Etichettato: Franco Fortini

Due o tre cose su Fortini e il Berluscorenzismo

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*L’ultimo brano dei due libri che contengono gli interventi di Franco Fortini su Il Manifesto (Disobbedienze I e II, Manifestolibri, 1996) nell’arco del ventennio che va dal ’72 al ’94 si intitola Cari nemici. Vale la pena riportarne l’incipit:

Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti o spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volterriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei «progressisti».

Per capire le sue parole fino in fondo occorre attenzione ai tempi. È il 1994. L’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi e del conseguente dispiegamento dell’imponente macchina mediatica di proprietà al suo servizio. È il ’94, dicevo, e la lettera, indirizzata all’assemblea “Per la libertà di informazione” tenutasi a Milano il 7 novembre del ’94, assume i toni di un vero e proprio epitaffio, infatti venti giorni dopo verrà la morte del poeta. In essa Fortini esterna tutta la sua preoccupazione: “Ma ci sono momenti”, scrive, “in cui il solo modo di dire «noi» è dire «io». (…) Questo è uno di quei momenti. Due o tre in una vita anche lunga. Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora e per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza”.

Il bello degli articoli di Fortini è che non vanno interpretati. Non sono moniti da presidenza della Repubblica. I suoi interventi sono l’esempio di una coscienza lucida, rigorosa, onesta, che non risparmia, anzi direi che quasi predilige, la polemica. Di conseguenza, ancora una volta in Cari nemici egli chiarisce la sua posizione denunciando “il degrado di qualità informativa, di grammatica e perfino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video”. Prima li paragona ai primordi del fascismo, poi si corregge “Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa”.

A chi sta parlando il vecchio e spigoloso poeta toscano? Quando invita a non scrivere un articolo al giorno, quando invita a fottersene dell’audience e dei contratti pubblicitari, e soprattutto a essere «cattivi» e non concilianti per dare l’esempio “a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi”; a chi sta parlando?

Se ancora non è chiaro a chi Fortini si riferisca, vale la pena fare un passo indietro al 1990. È Giorgio Agamben, il 19 gennaio 1990, sempre dalle pagine de Il Manifesto, a segnare il punto stavolta. E lo fa con un durissimo articolo in risposta a Ernesto Galli della Loggia che lo aveva definito “coltissimo e raffinatissimo saggista”, invitandolo tuttavia a occuparsi di filosofia e non certo del funzionamento di politica e società. Dunque, in risposta a Galli della Loggia, l’autore di Homo sacer prima denuncia l’incondizionata “resa al potere dei media di coloro che solo per antifrasi si dicono intellettuali”, e poi andando al nocciolo sottolinea: “fra le specie infami (…) voi siete la più stolta, ignorante e ribalda e portate l’intera responsabilità della zelante esecuzione del compito che vi è stato affidato da chi vi paga e che svolgete sempre nello stesso modo, dai tempi di Goebbels a quelli di De Benedetti e Berlusconi (…). Non mi ammorbare più”, conclude Agamben rivolto a Galli della Loggia, dopo aver accusato certo giornalismo della “(…) sistematica falsificazione della lingua, dell’opinione, del pensiero”.

Ecco, Fortini, nell’articolo della raccolta intitolato Salubre insolenza, riprendendo la posizione di Agamben, sottolinea a ritroso come dalla fine degli anni ’60 in poi esista e si sia fatto strada “tutto un personale di servizio «intellettuale»” ingaggiato “per la recitazione di alcune gags o parti in commedia” a cui egli finisce per sommare un altro elemento distruttivo per la società che è “l’ipertrofia democraticistica secondo la quale si debbono rispettare tutte le opinioni, anche le più turpi, lasciar parlare anche i mentitori pubblici (…)”.

Credo Fortini sapesse bene che in pochi avrebbero “spinto la coscienza agli estremi”. In pochi si sarebbero dimessi e avrebbero pagato di persona il dissenso. In generale è accaduto un po’ come in Marcia su Roma e dintorni di Lussu rispetto al fascismo, così si è fatta strada la nostra vecchia disinvoltura. Quell’ “oscura voglia di dimissione e servitù”, che lui tanto aveva paventato, ancora una volta ha sbaragliato qualsiasi concorrenza. E i nostri stessi figli, di cui pure Fortini parlava e si preoccupava nell’articolo, ci hanno guardato e hanno appreso l’arte delle recite, delle gags. E l’Italia non solo non è più quella di Fortini, ma tutto è divenuto audience e pubblicità. Per cui se non è più vietato da leggi fascistissime esprimere opinioni, o denunciare fatti, questi vengono annegati e confusi ad arte dall’ipertrofia democraticistica denunciata dall’autore di Traducendo Brecht, fino a ridursi a flebile eco indistinta. In questo illusorio gioco di prestigio è il totalitarismo odierno, nell’impotenza della verità, nell’aumento vertiginoso e spesso indistinto di informazioni e immagini che da una parte ci illudono di essere liberi, mentre dall’altra diminuiscono fino a compromettere irrimediabilmente le nostre residue possibilità di conoscenza.

 

Sandro Abruzzese

*Questo articolo è stato pubblicato su  Poetarum silva