Marmellata di Lucciole (5)

Foto Giovanna Iorio

Foto Giovanna Iorio

Uova
Per tutto il percorso in macchina giocavamo a scacchi con le uova, seduti sul sedile posteriore: io e mio fratello. In mezzo sistemavamo il cartone: trenta uova per mia nonna, la mamma di papà. Toglievamo le uova della fila centrale; le mettevamo dove capitava, sul tappetino sotto i piedi. Qualche volta dimenticavamo un uovo tra i sedili. Qualche volta ne schiacciavamo uno.
Uova alfiere. Uova cavallo. Uova torre. Uova pedina. Uova re. Uova regina. Uovo mangia uovo. Uovo dice a uovo: “Scacco matto uovo”. Alfieri, cavalli, torri, pedine, re e regine. Finivano in frigo dopo la partita, scendevamo dalla macchina e nostro padre ci diceva: “Prendete le uova”. Arrivavano nelle mani di mia nonna, finivano nello scomparto per le uova. Io restavo a guardare il frigorifero. Immaginavo le uova al buio, il loro tepore che si raffreddava.
– Metti l’uovo caldo sulla palpebra. Ti fa bene agli occhi.
– Ho visto il buco del culo della gallina, mamma, come fa ad uscire l’uovo?
L’occhio duole e si scalda. Interiora che si raffreddano.
– Resta con l’uovo sulla palpebra ancora qualche minuto – Calore di viscere
– Passa all’altro occhio.
L’uovo ha mangiato il fegato di mia nonna. L’uovo fresco sta in piedi da solo. L’uovo puzza d’uovo. Non so spiegarlo, ma niente puzza come l’uovo. L’uovo è ovale. Pensa, se non fosse ovale ne romperemmo di meno. Gli scienziati ci stanno lavorando. Meglio un uovo oggi che una gallina domani. A proposito, chi è morto prima, l’uovo o la gallina? Una volta ho toccato il guscio molliccio e trasparente di un uovo. Sembrava il cranio di un feto. Vuoi dire che nostra madre ci prepara frittatine di pulcini mai nati? I tuorli gialli pigolano nella padella. Al mattino uovo + zucchero + caffè (una goccia).
Ci restavano dei baffi gialli ai lati della bocca. Lei inumidiva il dito con la saliva e ci puliva prima di andare a scuola.

Macchie
Questi ricordi galleggiano sul fondo di un piatto azzurro.
Il mio vestito di primavera era un cespuglio. Io frusciavo, mi spostavo da una parte all’altra della casa in uno sbuffo di foglioline e boccioli.
-Attenta a non versare il brodo.
Fumava ancora quando il brodo bollente cadde sul vestito. I fiori annegarono nel grasso di carne. Si afflosciarono. Sulle cosce bruciava il dolore dei fiori che appassivano.
– Facciamo il gioco delle gocce d’olio?
-Come si gioca?
– Con le punte della forchetta unisci le gocce in superficie. Scegline una grande. Fa che si unisca a quelle più piccole. Vedi, così. Si allarga, ingoia le altre.
Nel brodo freddo alla fine restava soltanto un’enorme macchia gialla, silenziosa e piana. Un’isola in mezzo al piatto.
– Cosa stai facendo! Angela, non hai mangiato niente.
Le macchie le guardavo sparire in lavatrice. Le mani di mia madre che infilavano i panni sporchi nel cestello. L’acqua che arrivava con un vortice bianco. Io che restavo a guardare. Le macchie che si scioglievano
– Mamma, dove vanno a finire le mie macchie?
– Vanno nei tubi. E poi finiscono nel mare.
Immaginavo migliaia di tubi sotto i piedi, sotto terra. Le macchie attraversavano i tubi e si tuffavano in mare: nuotavano, ridevano, si divertivano nel mare sporco.
– Allora le mie macchie vanno al mare e io no?
Le mie macchie erano delfini, squali, meduse, granchi.
– Mamma, mi metti pure a me in lavatrice? Voglio andare al mare con le mie macchie.

Qualche volta, d’estate, mi sedevo sul muretto di pietra a guardare le lucciole. Una sera, era buio e ho schiacciato una lumaca. Sentii il guscio frantumarsi sotto di me, una sensazione umida e fredda sulla natica sinistra. Mi alzai e cominciai a correre. Arrivai casa, mi precipitai in bagno e tolsi i pantaloni bianchi, guardai la macchia di lumaca e ficcai tutto in lavatrice. L’acqua cominciò a riempire l’oblò e la lumaca cominciò a galleggiare in mezzo alla schiuma. Poi un’onda se la portò via in un turbine di bollicine e sapone.
Sui miei pantaloni bianchi restò una scia luminosa: la bava della lumaca, la sua ombra chiara, un alone. Quando li indossavo anche io rallentavo, mi andavo a sdraiare nell’erba bagnata e mi sporcavo di verde.
– Sei una calamita per le macchie, ecco cosa sei.

La macchia rossa

Mia madre mi mise nel piatto una porzione esagerata di pasta, così rossa e piena di sugo che non era rimasta nemmeno un tagliatella bianca. Pasta fatta in casa per l’occasione.
Quando tornai da scuola avevano già pranzato tutti. Papà versò un bicchiere di vino rosso. Il vino me lo davano soltanto nelle occasioni speciali. Quella era un’occasione speciale. Nessuno diceva niente. Mia madre mi sorrideva, era venuta a sedersi di fronte a me dall’altra parte del tavolo. Mio padre guardava la televisione, un po’ imbarazzato. Mio fratello, sceso in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua ci guardò e disse: che cazzo succede? Mia madre gli tirò lo strofinaccio. Mio padre alzò il volume della televisione. Mangiai un po’ di pasta e subito me ne andai di sopra. Nel bagno c’era un pacco nuovo di assorbenti. I miei. Lo avevo avvolto in un foglio di giornale con la pubblicità della Skoda. Ogni volta che ne prendevo uno, riavvolgevo gli assorbenti nel giornale e li nascondevo in fondo all’armadietto del bagno.
C’erano grandi occhi di donna sulla confezione, occhi scuri nascosti da una maschera di merletto. Erano quelli che usava mia madre. Quegli occhi li avevo guardati tante volte. Mi terrorizzavano quando li vedevo in bagno.
– Mamma ho una macchia nelle mutandine… sembra pomodoro.
– Non c’è niente che non va, Angela. Vieni che ti faccio vedere.
Gli occhi mi seguirono fino alla camera da letto e mia madre mi abbracciò.

PAUSA
(la narrazione sarà ripresa il più presto possibile)

– E’ più faticoso di quanto pensassi.
– Lo so, i pezzi sono grossi e devi stare attenta. Tieni d’occhio le bollicine, non deve bollire. Mettiti il grembiule. Attenta agli schizzi. Abbassa la fiamma, non fare attaccare la marmellata, non farla bollire.
– Scotta, è appiccicosa.
– Angela, non puoi fermarti proprio ora. Devi continuare.

GIOVANNA IORIO