Etichettato: narrativa

L’epoca della frammentazione

*Articolo pubblicato in precedenza sull’inserto culturale domenicale Mimì, edizione nazionale del Quotidiano del Sud

È difficile, dopo un anno di emergenza pandemica, parlare con lucidità del tempo presente.  Troppi gli stravolgimenti quotidiani, le paure, le novità. Soprattutto è difficile elevarsi al di sopra dell’emergenza per scorgere quel che resta del paese dopo questi difficili decenni di crisi. 

L’Italia odierna la definirei il frutto dell’epoca della frammentazione. Intendo dire che se c’è un dato sconcertante nella cultura italiana degli ultimi ’30 anni, è la scomparsa di un discorso realmente nazionale-popolare, dunque fondato su una visione chiara e complessiva, seppur profondamente articolata, del paese. 

Intendiamoci, dietro le spinte disgregatrici della politica, dopo un mutamento significativo del panorama internazionale, nel frattempo a scomparire non è stata solo la cultura nazionale, ma anche il popolo stesso, e questo non so se sia del tutto un male. Al netto della nostalgia per le comunità perdute, il popolo ha lasciato il posto a una variegata classe media inurbata, ma la frammentazione è stata anche il frutto di una nuova disgregazione creatrice, ovvero una condizione dovuta alla maggiore libertà odierna. Una libertà di certo basata su un esasperato individualismo, su mobilità, precarietà, solitudine, ma anche su occasioni enormi fornite da un accesso al sapere mai così aperto e diffuso. 

Da questa prospettiva generale mi pare sia più facile comprendere l’emergere, nella rappresentazione del paese, di motivi quali lo spaesamento, la finitudine, caratterizzati come sono da una continua ricerca di identità e origini, e purtroppo a volte tentati dal retro-pensiero reazionario che non si rivolge all’attuale condizione giovanile, bensì a un passato edulcorato, ripulito dalle ingiustizie e dallo sfruttamento di classe. L’altra faccia della medaglia è la ricerca e l’adesione a un modello di sviluppo incivile, di una modernità a tutti i costi, seppure barbara e acritica, tuttavia efficiente.

Insomma, tra le contraddizioni italiane, nel confuso egoismo regionale, oggi siamo orfani della realtà complessiva e delle vere questioni nazionali. Non vedo epigoni di Lampedusa, che col suo Gattopardo rappresentava il nodo della Questione italiana, o di Visconti, il cui cinema, dalla Terra trema a Rocco e i suoi fratelli, ha fornito una visione accurata e profonda del paese. Non vedo epigoni di Scola, Ottieri, Morante, ma magari anche questo è soltanto un mio limite personale, e una diversa, non meno dannosa, forma di retro-pensiero.

Beninteso, per chi, come me, si occupa di scrittura e di rappresentazione, l’impressione è che si racconti per frammenti, per generi, dunque in preda alle richieste dell’industria culturale, spesso con visioni estremamente parziali, se non irreali, frutto di una prospettiva urbanocentrica o al limite da periferia urbana.

Sono dietro l’angolo le Suburre, le Gomorra, le tante storie di città, che non lasciano spazio ad altre realtà. 

Sandro Abruzzese

Mezzogiorno padano: Vincenzo Morra

Da Mezzogiorno padano (manifestolibri 2015)
VINCENZO MORRA
Sotto il cielo di Bologna, stavamo davanti a un bar verso
via Zamboni ed ero solo all’ottava birra. Non ricordo
ancora per quale motivo, attaccai un discorso sull’etica
per un figlio di Savater con due rumene sedute al
tavolino a fianco, di nome Sonia e Janina. Ora che
ricordo mi piaceva Sonia. Ma non fu quello. Piuttosto
nell’ebbrezza riconobbi al mio fianco ciò che nei corsi di
filosofia della Facoltà di Bologna chiamavano «l’Altro».
Erano anni che si faceva un gran par- lare di questo
«Altro». «Altro» nel seminario su Levinas, «Altro» nello
studio monografico su Sartre e Todorov. Sinceramente,
ero un po’ perplesso su questo concetto basi- lare che
attraversa la storia della filosofia di tutti i tempi per far
riflettere il genere umano su identità e differenza. Anche
perché i professori si riempivano la bocca dell’Altro, e
puntualmente finivano per farsela tra di loro, gli stronzi.
Diciamo che marcavano la differenza, più che l’identità.
Ed io, benché lo avessi immaginato più volte, non è che
potevo alzarmi nel bel mezzo delle lezioni e chiedere:
«Scusate, una domanda, in definitiva e con parole
semplici, sapreste chia- rire … ma c-h-i c-a-z-z’è s-t’A-l-t-
r-o?».
Allora, anche grazie al coraggio preso in prestito dall’al-
cool, salii per una notte su quel treno rappresentato da
Sonia e Janina. Vennero a casa mia pensando a come
fregar- mi, a dire il vero. A come fottere l’ennesimo
ubriaco italiano scucendogli qualche quattrino facile. Una
volta a casa bevemmo ancora e, dopo aver fumato tutta

l’erba che mi era rimasta, a corto di argomenti, giocai la
carta della sincerità: «sono italiano, d’accordo, ma non
c’ho una lira. I soldi spesi erano per le bollette e il
condominio. Mi chiamo Vincenzo Morra, per gli amici
Enzino. Vengo da Grottaminarda, provincia di Avellino.
Conoscete? No! Con Napoli non c’entra un cazzo! Non
vivo neppure da solo, se devo dirla tutta. Divido la casa
con un lavoratore precario delle Poste Italiane, originario
di Pavullo. Il fine settimana torna dalla ragazza,
commessa all’Ovviesse di Modena, quella in viale dello
Sport, a due passi dal Policlinico. Mai state? Non è male.
Comunque, ho un dottorato senza borsa di studio e da
quindici anni vado avanti con i soldi che mi manda mio
padre. Tutta la vita ha fatto l’agricoltore, papà, e sperava
prima o poi prendessi in mano l’azienda. Si sa come
sono i padri. Fratelli? Sì, ho una sorella, è qui in città, ha
due anni meno di me. Frequenta il Dams, vuole fare la
coreografa e, anche lei, di tornare a casa per zappare
insieme a nostro padre, non ne vuole sapere. Mia madre
Maria, invece, pace all’anima sua, è morta da cinque
anni. Una notte andava a sbarazzarsi del pattume in
campagna, ha attraversato la strada male illuminata e
non è più tornata, è stata investita da un’auto pirata.
Questo è tutto.
Non me ne vanto, di essere un mantenuto. D’accordo,
potrei aggiungere che ho scritto almeno tre libri di
filosofia contemporanea, primo in Italia ho tradotto
Gabriel Tarde, sviscerato tutta l’opera di Deleuze e
Foucault. Conosco a memoria Sartre, Camus. Però non
credo che il quadro, ai vostri occhi, cambierebbe colore.
Tutto ciò non mi ha mai dato da mangiare».

A volte la sincerità paga. Una puttana che ti rende dei
soldi non è evento da tutti i giorni. Dei cinquanta euro
che avevo offerto loro per seguirmi me ne resero indietro
venticinque, il resto andò in liquore all’anice e una
tremenda bottiglia di vodka alla pesca. Dicevano che ero
troppo carino e pazzo. Avrei voluto vedere loro a studiare
per decenni senza mai un riconoscimento economico né
accademico. Mai un vero stipendio. E comunque, detto
tra noi, non avrei mai creduto che ci si potesse divertire
così tanto senza nemmeno scopare.
Con Sonia ci siamo rivisti altre volte, ma non abbiamo
mai fatto sesso, credo per paura che non fosse sesso.
Per un po’ erano stati lunghi caffè ristretti in zona Sacro
Cuore, dietro la stazione, negli orari più improbabili.
Erano state passeggiate con la voglia di raccontarsi tutto
e squallidi cappuccini d’orzo, ordinati nel tentativo di
risparmiarmi l’odiosa tachicardia dovuta all’effetto della
caffeina. Però le passeggiate, i caffè, i cappuccini non
portavano da nessuna parte, anche perché non eravamo
proprio una coppia di peripatetici. Allora, da un giorno
all’altro, ognuno è tornato ad essere se stesso, a
starsene nel suo recinto, a prendere la forma dell’Altro.
Dopo l’identità, di nuovo la differenza. D’altronde
eravamo due extraterrestri incontratisi per caso a una
stazione di servizio. Due mondi separati: l’università e la
statale Adriatica tra Rimini e Riccione. Avremmo potuto
incontrarci di notte, ai margini di strade oscure, quando
per via del buio si attutiscono i confini, le linee di
demarcazione si attenuano, e pure i tratti salienti
diventano sfumature. Ma vedersi così come facevamo
noi, alla luce del giorno, è stata pura buona volontà,

oppure ottimismo, ingenuità. Avrei finito col dire qualcosa
di sbagliato. Non potevo offrirle niente. Quindi dopo un
po’ ho preferito tacere. Lei, credo l’avesse sempre
saputo. Dopo di ciò il telefono ha smesso di squillare.
Nemmeno io ho più chiamato.
Dalla sera in cui conobbi Sonia e Janina, tuttavia, non ho
più abbandonato questa disarmante forma di sincerità
avviata un po’ per gioco, un po’ per disperazione. È un
tratto che ormai mi contraddistingue. Un modo per
squarciare i filtri difensivi che le persone usano per
nascondere la paura, la diffidenza verso l’Altro. Senza
grossi risultati ovviamente. Il più eclatante dei quali è
stata l’amicizia col mio spacciatore. Quando abbiamo
tempo, io e Rashid ci sdraiamo sul prato a fumare e
parlare di quanta luce si trovi nel cielo di Marrakech, di
quanto ci vorrebbe a piedi da Bologna a Tangeri, o le
centinaia di ricette con cui si può preparare il cous cous
fatto in casa, quello vero, che si mangia con le mani,
condividendo lo stesso piatto insieme ai fratelli, agli
ospiti. Col cellulare mette quella musica araba
insopportabile e, ogni volta, mi riempie della migliore
erba del Maghreb.
Nella vita non si può mai dire come andrà a finire.
Magari, grazie a Rashid lo spacciatore, prima o poi mi
arrestano mentre sogno, proprio qui, sotto il cielo di
Bologna, riverso sul prato della Montagnola. Mi invento
uno sciopero della fame. Quindi, guadagno le prime
pagine dei quotidiani quale giovane icona libertaria,
radicale, della filosofia contemporanea italiana. Già mi
vedo a discutere di antiproibizionismo con Cacciari,
Vattimo, Galimberti, Pannella durante uno di quei talk-

show dove non si capisce mai niente e ognuno parla
sull’Altro. Chi lo sa! E se finissi a condurre una rubrica
sull’Espresso? Finalmente avrei un lavoro. La tachicardia
e i tic nervosi che mi porto dietro scomparirebbero.
Riprenderei a bere i mie fottutissimi sette caffè
«guatemala» al giorno, le mie sigarette fatte di tabacco
biologico e cartine dal filtro biodegradabile. Troverei il
coraggio per comporre quel numero di telefono e Sonia,
senza esitazioni, mi chiederebbe di salvarla. Una
cerimonia sobria e dell’ottimo vino. Così ci sposeremmo.
In alto, sulla collina di San Luca, promettendoci la mezza
vita rimasta. Testimone, sotto di noi, la solita vecchia
Bologna: quella degli universitari e degli internet point,
delle Nuove brigate rosse e della Lotta continua. Quella
dei motori, della Ducati, della Lamborghini, delle torri, dei
papi, dei pizzaioli egiziani, dei cantautori. Quella delle
cooperative e dei tossici, delle vec- chie radio libere e
delle nuove commerciali, delle antiche osterie, delle
puttane sui viali, del Motor show, dei chilome- tri di
portici. Bologna etrusca, senza ombrello, di muri
imbrattati e puzza di piscio, quella delle bombe a mano a
Palazzo D’Accursio e del due agosto
millenovecentottanta, che quando arriva lo Stato tutta in
coro ancora si ricorda,
ancora fischia. Quella del Roxy bar, degli zingari ai
semafori, delle grate alla finestra, degli ex compagni, dei
centri sociali e delle Feste dell’Unità che non ci sono più.
Bologna una volta la grassa, una volta la rossa che
sprangava le strade alle camicie nere, alla destra, quella
che hasta la victoria siempre, evviva la rivoluzione e
invece oggi molto diversa, da un po’ moderna, di

mercato, scura e povera, genuflessa, realista e orfana,
sola, smarrita, dimentica, frastornata, cupa. Bologna di
potere e palazzo, che parla tante e una sola lingua, in cui
non si riconosce e che nessuno più capisce, ed è rimasta
a rammentare una vecchia storia abbandonata, una
vicenda disconosciuta, mentre imperversa il partito unico
egemone e saggio della nazione, Bologna, insomma,
dirigista, trasversale e ubiqua come il suo nuovo, giovane
e spavaldo potere, arrivista e tenace all’ombra delle torri:
Bologna mia, di Sonia e del PD.

La misura del mondo di Mario La Cava

*Questo articolo è stato pubblicato in precedenza qui su Leparoleelecose

 

Dal centro del mondo

La parabola letteraria di Mario La Cava riemerge chiaramente dal carteggio che ebbe con Leonardo Sciascia quasi ininterrottamente dai primi anni ’50 agli anni ’80 del ‘900. Si tratta di una serie di lettere raccolte nel volume Lettere dal centro del mondo, 1951-1988, dall’editore Rubbettino, in cui, a voler essere sintetici, si intersecano due direttrici: da una parte vi è lo scrittore affermato La Cava, maestro di stile, in cui il rigore etico e la semplicità del linguaggio diventeranno un tratto distintivo; dall’altra il più giovane Sciascia, ancora lontano dai suoi approdi, ovvero da quella fusione del tema politico col poliziesco, e con gli elementi del giallo, che ne decreteranno la definitiva ascesa nel panorama letterario italiano. È inoltre la storia dell’amicizia di due intellettuali di provincia, entrambi inquieti e direi asserviti al demone della letteratura, i quali cercheranno per tutto il corso della vita, tra inevitabili alti e bassi, di scrivere per rappresentare il mondo circostante. Per La Cava basti questo stralcio, uno dei tanti, di una lettera del ’56, dove descrive all’amico siciliano le sofferenze della sua intellettualmente angusta quotidianità: “Io faccio una vita poco allegra, con molti, con troppi fastidi di famiglia, che intralciano gravemente il mio lavoro. (…) Intanto i miei miserabili guadagni con le collaborazioni assorbono gran parte del mio tempo”.

Quanto a Sciascia, da parte sua scriverà a Bovalino qualche anno dopo: “La coscienza dell’inutilità dello scrivere in me ha quasi raggiunto quella della inutilità del vivere”, e poi in procinto di trasferirsi a Roma, che “Nonostante tutto, il dover lasciare la Sicilia mi travaglia di rimorsi; mi pare di compiere una specie di diserzione di fronte al nemico”, e tuttavia temporaneamente fuggirà alla ricerca di maggiore tranquillità.

La Cava non smetterà di perorare i progetti e le riviste di Sciascia, mettendolo in contatto con consulenti quali Vittorini e Bassani, fornendo gli indirizzi di Alvaro, Sinisgalli, Fortini, Pasolini, Roversi, e spedendo spesso a sue spese i libri dell’amico in giro per l’Italia. Il giovane Sciascia, in una lettera del febbraio 1954, ribadisce a sua volta: “Io mi compiaccio sempre, come di casa mia, del tuo successo che ti tocca”.

Infatti, La Cava ha tra i suoi estimatori recensori come Caproni che sui Caratteri scrive: “Moderno sì, ma anche (e questo è forse uno dei suoi maggiori segreti) classico a un tempo, e non solo per la scrittura che, apparentemente dimessa, ha invece la fermezza sapiente di un testo antico, ma altresì, e soprattutto, per questo suo saper cogliere di una persona, in pochi tratti essenziali, perfino le più sottili pazzie, e per questo suo saper distendere, in pochi concisi paragrafi (e senza l’aiuto o trucco di una sola didascalia) un intero momento dell’anima nostra, e del nostro umano costume».

Le parti però, vent’anni dopo, sono totalmente invertite, sicché nel dicembre del ’73 è La Cava a scrivere all’amico: “tu non sei uno di quelli che cambiano modi a seconda della loro fortuna. Sei uguale a te stesso”.

Dunque la parabola di La Cava, iniziata tra le due guerre, ai massimi livelli proprio negli anni ’50 e ’60, discende fin verso un lento e inesorabile isolamento dovuto a problemi fisici, all’amministrazione delle terre avite, al repentino cambiamento dell’industria culturale e della stessa società italiana.

Quella di Sciascia invece, dal Giorno della civetta in poi (Einaudi, 1961), è un’ascesa inarrestabile fino agli editoriali degli anni ’70 e ’80 sul Corriere e sulla Stampa, ai passaggi radiofonici, televisivi, alle collaborazioni cinematografiche.

Forse per riassumere i problemi non di critica ma di successo di La Cava, (la ricerca continua di editori per le sue opere, le collaborazioni numerose ma pur sempre incerte e intermittenti con i grandi quotidiani nazionali), bastano qui le parole accorate con cui Calvino lo accoglie in una lettera datata 15 marzo 1982: “(…) ho ancora una volta apprezzato la tua finezza nelle notazioni psicologiche più lievi, il tuo garbo, la tua fedeltà a una civiltà letteraria fatta di classicità e misura. Ma come far sentire una voce discreta come la tua in mezzo ai fragori assordanti dell’epoca in cui viviamo?”.

È il mercato, come sembra dire il ligure, ovvero l’evoluzione dell’industria culturale, insomma la moda e i tempi, questi sono i fattori che fanno di La Cava un isolato? Oppure è il fatto che dei suoi protagonisti così miserabili, del suo mondo – quella terra dell’osso così immobile e crudele – all’Italia del boom e della massiccia urbanizzazione, ormai non interessa più nulla?

 

I fatti di Casignana

Eppure c’è un’opera che, come ha ricordato Goffredo Fofi nella prefazione all’edizione del 2018, riesce a condensare tutte le qualità dello scrittore di Bovalino, per cui si può parlare di definitivo capolavoro. Mario La Cava comincia a lavorare ai Fatti di Casignana nel dicembre del ’70, finirà tre anni dopo e il libro uscirà per i Coralli di Einaudi nel ’74. È lui stesso a darne notizia in una lettera a Leonardo Sciascia: “Io ho cominciato un nuovo romanzo (…) di ispirazione etico-politica (…) su alcuni fatti accaduti in Calabria nel 1922”. Tre anni dopo, ritornando sul discorso, La Cava ribadirà a riguardo: “Parlo di cose vecchie, al solito, ma l’animo mio era teso alle vicende odierne del nostro paese (l’Italia)”. Con ogni probabilità lo scrittore di Bovalino si riferisce alla strage di Piazza Fontana, o a uno degli episodi precedenti e collaterali che inaugurano gli anni di piombo e la strategia della tensione, e che riportano l’autore agli anni del fascismo. La Cava lo definirà “il serpente nero”, questo ritorno stragista, in grado di attraversare le epoche e insinuarsi di nuovo, con tutto il suo veleno, nei gangli dello Stato. Egli riconosce in quella brutale violenza, nel ricatto, il vecchio volto del potere amorale che aveva rubato la sua giovinezza e portato il paese alla completa distruzione. Questa è la molla che lo conduce verso il romanzo storico, insieme all’intima e antica convinzione che “il costume liberale è veramente assente dall’Italia. I liberali veri sono un’eccezione, come i poeti, e possono trovarsi in qualunque partito o fuori dai partiti”.

I fatti di Casignana, dunque, se traggono linfa dalla strategia della tensione, prendono le mosse dal Decreto Visocchi che, nel 1919, aveva acconsentito all’occupazione di terre incolte da parte dei contadini. Pochi anni dopo, però, l’Italia vira a destra e la libertà di assunzione, la revisione di molti concordati, il peggioramento dei patti agrari, cambiano nuovamente gli equilibri delle zone rurali italiane. Nel frattempo a Casignana il giovane medico Filippo Zanco e l’ex brigadiere dei carabinieri Colombo, guidano i contadini alla vittoria delle comunali e all’occupazione delle terre incolte dei Nicota, la foresta Callistro. Il futuro sembra a portata di mano, ma l’epilogo non tarderà a palesare il volto del nascente fascismo: sul sogno della palingenesi meridionale, sugli ideali di fratellanza e socialismo umanitario, si abbatte la violenza squadrista. Le forze conservatrici dei principi di Roccella, di Don Luigi Nicota e sodali, i farabutti che da sempre soggiogano il paese, la faranno franca anche questa volta, e non solo nella locride, o in Calabria, ma stavolta in tutta la penisola e per un lunghissimo ventennio.

Indubbiamente, l’amaro epilogo di La Cava riporta alla mente il grumo di poteri piccolo-borghesi che schiaccia i contadini di Aliano nel Cristo, e l’indimenticata descrizione della categoria dei Luigini nell’Orologio di Carlo Levi. Se però ad Aliano non vi è nessuna speranza di cambiamento e i contadini vivono al di fuori della storia, a Casignana invece la storia stessa finalmente irrompe nel mito, sorprende e scombussola vecchi prìncipi e nuovi baroni. Dimostra che tutto può cambiare. Evidentemente è solo un sussulto e non basta. Come non basta il piglio antropologico di La Cava, quella sua acuta capacità di osservazione notata da Vittorini nei Caratteri, oppure la ferma convinzione che gli esseri umani possano cambiare il corso degli eventi, ammesso che ne abbiano realmente le precondizioni. Anche qui, come nei Racconti di Bovalino, il destino si abbatte sugli umili della costa ionica come in un rinnovato Ciclo dei vinti. Solo che stavolta non abbiamo a che fare con il capo-popolo Triglia dei Racconti, ciarliero venditore di giustizia dalla condotta bislacca e contraddittoria, ma con l’irreprensibile e generoso Filippo Zanco. Di conseguenza l’ingiustizia lascia sì ancora una volta il campo al destino, che in La Cava ha la forza tragica degli antichi, e tuttavia la sua concezione tragica, seppur preponderante, resta sempre provvisoria per via di un altro filo costantemente intrecciato al fato: si tratta della speranza. Speranza già presente nei Racconti di Bovalino, come nella famiglia del fattore, in cui i protagonisti passano dall’idillio al dramma della povertà e alla ricostituzione del nucleo familiare: “Forse ci vuole anche fortuna nelle cose del mondo; oppure date le premesse, quelli dovevano essere i risultati”, scrive La Cava, fatto sta che “la felicità anche a quel modo era possibile, là nella nuda casa del poggio, ombreggiata dalla dolce vite, dove la famiglia, dopo il matrimonio, prese a stabilirsi”.

È come se lo spirito dell’osservatore La Cava, la sua indipendenza e statura morale, i numerosi viaggi intrapresi all’estero, dalla Russia alla Polonia, a Israele, gli dessero una lucida capacità di giudizio sui luoghi vissuti, nonché una consapevolezza illuministica.

Lo scrittore di Bovalino è sì un outsider, ma è intellettualmente e moralmente legato al discorso meridionalista e nazionale. Prova ne sia quel Viaggio in Lucania del ’52, due settimane in cui lo scrittore si muove per la Basilicata quasi a continuare un dialogo con Giustino Fortunato, Zanotti Bianco, Leonardo Sinisgalli, Rocco Scotellaro. È qui che La Cava scrive: “(…) il lato negativo ha sempre la sua origine non nell’inferiorità degli uomini, ma nelle circostanze secolari della loro vita”. E bene ha fatto Giuseppe Lupo a sottolineare che la sensibilità dello scrittore è in questo “sentirsi appartato ma non estromesso dai destini di una nazione in movimento, un aderire coerente all’atteggiamento di marginalità (…) senza peraltro rinunciare a vivere la letteratura come una sorta di impegno per il bene di una civiltà periferica”.

Insomma, nei Racconti come nei Fatti di Casignana la coralità del bovalinese si sposa con la consueta lingua precisa, moderna eppur antica, che aveva fatto dire a Sciascia: “Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità, rapidità a cui aspiravo”. La tragicità degli eventi, poi, nei Fatti viene mitigata dalla sobrietà stilistica, sicché nella materia etico-politica lo scrittore riesce a fondere il suo tempo poetico, ed essere ancora una volta contemporaneo e remoto, vicino e lontano al suo tempo. Così I fatti di Casignana, attraverso un filo rosso indelebile, si collegano all’essenza contraddittoria della storia d’Italia: ai Placido Rizzotto, ai Pio La Torre, a Portella della Ginestra, alle stragi e alle tante ragion di stato, a Falcone, Borsellino, ai Georgofili, e a tutte le speranze tradite, a tutti i soprusi e le convergenze degli apparati, a tutte le servili manovre di istituzioni piegate ai raggiri.

Infine, sempre per stare alla modernità dei Racconti, e anche per chiudere con una suggestione apparentemente lontana, nel rileggerli oggi, pur trattandosi di temi e umanità molto differenti, a volte vi si coglie una aria talmente rarefatta, quella totale assenza di sentimentalismo, in una prosa così asciutta, da portare alla mente alcuni aspetti di quel particolare tentativo incompiuto di affresco poetico di sentimenti umani costituito dai Sillabari di Goffredo Parise.

 

Campagna e città

Per capire ulteriormente la parabola dello scrittore La Cava forse occorre scrutare un po’ provocatoriamente la storia della letteratura italiana a ritroso. Basterebbe sfogliare una delle numerose antologie presenti nell’attuale panorama editoriale, magari delle scuole superiori, dove personalmente lavoro da più di un decennio, per scoprire che della letteratura sui contadini italiani, o sul rapporto nord-sud, o sulla migrazione degli italiani all’estero, non vi sono che poche, risibili tracce. Non solo poeti come Bodini, Scotellaro, non trovano spazio nelle pagine del canone odierno, ma nemmeno vere e proprie pietre miliari della Questione nazionale come Cristo si è fermato a Eboli del già citato Levi, Conversazione in Sicilia di Vittorini, e Donnarumma all’assalto di Ottieri, riescono a trovare lo spazio che forse meriterebbero. L’elenco sarebbe lungo.

E se è vero che durante gli anni ’50-’60 l’Italia vive, contestualmente al boom economico, la riscoperta del premoderno, la stagione degli etnologi, gli studi di De Martino, tuttavia sia il marxismo che i liberali guarderanno sempre con sufficienza alle sorti della questione contadina. Lo stesso Pavese, il quale ha indagato con profondità il rapporto tra premoderno e moderno, spesso viene travisato e banalizzato fino ad assurgere a cantore conservatore di un nostalgico ritorno al passato. Per non parlare del “reazionario” Pasolini delle Belle bandiere, che attribuisce al neo-capitalismo l’accentuarsi del divario delle varie Italie per poi chiosare: “Nell’Italia del Sud la scelta politica è ancora dominata dalla miseria – economica e psicologica ”. Pasolini aveva compreso che la nuova Italia inurbata produceva non solo merce, ma nuovi rapporti sociali: “Tale nuova cultura (…)”, scriverà in una risposta pubblica a Calvino dell’ottobre 1975, “(…) ha distrutto cinicamente le culture precedenti: da quella tradizionale borghese, alle varie culture particolaristiche e pluralistiche popolari”.

Vent’anni dopo, l’ultimo intellettuale in ordine di tempo a porsi nei confronti del mondo rurale in una posizione di riflessione, ascolto, e rispetto, è stato quell’Alex Langer partito da un remoto villaggio del Sudtirolo per diventare, prima della precoce dipartita, anima dei verdi italiani, costruttore di ponti, e esempio di cittadino del mondo.

 

Uomini e Caporali

Ebbene, l’Italia di oggi sembra ripresentare tutti i conti delle rimozioni del passato. Il genocidio della civiltà contadina ha lasciato dietro di sé, nell’assenza di reali programmi nazionali, un deserto di paesi, colline, isole e montagne spopolate. I divari e la frammentazione non cessano di approfondirsi. Lo squilibrio sociale ed economico delle varie aree del paese, l’emigrazione costante verso il nord del mondo, la bassissima natalità, l’urbanizzazione massiccia con relativo incremento delle ingiustizie sociali e dell’indigenza, non ultimo il potere incontrastato dei clan criminali e dei cartelli politico-clientelari, restituiscono l’immagine di uno stato diviso in fazioni, in cui prevale l’egoismo territoriale, malamente mascherato da progetti di secessione delle regioni più ricche, o dalla dittatura del ricatto dei pacchetti di voti dei notabili locali.

In questo contesto, qualsiasi progetto politico naufraga per una sostanziale incomprensione delle varie parti del paese, per la complessità dei problemi di fondo, o peggio ancora, nel lungo e medio periodo, per il completo disinteresse verso la loro risoluzione.

Insomma, tornando ai fatti di Casignana, è una storia esemplare di una matrice comune italiana in cui ritornano prepotentemente l’insipienza o la collusione delle classi dirigenti, e tornano, nel recupero delle svastiche, delle intimidazioni verso le minoranze, nel cinismo machista di piccoli e puerili giovani leader, antiche pulsioni mai del tutto accantonate.

Ma ancora, leggendo di Casignana, non si può non pensare alle odierne lotte bracciantili dei nuovi invisibili, da Borgo Mezzanone a San Ferdinando, passando per l’Agro pontino, e chiedersi se è forse lo stesso disinteresse odierno per i nostri lager moderni, il lontano riflesso del disinteresse dell’Italia del boom per i contadini di La Cava.

Castel Volturno, Rosarno, la rotta balcanica, il mare nostrum, l’isola di Lesbo, i muri e le cortine messicane, sembrano le nuove Marcinelle, le Ellis Island, di un’umanità superflua, costantemente de-umanizzata, un mondo di terroni e Okies in fuga, di cui ancora una volta a nessuno interessa realmente qualcosa.

E quanto vale la vita di Soumaila Sacko, freddato a colpi di fucile mentre tenta di costruire una capanna di lamiere nei pressi di Vibo Valentia?

Quanto vale il corpo di Becky Moses, quel corpo abusato, cresciuto nella povertà, bruciato nella miseria di una favela italiana, dopo averle negato il diritto d’asilo?

Ed è un caso che a ricordare Giuseppe Di Vittorio negli ultimi anni, dopo Uomini e caporali di Leogrande, ci abbia pensato quasi esclusivamente il sindacalista italo-ivoriano, difensore dei braccianti e dei lavoratori della filiera agroalimentare, Aboubakar Soumahoro?

Ecco fin dove arrivano I fatti di Casignana. È in questo libro, dunque, che Mario La Cava ha portato gli ultimi della costa ionica nella storia del ‘900, ritrovando la sua misura del mondo, e, con essa, l’alta funzione morale di cui ha sempre investito la sua militanza intellettuale e il suo impegno letterario.

sandro abruzzese

 

 

Bibliografia essenziale

Mario La Cava, Caratteri, Donzelli, Roma 2007

Mario La Cava, I fatti di Casignana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018

Mario La Cava, I racconti di Bovalino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008

Mario La Cava, Viaggio in Lucania, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019

Mario La Cava, Leonardo Sciascia, Lettere al centro del mondo, 1951-1988, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012

Italo Calvino, Lettere 1940-1985, I meridiani, Mondadori, Milano 2000

Recensione a Mezzogiorno padano su Il Fatto Quotidiano

Di seguito la recensione a Mezzogiorno padano di Enrico Fierro, del 20/01/2016 , libro edito da Manifestolibri nella collana società narrata (nell’articolo c’è un refuso in merito alla casa editrice).

recensione il fatto del 20 :01:16

 

Una reporter nella nebbia

ovvero come spiegare la nebbia ad un’amica

nebbia

Si cammina e si vive in questi giorni in una nebbia antica.
Come non se ne vedeva più da trent’anni.
Il palazzo dove nacque De Pisis è divenuto invisibile, pur essendo lì, a portata di mano.
È quasi una festa, questa nebbia. Nessuno se ne lamenta.
Al mattino presto, soli nella strada, la senti amica e non vorresti uscirne.
Non fa freddo quando c’è nebbia.
Il rumore dei tacchi sul marciapiede è quello di un passo rilassato, senza fretta.
Lo senti, non è il tuo, ma è come se lo fosse.
Nella nebbia si perdono i contorni delle cose, ma non la voglia di incontrarsi, nella nebbia.

Gian Paolo Benini