Stratigrafia del quotidiano (1)

di ELDA MARTINO

Elda Martino

Elda Martino

aprile, sabato.
Amica mia cara, molto accade o forse nulla, il sole sembra essere più caldo in queste mattine di un aprile che non vuole farsi primavera, i merli popolano rumorosi il grande albero di acacia che separa il mio balcone dalla valle, un cane abbaia disperato aspettando che rientrino i suoi padroni e io vago nelle stanze di questo luogo dove ho posto dimora senza saper esattamente cosa fare e, una volta deciso, abbandonandone anche la sola idea.
Eppure tanto ci sarebbe da sistemare, tra i miei vestiti che occupano come truppe militari troppo ingombranti l’armadio a quattro ante della camera da letto e due bauli di legno, un assedio stratificato che nemmeno saprei decodificare, che nemmeno uno scavo potrebbe mettere su un matrix di ante e post.
Ciò che copre è più recente di ciò che è coperto, ciò che taglia si appoggia a ciò che è tagliato, e il conglomerato naturale, e il terreno vergine e le pomici di Avellino e l’eruzione di Pollena.

Potrei mettermi a cucinare ma anche quello non avrebbe senso. Ogni gesto, ogni occupazione mi pare come una scusa, una perdita di un tempo che dovrei destinare ad altro, a qualcosa di più importante e grande. Forse questo qualcosa è la scrittura, ma non ne sono del tutto certa, perché anche mentre scrivo sento che i pensieri corrono più veloci, assai più veloci delle mie dita e degli input che lancio al pc.
Come se io fossi perennemente avanti, oltre, al di là di ciò che faccio, come se non ci fosse mai contemporaneità, coincidenza temporale fra ciò che immagino e ciò che, poi, tento di descrivere. Stare a telefono ora mi pesa, vorrei dire tanto e non ci riesco, mi sembro ripetitiva e petulante e noiosa e non ce la faccio a reggere un’intera conversazione. Sono in costante dissidio con me stessa, mi giudico, mi analizzo, mi esamino, mi boccio.
Sono come una banconota falsa messa in circolo, non valgo quanto appaio, mi esibisco nella consapevolezza piena di essere una furfante, una ladra o, meglio, una finzione menzognera ben impacchettata, ben esposta. Mai ciò che scrivo fotografa le mie visioni, quando le stendo, le metto in lettere, vocali, consonanti, sillabe, sono già svanite da tempo e perdono intensità, se mai ne avevano avuta.
Mi rifugio nelle letture, nei giochi di parole, nei film che amo e sogno una vita che, ormai, non mi è più permessa, un sogno doloroso perché ora è irrealizzabile mentre prima poteva ancora accadere, ancora concretarsi. 
Cos’è questo andare avanti, questo procedere verso la fine? Per questo, amica mia, siamo stati generati? Per vivere nell’attesa che arrivi il nostro giorno? Io credo di sì, credo che ci sia verità in noi solo nell’istante in cui ce ne andiamo via per sempre, dopo quel pochissimo che siamo stati.
Tutto il tempo in mezzo non è che un’attesa, un vano agitarsi per lasciare una traccia, per aggrapparci ad un’illusione di vita e di respiro.Dovremmo aspirare ogni giorno, ogni minuto, alla libertà, alla vera libertà che ci concederebbe il senso dello stare qui ed ora, ma non nasciamo liberi, né lo diveniamo, e per nostra precisa scelta, ad ogni paletto che mettiamo, ad ogni difesa che frapponiamo fra noi e la vita, ad ogni impegno che ci assumiamo, quando lavoriamo, quando fissiamo appuntamenti, quando andiamo di fretta per correre verso l’ennesimo inutile incontro.

Non credo più in questo, amica mia cara, non ci credo più, io non riesco a sopportare l’idea che si venga al mondo per lavorare e per fare figli e per ammucchiare danaro e consumare beni. ma non ho coraggio per cambiare il corso nel quale mi trovo da sempre e mi accorgo che quella che pensavo fosse un’idea di libertà, uno spazio vitale, altro non è se non l’ennesima gabbia nella quale sono andata a rifugiarmi. Ho sempre avuto terrore della gabbie, sin da quando mia nonna, da bambina, mi portava alla zoo di napoli ogni giovedì pomeriggio.
Soffrivo a vedere il leone andare su e giù ossessivamente, lo scimpanzé allungare il braccio a chiedere cibo, o forse no, forse aiuto, le due giraffe spelacchiate e polverose che guardavano un oltre fatto di pochi eucalipti e tanto rumore di auto. Soffro anche ora quando vedo un essere vivente intrappolato, circondato, recintato. Ma io non sto meglio di loro, dentro di me, anche se posso muovermi, io non sono più libera o meno infelice.
E sai, amica cara, ? Sai che ho l’esatta consapevolezza che andrà così fino alla fine dei miei giorni, poiché ciò che mi manca è quella sicurezza che viene dal coraggio, quella sfrontatezza che ereditiamo dai geni materni, quella forza che non possiedo, allevata come sono stata nel sospetto, nella paura e nel recinto che precludeva al rifiuto. Lo so, ora lo so, è questa la vita, la mia vita, dolore, recriminazioni, rimpianti, rimorsi e traumi mai superati. Assenza di bene, di bene per me, rivolto a me. Assenza di attenzione, di ascolto. Paura di disturbare, consapevolezza di dovermi nascondere e di non dover dare fastidio alcuno. Coltivo il dubbio e la speranza, Amica cara, ma non ho più forze per me, non ho entusiasmi, non ho sorrisi. Ogni cosa è fuori, è distante, è lontanissima.
Scusa questi deliri, ma solo a una amica posso confessare, qui ed ora, il mio quotidiano fallimento.
un abbraccio