L’inconscio del cratere irpino

Alta Irpinia

**Articolo comparso in precedenza qui su Lo stato delle cose

Il 20 maggio del 2012 la terra tremò in tutta l’Emilia. Fu una scossa di magnitudo 6.1 L’avvertii nel cuore della notte, ero a Ferrara con Rita e il nostro primogenito. Non ricordo perché non riuscissi a dormire, fatto sta che la sentii chiaramente arrivare in superficie, la scossa. Prima pensai a un autobus, al rumore caratteristico degli pneumatici delle automobili in accelerazione sui selciati di sassi arrotondati delle città padane. All’improvviso, però, la forte oscillazione mi impedì qualsiasi movimento. Nel tentativo istintivo di fare qualcosa, rimasi in sospensione sul corpicino del piccolo Stefano, di soli otto mesi, che continuò beatamente a dormire. In pochi minuti ci rifugiammo in auto nei pressi di un giardino comunale, a lato di un quartiere popolare gremito di europei orientali, maghrebini e meridionali come me. La città, spaventata com’era, aveva un altro e irriconoscibile volto. Di mattina presto entrai in un bar pieno di bicchieri e bottiglie frantumate, chiesi e subito ottenni, da una donna gentile che raccoglieva cocci, del latte caldo per il bambino.

Perché ripenso all’Emilia per scrivere del rapporto col sisma irpino del 1980? Forse perché provai, in quel frangente, oltre alla paura, un inatteso sentimento di riconciliazione. Avevo avuto, anche se c’erano mille differenze, l’iniziazione al sisma e ora potevo capire, o almeno avvicinarmi a capire, ciò che era accaduto in quel 23 novembre 1980. 

Il fatto è che all’epoca avevo solo due anni. Dunque sono cresciuto, come tutti quelli della mia generazione, con un evento fondante, uno spartiacque per la collettività, di cui non avevo alcun preciso ricordo se non per via dei tanti racconti familiari. Troppe cose, di ciò che ci circondava, avevano avuto la loro genesi o propulsione nell’evento sismico. Tante, troppe speranze e progetti spesso, durante le conversazioni degli adulti, si concludevano con la solita frase dal tono lapidario: E poi? E poi ci fu il terremoto…

Nella mia mente, di quegli istanti infiniti ci sono immagini, scene, azioni, completamente ricreate per via delle innumerevoli storie ascoltate nel tempo. So dov’erano e cosa facevano i miei fratelli. Pare che tutti tentassimo di fuggire ma la porta di casa, che dava sulle scale, per via dello scuotimento, fino all’ultimo, non riuscì ad aprirsi. Conservo poi un’immagine sfumata, il tendone davanti alla porta del nostro garage, dove, credendoci al sicuro, avevamo preso a dormire, accampati alla buona, insieme ai nostri cugini. E so pure come morirono, quella domenica pomeriggio, molti giovani recatisi alla discoteca di Sant’Angelo dei Lombardi, o quelli che aspettavano 90esimo minuto alla televisione per guardare i goal della serie A. 

Infine, conosco bene i prefabbricati usati per ospitare chi aveva perso la casa. Erano bianchi, lunghi e stretti. Per anni vi ho giocato all’interno, adorandoli come casupole magiche, senza curarmi del compensato rabberciato, dell’odore di muffa proveniente dall’impiantito, di uno spazio insalubre, angusto e claustrofobico. Negli anni i prefabbricati presero a far parte del paesaggio, nessuno se ne curò più, alcuni sono ancora lì in bella vista. E non solo loro. Spuntavano qua e là, al fianco dei vecchi casolari in pietra, nuove villette geometrili bianche, progettate cioè da geometri che si sbizzarrivano ad aggiungere archi e cuspidi dappertutto. Soppiantavano o si sommavano, questi progetti, ai casolari, alle stalle e ai fienili. Ho assistito con la naturalezza e l’ingenuità degli adolescenti alla violenta produzione dello spazio confuso irpino, che cancellava definitivamente i caratteri più o meno originari di un’intera civiltà precedente. La confusione denotava la cavalcata di un’onda inarrestabile, la corsa di tanti destini individuali alla contingenza. Vi era la miope corsa a demolire per alzare palazzine di più piani, vi furono le distruzioni dei centri storici, la deportazione di interi paesi come Conza, la compromissione dei fiumi Ofanto e Sele; tutto questo senza comprendere che la distruzione del territorio e la dilapidazione delle risorse a esso destinate, avrebbero finito per incidere sul futuro non immediato e spinto molti, per diverse ragioni, a cercare fortuna altrove. Da qui le contraddizioni del cosiddetto non-finito di alcuni paesaggi meridionali, ma anche le case nuove eppure chiuse e vuote. Le case che si aprono ad agosto per i parenti del nord Italia, della Svizzera e della Germania. Luoghi di gemmazione e sdoppiamento, dalla doppia anima, affetti da una tenace rassegnazione, da un’incredibile coazione a ripetersi negli errori. E luoghi dove nei confronti della campagna e dei contadini, da parte di una borghesia profondamente avida, si serbava un disprezzo atavico per il lavoro in generale, e per quello manuale e artigiano in particolare. Chi doveva difendere i luoghi, in realtà forse ne disprezzava gli aspetti più caratteristici. D’altronde, non si comprendono alcuni caratteri dell’Italia tutta, senza ricordare la profonda divisione tra città e campagna fino ai nostri giorni, le accese forme d’odio e sfruttamento della prima per la seconda, attenuate solo parzialmente dalla lotta all’analfabetismo e dall’inurbamento.

Inconscio e falsa coscienza

Insomma, quello che cerco di dire è che, nonostante sia cresciuto durante il sisma, possiedo un immaginario mediato, da cui un inconscio e una coscienza del terremoto completamente mutuato, filtrato, assorbito dall’esperienza altrui e dal paesaggio circostante. Eppure questo processo è qualcosa con cui confrontarsi per non sottovalutare la reale portata di eventi del genere nel lungo periodo. 

Magari è da questo evento limite, evento come confine, ridiscussione caotica del territorio come disordine e disarticolazione, che nasce la mia propensione a rappresentare ciò che è frontiera, attraverso la decifrazione dello spazio, che poi mi ha sospinto verso l’Italia fragile, dal Sud alle alluvioni padane, per narrare e fotografarne i paesi. 

L’altra faccia di questo processo interiore, dell’inconscio del terremoto, credo riguardi lo stupore continuo per tutto ciò che invece è in grado di restare, e restare intatto fino a rappresentare il trait d’union tra passato e presente, tra strati di epoche, fatto di tracce costitutive di una maglia di continuità che regge il peso e sostiene in maniera più uniforme e dialettica il cambiamento, lo sviluppo, fino ad assumere la forma di un progresso collettivo. 

I paesi e le città allora divengono libri aperti. Osservare paesi e abitati secolari, originati magari da grotte scavate nella pietra e nel tufo, ben conservati e integrati in reti territoriali, scoprirne effigi, lapidi, su antichi muri e borghi, viuzze e mulattiere, dona ancora, a chi come me è cresciuto nei paesi del dopo-sisma, una sensazione di assoluta vertigine. 

Questa propensione all’archeologia dei luoghi e del paesaggio forse nasce da un analfabetismo di fondo, è una risposta al fatto che qualcosa si è interrotto nella cognizione, nella capacità di ripensare e riordinare mentalmente origini e genesi dei posti più prossimi. Qualcosa di questa interruzione conserva in noi, come cristallizzata, un’ingenua volontà di sguardo, indebolita però dall’inadeguatezza analogica alla compresenza di tempi. Incapacità sviluppatasi nell’assenza del paragone col passato. Non avendo cioè alcuni termini di paragone. Assenza che diviene motore di una nuova e caparbia volontà di comprensione.

Interruzioni e partenze

Ebbene se l’interruzione sismica è congelamento, stasi, al pari di una Cortina di ferro, per certi aspetti mi accorgo che si tratta di un lungo intervallo etico e estetico, dunque civile. Sono venute meno categorie interpretative, decodificazioni, competenze. 

Guardare le fotografie d’epoca dell’Irpinia, per esempio, a distanza di anni, resta sempre un’epifania e uno shock. Quell’armonia e misura perduta è ai miei occhi inconcepibile poiché per chi viene dopo si tratta di elaborare e convivere con una tabula rasa fatta di assenze ingiustificate e sottrazioni. Tuttavia le stesse immagini e fotografie provano che siamo stati, nel mondo preindustriale, all’altezza dell’incredibile mosaico di patrie e di varietà che è la penisola italiana. E questo a sua volta svela il complesso di inferiorità generato dalla catastrofe prima ancora che dall’urbanizzazione di massa. Complesso di chi è cresciuto senza più memoria né storia. 

In Irpinia, dunque, il terremoto è più presente di qualsiasi memoria. È il reset continuo del sisma a trasformarci definitivamente in abitanti delle riserve, a cui si somma il gap della provincia interna, anonima, priva degli strumenti, dei capitali, dei simboli per gareggiare e trovare un posto nell’immaginario collettivo nazionale. Battute come il Molise non esiste, che tradiscono una totale adesione ai soli valori del potere e della ricchezza calati in uno stile di vita urbano, potrebbero essere estese all’Irpinia come al Polesine e alla Lucania, alla Calabria come all’Appennino emiliano, alle Prealpi o alle isole. Per inciso, sono battute che a loro volta tradiscono il deficit di cultura democratica di un paese, l’assenza di reciprocità prospettica e di equilibrio tra le sue varie parti.

Di fronte a luoghi e paesi senza catastrofi, ma anche senza problemi come disoccupazione, o malavita, la sensazione è di essere nati orfani. Di essere fratellastri, o profughi del cortocircuito del sisma, nonché del cortocircuito dello squilibrio italiano chiamato Questione meridionale. Quest’ultima dà l’occasione di ricordare che la catastrofe, così come il virus Covid19 ribadisce, non è uguale dappertutto. Il suo impatto, la possibilità e velocità di ripresa, non è la medesima in ogni luogo. La catastrofe colpisce mortalmente chi è più fragile, povero, disuguale, individualmente e collettivamente. E nel contesto meridionale, affetto da emigrazione giovanile costante, la debolezza del tessuto sociale rende la politica un morbo onnipresente, in grado di insinuarsi ovunque. Non devo di certo andare lontano per riportare alla memoria la sensazione oppressiva di sapersi ostaggio dello strapotere politico locale cementatosi col sisma. Il fatto è che occorrerebbe interrogarsi su quanto questo stato di cose, nel mio caso come per le altre generazioni, influisca sulla decisione, a volte definitiva, di partire. Se la mia decisione è legata alla ricerca di un lavoro dopo la laurea, che dopo l’Università di Napoli mi ha portato in Veneto e in Emilia, le nuove generazioni preferiscono anticipare un passaggio e trasferirsi direttamente nelle ricche università del centro-nord. Allora partire oggi non è più solo una questione di lavoro, ma anche la ricerca di un ambiente politico, sociale e culturale libero dal ricatto. In assenza di cambiamento, nel protrarsi irrisolto degli stessi problemi che avvantaggiano pochi a discapito di molti, in istituzioni assenti perché piegate a logiche antidemocratiche, è anche così che si inocula e diffonde l’idea della partenza come liberazione. A riguardo ogni ritorno, benché fugace, resta un perpetuo promemoria dell’ignobile tracotanza politica nostrana. Non potrò mai dimenticare, durante le varie elezioni comunali e nazionali, mentre appena diciottenni noi ragazzi ci recavamo per la prima volta al voto, l’immagine dei politici locali in presidio davanti alle scuole elementari. In spregio alla legge, quelle figure si stagliavano sulla soglia dell’ingresso, facendo del loro corpo un monito esplicito e un’umiliazione bruciante. Ritengo che la declinazione del potere e delle istituzioni siano un punto essenziale almeno per una parziale inversione dello sradicamento spirituale dei giovani che decidono di partire.

Paesi fragili e immaginario

Se però uno dei problemi invalicabili del discorso sulla provincia è nella ridotta capacità di rinnovamento, da cui la fragilità intellettuale e istituzionale dei paesi, la perdita di intere generazioni, l’assenza di continuità generazionale, vanno arrestate per non abdicare a qualsiasi capacità propulsiva o possibilità di ricambio per l’avvio di un processo lento, diffuso, esteso. Anche qui siamo nell’alveo della Questione nazionale, ovvero nel rapporto squilibrato tra città e province, Nord e Sud del paese, e in generale nel rapporto con una classe dirigente e una società che non si curano del vincolo di responsabilità nei confronti dei giovani. A nulla valgono le retoriche sulla rinascita dei borghi senza la presa in carico di questa risposta intergenerazionale. Che un borgo, o meglio, una vallata, rinasca, dipende anche da quanto le comunità saranno in grado di unirsi per rispondere ai desideri e alle aspettative dei loro futuri abitanti. Lo dico perché è quanto successo alla nostra generazione, quella degli anni ’80, figlia di questa violenta accelerazione dei luoghi più poveri del paese, la quale compì un passaggio ulteriore. Complice l’avvento della tv commerciale, negli anni ’80 e ‘90, dopo che la faglia aveva separato il corpo dei paesi dai nostri corpi, altre scosse allontanavano i nostri desideri dai luoghi rurali e semplici. Ne nasceva un nuovo senso di inadeguatezza. Desideri che non trovavano spazio nella rappresentazione dell’Italia all’americana portavano ora al regresso dei paesi a colonie senza pionieri. Lontano riflesso di qualcosa d’altro, la recisione si faceva evasione e sogno americano. Indietro restavano località smunte, di soli anziani, ormai prive di qualsiasi visione futura. L’avvento della tv di massa pian piano ci ha portati lontano, in un altrove irreale a cui abbiamo creduto ciecamente. Si è trattato di un processo globale, certo, ma la virulenza con cui si è abbattuto sui paesi già prostrati dell’entroterra si è rivelata di portata devastante, perché è più difficile tornare indietro e riparare i danni. Mi sembra chiaro che senza una visione strategica nazionale del paese, senza una politica culturale di ampio respiro democratico, i luoghi più fragili sono destinati a sgretolarsi in preda ai crescenti squilibri come alle spinte disgregatrici provenienti dall’esterno, come accaduto a noi. Vivere in un sistema-paese legato a un’economia-mondo, rende i margini e le periferie dipendenti dalla lungimiranza di una risposta sinergica tra locale, nazionale, e Unione europea.

Memoria condivisa e conti*

Al rammarico per le occasioni sprecate si potrebbe sommare il fatto che, del terremoto, a distanza di quarant’anni, non esiste ancora una memoria condivisa, basata su una ricostruzione oggettiva per una rielaborazione dell’accaduto. La catastrofe è stata sì oggetto di attenzione da parte di scrittori, giornalisti, cineasti, vanno qui ricordati almeno per gratitudine i lavori coraggiosi di cronisti come Goffredo Locatelli (Irpiniagate, Newton e co, 1989), Enrico Fierro, Rita Pennarola, Andrea Cinquegrani (Grazie, sisma, La voce della Campania ed., 1990); ma nel frattempo le fragilità di cui abbiamo parlato poc’anzi, la pervasività di un’idea feudale della politica e dei rapporti sociali, hanno già vinto sulla memoria. Ecco che il paese reale e materiale, i veri posti di lavoro, la loro lottizzazione, si impongono su qualsiasi ricostruzione storica o costituzione ideale. Vengono meno i valori di giustizia e uguaglianza. È una dinamica che scinde e allontana da una coscienza democratica, dalla formazione di una dignità individuale e collettiva; ed è un sisma morale ininterrotto la cui vastità di proporzioni lacera e divide ulteriormente, avviando una lunga scia di sudditanza politica e psicologica non ancora scalfita. Possiamo parlare, riguardo al sisma, di una vera e propria rimozione collettiva, come se questo evento, la sua portata, avesse coinvolto e corrotto troppo a lungo e in profondità, per cui pacificarsi con certe vicende è più semplice cancellandole tout court. Meglio l’amnistia generale o la versione confusa di una vulgata popolare piuttosto che un discorso consapevole e maturo, che funga da monito per le future generazioni, basato su responsabilità e capacità autocritica. La rimozione è frutto dell’inconscio, di un senso di colpa generalizzato eppure recondito, nascosto, poiché troppi sono stati i compromessi fraudolenti, indebiti, le concussioni e gli abusi. Anche così si spiega il cono d’ombra prodotto dall’Irpinia sulla pagina nera del terremoto.            

A dispetto delle ricostruzioni, se chiedessimo in giro, alla gente comune, un giudizio sulla percezione degli eventi passati, mi sorprenderebbe se De Mita e sodali, padroni indiscussi di feudi personali, non assurgessero al ruolo di benefattori. Sono loro ad avere portato il lavoro, si dice, e nessuno sembra chiedersi, però, a quale prezzo e per quanto tempo. È un rapporto distorto con lo stato, soprattutto per colpa di come quest’ultimo si presenta ai margini. Perciò occorre dire che se il terremoto ha distrutto le case e i paesi, la gestione del terremoto ha finito per drogare e accelerare il metabolismo dell’intera regione, ingigantendo il potere della politica come della camorra, velocizzando processi, trasformando la mentalità delle persone e delle comunità. È stato un processo dall’alto, con cui si è definitivamente imposto e configurato il sistema politico-clientelare della Democrazia cristiana, in una resa dei conti tribale, attraverso vere e proprie faide.

Catastrofe e lontananza

Tornando all’inconscio, una delle paure personali ricorrenti rispetto alla terra d’origine è che il terremoto prima o poi ritorni. Immagino di scoprirlo alla televisione, qui in Emilia, dove attualmente vivo. Ho paura di essere in casa a guardare la tv e inavvertitamente il tg di Rainews24 lancia un servizio come tanti. Magari è notte, oppure al contrario il sole primaverile illumina il volto del giornalista e le colline sullo sfondo. Fatto sta che all’improvviso riconosco una piazza, una strada, una casa. Insomma, accade ancora, come nel ’30, come nel ’62, come il 23 novembre 1980. La striscia in sovrimpressione scivola con i suoi implacabili numeri e qualche errore ortografico, la magnitudo, le dichiarazioni dei politici, della protezione civile. Intanto gli istanti si dilatano, i pensieri non trovano un ordine. Le persone care, i miei genitori, mia sorella, mio fratello, amici e conoscenti, sono tutti lì nel cratere e, ancora una volta, ne sono distante. La cosa strana è che se mi preoccupo delle loro condizioni, dei morti, dei feriti, mi rendo conto che la paura è anche di non riuscire a tornare. Di non aver modo di farlo, per via dei bambini o del lavoro. Capisco che, oltre alla preoccupazione per gli altri, oltre il sisma, che in fondo considero inevitabile, c’è il timore recondito di non esserci. L’incubo non è restarne fuori, al sicuro. Fuori da casa, fuori dal pericolo. Si può essere altrove nella normalità – sembra dire la mia paura ricorrente – addirittura durante le feste o i momenti di gioia, ma non nel dolore. Non saremmo parte dei luoghi, se non ne condividessimo il dolore. È un’assenza che recide. Sono disposto a vivere lontano, a frapporre lo spazio consueto, inteso come distanza, e il tempo prestabilito, a patto però che siano neutri, lineari, consequenziali. A patto che ogni cosa si incaselli nel suo quadratino così come è stato pensato. È l’abitudine a un certo tempo razionale, metodico, ripetitivo. Invece la catastrofe corre e, distruggendo, cancella il mondo com’è, cancella il suo senso. Ruba lo spazio e il tempo. La catastrofe ridiscute e riduce. E, frapponendo altra distanza, svela che esistono diversi tipi di lontananza. Lei è madre di una lontananza spaventosa e irraggiungibile, ha la forza centrifuga per atomizzare, e può divenire un punto di non ritorno. Credo sia il rischio di una distanza assoluta a essere inaccettabile per chi, come me, è determinato a restare per sempre, nonostante l’emigrazione, parte di quella vicenda particolare che è il paese natale.

Comunque sia, questa paura denota quanto possa essere traumatica, profonda e estesa la ferita del sisma per individui cresciuti a ridosso del cratere, durante e dopo l’evento catastrofico. Permangono tante conseguenze invisibili, la cui profondità non sempre è misurabile, per cui l’inconscio del terremoto riporta in superficie la sua impronta indelebile, e costringe volta a volta a fare i conti con se stessi e con il mondo circostante, così come esistono tanti modi per restare e tornare in luoghi dolenti, dalle forti contraddizioni, che meritano, prima di qualsiasi giudizio, tutta la dedizione e l’attenzione possibile.

sandro abruzzese

Nota biografica

Sandro Abruzzese, migrante interno, è nato in Irpinia e, dopo aver vissuto a Napoli e nel veronese, attualmente risiede a Ferrara, dove insegna materie letterarie in un istituto d’istruzione superiore. 

Per i tipi di Manifestolibri ha pubblicato Mezzogiorno padano (2015), menzione speciale al Premio San Salvo. 

CasaperCasa, (Rubbettino 2018), il suo secondo libro, è inserito nella collana Che ci faccio qui?, diretta dall’antropologo Vito Teti.

Si occupa di Questione nazionale sull’Osservatorio del Sud, suoi contributi sono apparsi su quotidiani e blog letterari tra i quali Doppiozero, Le parole e le cose, e Poetarum silva.

Link al libro inchiesta sul terremoto di Enrico Fierro, Andrea Cinquegrani, Rita Pennarola: Grazie, sisma

*Nota su Irpiniagate di Goffredo Locatelli

L’inchiesta di Goffredo Locatelli, Irpiniagate (Newton compton editori, 1989), pubblicata ben 9 anni dopo il sisma, offre una serrata disamina degli eventi di cui sopra. Tralasciando le trame più losche, che vedono l’impegno democristiano per la scarcerazione dell’assessore Cirillo, rapito dalle Br, tramite la camorra di Cutolo e forse con soldi del terremoto, sappiamo che la spesa erogata al 1989 è di 47.000 miliardi di lire su 63.000 preventivati, per compensare più di tremila decessi e 362.000 case danneggiate. Nel frattempo i comuni colpiti passano da 339 a 687. 

Lo stato versa 15.000 miliardi per i privati, il resto rimane bloccato nelle banche e frutta svariati interessi che innalzano il valore delle azioni degli Istituti di credito come la Banca popolare dell’Irpinia. Valga ad esempio l’operato del sindaco democristiano di Bisaccia e Ministro per il Mezzogiorno Salverino De Vito che, ricorda Locatelli, acquista 400 container per 10 miliardi, prefabbricati mai usati, venduti dalla Isopol del sindaco democristiano di Montemiletto Vittorio De Sanctis, suo amico e presidente degli industriali irpini.  

A scegliere le industrie per la creazione delle zone produttive del cratere è, non del tutto autonomo ovviamente, Giuseppe Zamberletti di Varese. E le zone prescelte dalla commissione Fasano, composta da democristiani e qualche socialista, sono quelle di Nusco, paese di De Mita, con tre aree industriali per 14 aziende; l’area di Calaggio, con 9 industrie, nel comune del sindaco di Bisaccia De Vito; Morra De Sanctis, amministrata da socialisti, che prevede 3 industrie sul suo territorio, paese dell’astro nascente e pupillo demitiano Giuseppe Gargani. La commissione presieduta dal prefetto di Salerno Nestore Fasano si avvale di due strumenti tecnici per valutare le candidature dell’aziende: un’istruttoria bancaria e una industriale, tuttavia per ben 17 aziende ignora il parere negativo dell’istruttoria bancaria e per 8 quello dell’istruttoria industriale.

È la nuova Irpinia, labirinto di leggi, ben 17, ammetterà Mattarella rispondendo in parlamento a 26 interrogazioni parlamentari. Ma il problema sembra essere evidente già a monte: le concessioni vengono date senza gare d’appalto ad aziende a volte prive di requisiti. Basti dire qui che un’azienda come l’Infrav si aggiudica i lavori per la Lioni-Nusco sebbene dal 1968 la Ferrocemento di Roma, che ne fa parte, non abbia ancora ultimato la diga di Conza, il cui prezzo nel frattempo è salito da 14 a 100 miliardi di lire.

Non basta? 

Prendiamo allora il consorzio Incomir, di cui, come attesta Locatelli, fa parte il trentino Ito Del Favero, amico dell’ex segretario Dc Flaminio Piccoli, oppure prendiamo l’Italimpianti e la società Intera di Avellino, guidata da un amico del già citato De Vito. L’Incomir si aggiudica 200 miliardi per infrastrutture da Calaggio a San Mango. Ci sarebbero 200 miliardi all’iclc di Napoli. Ma il bello è che quando dalle concessioni si passa agli appalti e la legge non prevede più controlli, ecco che subentrano i potentati locali: a Calaggio lavora il Corin presieduto da Michele De Mita, altri protagonisti sono il democristiano Giuseppe Bonavita, piccolo appaltatore, oppure Giuseppe Castellano, una volta assessore democristiano di S. Angelo dei Lombardi. 

Quanto alle industrie che arrivano dal Nord, riporto sempre dal libro di Locatelli, vengono definite da Aniello De Chiara, Presidente socialista del Consiglio regionale della Campania, scarti e aziende obsolete, che si muovono per mettere le mani su quel 75% dell’investimento elargito dallo stato. Vengono anticipati 1000 miliardi per 152 aziende, ma molti incasseranno i soldi senza proseguire, e altri non rispetteranno i termini degli accordi, fino a costringere il governo, ormai siamo nel novembre del 1986, a riaprire i termini per nuove domande di insediamento. Un’implicita ammissione di fallimento.

Resterebbero le infrastrutture. 

Alcune sono in completamento ancora oggi: la Lioni-Grottaminarda, per esempio. Nel complesso la previsione, seguendo Locatelli, era di 1750 miliardi per 150 km di strade, 10 miliardi a chilometro, ma la Fondo valle Sele viene realizzata solo per il 60%, così come solo parzialmente viene realizzata l’Ofantina, e restano al 1989 incomplete le aree di Buccino, Palomonte, San Mango. Ci sarebbe poi l’articolo 21 a destinare alle imprese di Campania, Puglia, Basilicata un contributo che arriva fino all’85% dell’investimento a carico delle finanze pubbliche (1550 miliardi). In molti casi si gonfiano artificiosamente i computi metrici delle perizie del terremoto per sottrarre ancora altri fondi.

Nello stesso periodo, dice Locatelli solo per operare un raffronto, gli americano con 80 milioni di dollari di donazioni, dunque autogestendosi dall’ufficio creato appositamente a Napoli, realizzano ben 28 scuole. 

Se la domanda è dove sono finiti i soldi del terremoto, la risposta secondo la ricerca del sociologo Caporale, della Saint John University di New York, è che il 20% del denaro è andato ai politici, un altro 20% ai tecnici della ricostruzione, il resto è andato alla Camorra, alle imprese del Nord, agli imprenditori locali. 

Infine, è lo stesso Mattarella, nel rispondere alle già citate 26 interrogazioni parlamentari, ad ammettere che il ginepraio irpino ha una gestione contestata anno per anno dalla Corte dei conti, e a 8 anni dal sisma, con 47.000 miliardi stanziati, lascia ancora famiglie senza tetto, e mancate ricevute e documentazioni di spese per centinaia e centinaia di miliardi.

Questi alcuni fatti sulla gestione del sisma, in cui è stato dilapidato il futuro di un’ampio territorio che avrebbe potuto avere un’altra storia. 

Particolare di Calitri