Sul Po di Pila

*Articolo della rubrica mensile per La Nuova Ferrara, domenica 13 febbraio.

In passato, in un passato non molto lontano, mi dico mentre, in una ghiacciata mattina di gennaio, ci dirigiamo a Pila con Marco, dove ci aspettano Danilo e Natale per andare a Scano boa, il paesaggio che stiamo attraversando non esisteva. E non esisteva non perché non ci fosse, bensì perché ognuno, – i contadini, i pescatori, i padroni, – ne faceva parte, dunque era nel suo ambiente e nella sua civiltà a tal punto integrato da non riuscire a contemplarlo del tutto. Il paesaggio, qualsiasi paesaggio, oggi è visibile anche perché abbiamo fatto un passo indietro, perché siamo più soli e distaccati dal mondo, che in qualche modo non ci riguarda più come una volta, visto che ne abbiamo meno bisogno. 

Gli acquitrini di Volano, i canneti di Scardovari, i canali geometrici, la terra arata di Jolanda, stamane in viaggio con in mente Gianni Celati sono come il volto rugoso di un nostro caro alla fine della propria vita, un volto che in passato era tutto, ma ora non può più nulla per noi, perché siamo da tempo rivolti in direzioni opposte.

E allora perché ci ostiniamo a percorrere le strade verso il limite della pianura? È, come scrive Roberto, altro compagno di viaggio di questa lunga giornata, la ricerca del mito? Certo, in queste terre siamo volutamente nel solco di scrittori ingiustamente dimenticati come Gian Antonio Cibotto (la sua opera è in ristampa presso l’editore La nave di Teseo), oppure inseguiamo L’airone di Giorgio Bassani, Verso la foce di Gianni Celati, ma si tratta solo di questo?

La risposta forse la troverò alla fine di questo resoconto, tuttavia fin dal principio, imboccata la via Pomposa verso il mare, l’est ferrarese offre una serie di risposte nei suoi crocicchi di frazioni deserte e silenziose. Non è solo Tamara, o l’aria enigmatica di Tresigallo, ma in generale il tono dimesso, l’umiltà involontaria della provincia, a parlare per lei al resto del paese. Il punto poi non è se la debolezza della provincia e il suo volto austero possono insegnarci qualcosa, ma se possiamo ascoltare e vedere ciò che significano.

Ebbene, anche stamane la pianura ci porta fin sulla sua soglia, e spesso, pur attraversando luoghi quasi disabitati, anzi proprio per questa condizione, essi mostrano, con la loro solidità e presenza, la durata, il rapporto col tempo, da cui tutta la forza evocativa della vita. Il tempo del vissuto, attraverso l’occhio, si iscrive così nella mente fornendo immagini e pensieri del tutto diversi rispetto alle vetrine cittadine, o alle immagini pubblicitarie da cui siamo bombardati in televisione, nei centri commerciali e sui social network. Viaggiare e guardare divengono così un’esperienza prima di tutto liberatoria, poi una presa d’atto del fatto che la vita moderna a volte da l’idea di un grande villaggio domestico che ha le fattezze degli allevamenti intensivi, dove tutto è non solo falso, perché privo del rapporto con la realtà circostante, ma soprattutto in cattiva fede. 

La realtà è che privi di coscienza storica, di riferimenti, forme, modelli, noi non conosciamo più quello che ci circonda, per cui ovunque, anche sull’uscio di casa nostra, siamo almeno in parte stranieri. E allora muoversi  nella pianura, magari sulle orme di Celati, diviene una forma di resistenza e di lotta, anche se contro i nostri personali mulini a vento.

Quanto al nostro viaggio, dopo aver attraversato una pianura fatta come al solito di contorni labili e rarefatti per via della foschia, dappertutto coperta da una sottile coltre di brina luminescente, finalmente a Pila, sotto la mole della centrale elettrica della vicina Polesine Camerini, ritroviamo le consuete cavane dei pescatori polesani. Intanto il gelo, pian piano, lascia spazio a un cielo incredibilmente limpido. Daniele e Natale ci accolgono in una di queste palafitte fornite di tutto l’occorrente. Le cavane fungono da riparo, porto, officina meccanica, ostello. Dopo pochi minuti siamo sul fiume, solchiamo il Po di Pila con all’orizzonte il faro e la centrale elettrica. Il freddo è pungente ma Natale da buon pescatore ci liquida dicendo che siamo fortunati, poi indica il sole. 

In breve siamo nella parte più orientale dell’alto Adriatico, a quasi trenta chilometri dalla terra ferma. Il moto ondoso del mare qui si incontra col ramo di Pila e le lagune circostanti. Non so se è lecito parlare di presenza, da queste parti, ma si comprende subito che non c’è un solo modo di guardare al Delta. Anzi, vista la sua forza evocativa, forse occorre attingere come sempre al proprio cogente punto di vista interiore. Allora il Delta, con i suoi abbandoni, le alluvioni, potrebbe evocare le rovine, e come scrisse Georg Simmel in un bel saggio, sarebbe “la cornice della vita”. Ma questi luoghi possiedono la forza per interrogarci non solo sul passato, bensì sul presente. Infatti, sia la guida appassionata di Daniele, che ha fissato in un libro denso e prezioso (Viaggio sentimentale nel delta del Po, Apogeo editore, 2021) il suo rapporto col Delta, per non parlare dei ricordi del nostro traghettatore Natale, ci portano a prendere atto che il Delta è innanzitutto molteplicità. È il luogo dove confluiscono e si incontrano le acque, le specie viventi, dove si creano numerosi habitat e ibridazioni, dove una mareggiata, o le estrazioni del gas, possono portare alla futura catastrofe. E dove le proiezioni future sull’innalzamento del livello del mare, decretano, nel giro di una manciata di decenni, l’imminente e inesorabile scomparsa della costa. Dunque siamo al cospetto di forze e destini a cui non possiamo opporci se non provvisoriamente. La sua fragilità idrogeologica finisce per parlarci della nostra fragilità e provvisorietà, ci costringe a ri-conoscerlo e ridimensionarci. 

In questa conoscenza dei luoghi c’è qualcosa del tutto, qualcosa che porta intensità alla vita e che forse risponde pure alle domande precedenti sulla nostra presenza qui e i viaggi intrapresi. 

Se ogni luogo è un mondo, se ogni luogo ha qualcosa da dire, come insegnano Gianni Celati o Vito Teti, guardarlo consapevolmente dona intensità alla vita di ognuno, ecco tutto. O meglio, ecco svelato il rapporto tra un mondo letteralmente finito, quello precedente delle alluvioni, degli abbandoni, delle catastrofi irreversibili, e uno odierno del tutto indefinito, e indefinibile perché mobile e irrequieto come nessun altro. 

Sull’isola di Scano boa, che dà il nome a un doloroso e fortunato romanzo di Cibotto, tra tracce e sentieri di volpi e ossi di seppia, visitiamo i pochi casoni superstiti. Viene naturale rivolgere lo sguardo al mare e poi verso la pianura. Guardiamo da una prospettiva inedita per noi, verso la foce, come scriveva Celati, anche noi ormai, grazie a lui, narratori delle pianure. 

Ed è quasi come se fosse la foce a guardare noi. O come se il Delta avesse un suo sguardo interrogativo, che chieda conto del dimorare odierno, delle nostre macerie, delle rovine e di questa separatezza. 

Se il Delta ci guarda oggi, se chiede conto di un mondo di funzioni, ormai estraneo alla molteplicità della vita, va detto che almeno non c’è più la miseria e l’incertezza del passato. La geografia della scomparsa o del molteplice, da cui il doppio fondo o la matrice rimossa e dimenticata dell’Italia attuale, di questo paese nato dall’esodo biblico di contadini, è la storia dello squilibrio italiano, di un’armonia fallita, ma anche dell’uscita di milioni di persone da una profonda e atavica miseria di cui queste terre, fino a qualche decennio fa, assurgevano a terribile emblema.

 sandro abruzzese