paura, gli animali sentono la puzza che emaniamo, la sentono e si scostano.
Immobili e vani stiamo qui, facciamo passare i giorni, le ore, li sprechiamo aspettando quello che non può arrivare o che è qui e non ce ne siamo accorti. Un abbraccio intenso, un bacio insegnato per amore, un corpo offerto come in un sacrificio, un pensiero ardente e allucinato, uno sguardo affilato. Mentre la razza degli eroi ha lasciato la terra e resta inerte e guardarci da un luogo che non ci è più dato da raggiungere, meschini e impauriti come ci siamo fatti.